Speciale

Curare il contemporaneo

10 Febbraio 2017

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In occasione del Curatorial Intensive for Independent Curators International (ICI) di Dakar, la scrittrice e curatrice americana Taylor Renee si interroga sul ruolo del curatore nella realtà contemporanea.

 

Durante l’ultima settimana della Biennale Dak’Art 2016, si è tenuto un workshop intensivo di sette giorni al quale sono stata invitata a partecipare insieme ad altri undici curatori, scrittori e produttori culturali. Avendo sempre apprezzato il lavoro dell’Independent Curators International (ICI), ho pensato che sarebbe stata un’esperienza del tutto illuminante e ricca di stimoli.

Avevo, tuttavia, delle riserve. Ho sempre conosciuto il lavoro curatoriale come qualcosa che appartiene unicamente a individui con una rigorosa formazione in storia dell’arte. Eppure, vi è stata un’inversione di tendenza in questo ambito, che ha reso più sfumati i criteri adottati storicamente per determinare chi sia realmente qualificato a svolgere tale lavoro. Oggi è l’artista a rivestire il ruolo di curatore e il curatore quello di artista. Nella realtà contemporanea, il termine “curare” ha inoltre assunto una varietà di significati diversi. Si può “curare” una playlist o il proprio guardaroba. Io stessa mi preoccupo di “curare” le riviste e i libri da esporre sui tavolini del salotto. Ho partecipato al Curatorial Intensive consapevole di questa molteplicità di significati che oggi si addensano intorno al ruolo del curatore. Volevo capire cosa questo potesse significare per il mio lavoro di scrittrice, curatrice emergente e produttrice culturale interessata ad andare al di là dei percorsi tracciati per comprendere la realtà contemporanea.

 

Image of studio visit with Issa Samb by author.

 

Atterrata a Dakar, ho diviso il taxi con un’avvocata di Humans Rights