Perché ne stiamo parlando? / Cinque idee su “Joker”

17 Ottobre 2019

Uno dei trailer del Joker interpretato da Joaquin Phoenix e diretto da Todd Phillips presenta il film come un classico già consacrato: un instant classic. Molti dei trailer riempiono lo schermo con le cinque stelle e giudizi sfolgoranti assegnati dalle tante, entusiastiche recensioni ottenute. In realtà, la ricezione complessiva del film è stata più contraddittoria. Alle entusiastiche anticipazioni e recensioni degli invitati al Festival di Venezia, dove Joker ha vinto un Leone d’Oro, sono seguiti giudizi più critici e non poche stroncature, raccolte intorno a una duplice tesi di fondo: che il film fosse un vacuo esercizio di marketing e, implicitamente, che i primi giudizi entusiastici fossero l’esito di un abbaglio. 

Joker è diventato un “caso” ancora prima ancora che spettatori e critici l’avessero visto. Sin dai primi trailer, il film è riuscito a dividerli in due fazioni significativamente polarizzate. La prima rimarcava le promesse artisticamente esaltanti dell’opera e la sua riflessione sui nessi tra alienazione, disagio sociale e rivoluzione. La seconda poneva enfasi sui possibili rischi di un’estetizzazione della violenza e di un messaggio dal potenziale politicamente eversivo. A queste riflessioni se ne accompagnavano altre, riguardanti il rapporto del film con i generi di riferimento della new Hollywood e dei cosiddetti cinecomic, il premio ottenuto a Venezia e il sistema valoriale in cui avevano preso forma tali giudizi estetici, artistici e politici. 

 

Todd Phillips.


Queste direttrici hanno continuato a orientare il dibattito anche dopo l’uscita del film. E se le prime stroncature di alcuni critici influenti davano l’impressione di un fiasco annunciato, il successo al botteghino ha premiato Joker anche commercialmente. Il risultato è che il film di Phillips è diventato, al tempo stesso, manifesto anarchico e prodotto conformista, estensione-omaggio della New Hollywood e inusuale cinecomic, analisi del populismo e apologia degli involuntary celibate, tragedia grottesca e melodramma macchiettistico, film di destra e di sinistra

Come ha notato Jordan Hoffman sul “Guardian”, è raro che un film susciti reazioni talmente polarizzate ed estreme fin da prima della sua visione. Se il giudizio collettivo sull’opera esibisce i caratteri di una profonda contraddittorietà, i cui esiti si comprenderanno forse solo con la sua sedimentazione storica, l’accumularsi delle opinioni e delle recensioni è stata istantanea, e di una portata tale da intimidire o scoraggiare chiunque tenti di offrire un’analisi in grado di discostarsi da direttrici interpretative già consolidate, o persino di offrirne una ricognizione sommaria. 

Qui tenteremo di presentare solo alcune delle idee emerse nel dibattito su Joker fino ad oggi. Queste idee si sovrappongono (e soprattutto si contrappongono) molto spesso, e la loro presentazione non ambisce ad alcuna esaustività, ma solo a fare un provvisorio punto di un affresco discorsivo che potrebbe divenire più ampio nel prossimo futuro. Oppure, semplicemente cadere nel dimenticatoio.

 

1. Un capolavoro, un buon prodotto o solo un film mediocre?

 

Un “capolavoro anarchico”: questa è la posizione di quegli spettatori e critici per i quali Joker è un film dalla esecuzione impeccabile, impreziosito dalla performance eccezionale di Joaquin Phoenix. Dalle prime reazioni dei tweet degli spettatori in sala fino all’endorsement di Michael Moore, le reazioni perlopiù entusiastiche si concentrano proprio sulla capacità dell'attore di reggere uno studio sul personaggio che costringe lo spettatore a immedesimarsi con una vittima di violenza che è al contempo un assassino narcisistico. Gli abusi e i torti subiti da Arthur Fleck si rovesciano in sangue e morte, rivolta e caos: una sorta di rovescio amaro della risata del clown, che Phillips offre agli spettatori come chiave di lettura in apertura del film. Molti celebrano però anche l’insieme della confezione tecnica: dalla regia alla scenografia – che ricrea una Gotham-New York di inizio anni Ottanta – alla sceneggiatura, che, per quanto basata più sull’accumulo di trovate che su una coerente sequenza di fatti, è estremamente efficace nel trascinare il proprio pubblico verso l’abisso.

Le letture meno entusiastiche tendono a smorzare i toni: come ha notato Massimiliano Spanu nel corso di una lezione al DAMS di Gorizia, è difficile parlare di Joker come di un film rivoluzionario sul piano linguistico, narrativo o tematico. In effetti Phillips si rifà soprattutto ad alcuni celebri titoli della New Hollywood, come Il braccio violento della legge (1971), Il giustiziere della notte (1974), Taxi Driver (1976) e soprattutto Re per una notte (1983), al quale Joker rende esplicito omaggio, con De Niro che prende il posto di Jerry Lewis. Questa ricorsività cinefila o mise en abyme ipertestuale è la delizia ma pure la croce del film: nonostante la confezione di prim’ordine, Joker dice al tempo stesso troppo (soprattutto sul personaggio, rimuovendone gli elementi di non-detto e le contraddizioni) e troppo poco.

 

Zazie Beetz.


Un terzo tipo di giudizio sul film lo iscrive nel novero dei prodotti artsy costruiti a tavolino dagli Studios. In questo caso, i pregi elencati fin qui risultano delle eccezioni o vengono rovesciati in difetti. A guidare le fila dei detrattori è Peter Bradshaw, che sul “Guardian” lo definisce senza mezzi termini “la delusione dell’anno”. Secondo il critico britannico, Joker tenterebbe di impostare una critica anticapitalista, rivelandosi invece derivativo e pretenzioso. Altri, come Stephanie Zachary di “Time” puntano il dito contro l’umorismo di Phillips, in cui le figure di maschi disfunzionali (Road Trip, 2000; Old School, 2003) solo in apparenza si prendono gioco del maschilismo WASP, palesando al contrario una problematica ambiguità ideologica (anche in Joker, il regista relega i personaggi femminili e non-bianchi ai margini della storia). Letto in questa chiave, Joker è un film intriso di una filosofia d’accatto, oscuro solo in un modo “stupido e adolescenziale” o addirittura socialmente pericoloso.

 

2. Incel e mass shooters

 

Incel, contrazione di involuntary celibate, è un termine di origine relativamente recente con il quale ci si riferisce fondamentalmente a una tipologia di maschio che non riesce a costruire relazioni sessuali e detesta chiunque altro ne sia capace, dalle Stacy (donne attraenti) ai Chad (uomini attraenti) fino ai normie (non-incel non attraenti ma in grado di avere partner). Difficile ascrivere il termine a una precisa ideologia, ed è forse più efficace collocarlo all’intersezione di diverse narrative, da quelle più ampie del patriarcato e del suprematismo bianco a quelle più specifiche della manosphere e di movimenti come il men’s rights activism. Arthur Fleck è un uomo mentalmente instabile, incapace di relazioni funzionali, vittima di bullismo, che vive ancora con la madre in un rapporto di forte ambiguità, e avvia una relazione “inconsistente” con una donna attraverso una fase di stalking. Non solo diventa un assassino, ma finisce per causare omicidi di massa. 

 

 

Se tutto ciò possa generare o meno fenomeni di emulazione è stato dibattuto soprattutto negli Stati Uniti, dove sparatorie di massa e terrorismo bianco associato a crimini d’odio sono all’ordine del giorno, rinfocolando un continuo dibattito che ascriverebbe all’arte una responsabilità forte nell’istigazione della violenza. In effetti, Joker tocca almeno due nervi scoperti della società americana: quello delle ideologie razziste di estrema destra, e di come riescano a intercettare i giovani maschi bianchi; e quello degli effetti dei media. Prima ancora di vedere la luce, il film di Phillips era già pronto per innestarsi nel dibattito, poiché una parte dei media sostiene che già il Batman di Christopher Nolan abbia ispirato James Holmes, che nel 2012 ha aperto il fuoco in un cinema del Colorado, proprio durante la proiezione de Il Cavaliere Oscuro-Il ritorno. Qui le interpretazioni divergono tra chi si scaglia contro un personaggio come Joker, che rovescia la violenza subita in un crimine ben peggiore e che offrirebbe una forma di immedesimazione apologetica (Joker come “santo patrono degli incel”) e chi fatica a ritrovare nel film riferimenti diretti a queste tesi (il personaggio non coltiva fantasie di stupro o di omicidi di massa, e resta tratteggiato in maniera piuttosto generica). 

 

3. Un film post-ideologico? 

 

Una caratteristica sensatamente in comune a quasi tutti gli sguardi su Joker è il riferirlo al presente politico. L’idea che la sua narrazione corrisponda a quella dei maschi bianchi autori di stragi, il cui “indifferente vuoto maniacale” si rivela essere “nient’altro che lussuria lumpen neofascista” (così la recensione di David Ehrenstein di Re per una notte, riportata da Aaron Freedman su “Jacobin Italia”) era già stata avanzata a proposito de Il Cavaliere Oscuro e del supposto bias neocon, attraverso l’antinomia fra un Batman-George W. Bush e un Joker-anarchico. In questo senso il nuovo Joker, che confonde la protesta di sinistra con la violenza di destra, viene scambiato per anarchico mentre in realtà è molto più affine al discorso della cosiddetta alt-right. “Da un lato ammicca alla devianza come frutto sociale (i tagli dei fondi all’assistenza psichiatrica, la perdita del lavoro, l’arroganza degli yuppies)”, ha scritto Francescomaria Tedesco, “dall’altra “rappresenta” (per l’appunto) la racaille, la ‘feccia’ della società, come bestia senza volto (ovvero mascherata) dedita alla devastazione cieca”. 

 

 

Visto da un’altra angolazione, invece, Joker sarebbe un film che parla in maniera coraggiosa e importante di due rimossi ideologici: la classe sociale e lo stigma della salute mentale. Queste letture si intrecciano con le preoccupazioni del punto sopra sul pericolo sociale dei media, ma le rovesciano di segno: Joker attacca alle radici l’ideologia neoliberale della meritocrazia, ambientandola in una Gotham che assomiglia molto più la New York reale di quanto i rimandi all’immaginario dei fumetti DC possano far credere. Più che un’apologia degli incel, sarebbe un film su un mondo in cui banchieri e milionari vivono sorretti dai sacrifici delle fasce vulnerabili: non-abbienti, madri single, anziani, persone con disabilità che affollano case diroccate, accusati di essere dei buoni a nulla e dunque la causa della propria povertà, nel momento stesso in cui risultano stritolati dagli ingranaggi di una società cinica e ineguale. Il film di Phillips sarebbe anche un social drama che dipinge una storia di orrore reale, quella del rapporto tra austerità e malattia, in grado di restituire centralità un “diverso” che la storia del cinema ha da sempre confinato nel ruolo dell’antagonista, la cui purificazione è affidata all’eroe normo- o iperdotato. Joker parlerebbe quindi non di supereroi, ma di un mondo in cui chi soffre di una disabilità (nello specifico, la sindrome pseudobulbare) è un “malato di mente” costretto a nascondere la propria malattia e vivere ai margini della società dei fit-for-work. Per una volta il disabile risponde ai colpi: il Joker non è più, come nel Cavaliere Oscuro di Nolan, un agente del caos, ma un vendicatore con un obiettivo. 

 

4. Cinecomic e no 

 

Un altro tema fondamentale nei dibattiti su Joker è se si tratti o meno di un film di supereroi. Da un lato, c’è chi rimarca l’aderenza del film alla mitologia e alcuni stilemi del DC Universe; dall’altro, c’è chi nota che il film parrebbe piuttosto collocarsi alla loro antitesi. Un dibattito rinfocolato dalle recenti affermazioni di Martin Scorsese (al quale, abbiamo visto, Joker è fortemente debitore) contro i film di supereroi. 

Entrambe le posizioni non mancano di fondamento. La prosecuzione della mythology della DC di Joker è semi-apocrifa, un pretesto per un film che si discosta nettamente dalle aspettative tipiche del genere (ciò potrebbe in parte spiegare la premiazione a Venezia, tradizionalmente associato a pubblici e generi diversi); i riferimenti al brand sono nel complesso piuttosto blandi, non vi è eccessiva presenza di effetti speciali e il registro adottato è sostanzialmente realistico. 

 

 

D’altro canto, come riferito a chi scrive da Luciano Attinà nel corso di una conversazione, Joker rimette in scena la mitologia dei fumetti DC con un climax finale che ne è un riadattamento “non pedissequo, ma molto più fedele di qualsiasi film di Nolan o Burton”. Gli stessi noir anni ’70 e il film di Scorsese sarebbero in parte difficili da separare da queste fonti nell'immaginario dei fumetti di Batman e di alcune storie di Joker. Inoltre, i cinecomic avrebbero “la capacità di inglobare all'interno di una narrativa derivata dai fumetti elementi estetici e contenutistici provenienti da tutto lo spettro dei generi”, cosa che Joker fa muovendosi all'interno dell'universo simbolico dei fumetti e riferendosi a una serialità transgenerazionale (del resto, come ha notato Gianni Canova, nella stessa metafora che innerva il film, quella del clown triste, rivivono generazioni e generazioni di clown dalle più disparate tradizioni letterarie e cinematografiche). L’idea di Attinà è che Nolan e Burton facciano in fondo meno ricorso a elementi estetici tratti dai comics di quanto faccia Phillips, e che una analisi dei nessi tra film e fumetti (e tra tali rimandi e altri riferimenti e stilemi di genere) andrebbe condotta con attenzione. 

Altre analisi mettono in luce la contraddittorietà di fondo dell’operazione. Ad esempio, per Nanni Cobretti de “I 400 calci”, Joker è e non è cinecomic: lo è “quando deve attirare una larga fanbase e incassare un sacco di soldi e/o quando i fans dei cinecomic vogliono sentirsi rispettati (pardon, ‘legittimati’), e non lo è quando deve vincere premi a festival importanti e/o persone che ci tengono a darsi un tono ne vogliono parlare senza vergognarsi”.

 

5. Un testo-trickster

 

È possibile dunque che Joker nasca con l’intenzione di scatenare controversie? Gli aspetti che sembrano confermare questa ipotesi non sono pochi. C’è, innanzitutto, la scelta di riprendere, con la scena della sparatoria nella metro, la vicenda del Bernhard Goetz shooting, depurandola dagli elementi di razzismo. C’è poi il pezzo di Gary Glitter Rock ’n’ Roll Part 2 (1972), che sottolinea il momento in cui Joker scende trionfalmente le scale: una discesa nell’abisso che ricorda, in un cammino in senso inverso, la difficile scalinata de L’Esorcista. Il pezzo di Glitter era diventato un classico dei match sportivi, un vero anthem da stadio, prima di essere boicottato in seguito alla definitiva condanna per pedofilia a carico della ex rockstar. Duramente criticata da molti (in quanto potenzialmente in grado di offrire ulteriore profitti a un predatore seriale), la scelta non può essere casuale: come ha ricordato sul "New Yorker" Anthony Lane, “qualunque strale estremo lanciato contro il film cade direttamente nella sua trappola, impigliando la nostra attenzione”. 

 

 

Sia chiaro: non c’è niente di nuovo nell’idea del blockbuster come prodotto che ambisce a una “neutralità politica” all’interno della manifattura dei generi (anche se tale apparente trasparenza rischia sempre per legittimare lo status quo). Capolavoro o film mediocre, critica sociale o trionfo degli istinti incel, cinecomic o no, Joker nasce con un grosso budget e forse l’idea, in sé banale e al contempo abbastanza originale, di scontentare ugualmente tutti. Joker è un blockbuster-bait, un testo esca, o meglio ancora un epitesto dei commenti-rete a strascico che, nella congiuntura storica attuale, è impossibile isolare dal corpo testuale del film. Come ha osservato ancora Lane, ogni elemento del film, dai discorsi prima del lancio alla presentazione a Venezia, sembra essere stato studiato per suscitare la polemica: ciò che a noi pare funzionale a un dibattito (incluso questo articolo), in realtà è un servizio al dipartimento di marketing della Warner Bros. 

Poco conta che il film sia ambientato in un’era pre-social media. La democratizzazione e al contempo la crisi dell’attività interpretativa e argomentativa messa in atto dai social network (anche questa rassegna di idee è viziata dalla personale filter bubble di chi scrive), e resa in essere dallo scontro sistemico e quotidiano di posizioni che si dispiegano sotto forma di commenti, articoli, litigi sulle ecologie mediali che abitiamo, fa un servizio a Joker. Vero e proprio testo-trickster, Joker è confezionato a questo scopo da professionisti che continuano a lavorare in una industria motivata da profitti: Phillips dà un colpo al cerchio e uno alla botte purché se ne parli, forse proprio come lo humour “politicamente scorretto” del resto della sua filmografia.

 

La discussione su Joker continuerà per anni o sarà dimenticata tra poco? La compressione spaziale e temporale del tardo capitalismo informatico in cui viviamo, la stessa che genera il film e ne anticipa e accompagna il discorso, è talmente accelerata che questa meta-recensione, scritta all’incirca una settimana dopo l’uscita del film, non solo è già incompleta e selettiva, ma anche obsoleta. La recensione non parla più del film ma del discorso sul film, aspetti che sembrano ormai inscindibili fra loro. Il fatto che sia stata una “Top Five” si deve al tentativo di arginare il pericolo che il vostro indice o pollice si possa trovare da un momento all’altro orfano di un titolo corrente, e dunque immediatamente portato ad abbandonare la lettura e rivolgersi a un altro link o a una notifica in arrivo.

In un futuro prossimo, le intelligenze (o deficienze) artificiali scriveranno sia i film che le recensioni, mentre forse gli umanisti saranno fuori, a sparare come il Joker. 


L’autore desidera ringraziare per le utili discussioni sull’articolo Luciano Attinà, Nanni Cobretti, Gabriele Gimmelli, Massimiliano Spanu, Francescomaria Tedesco.

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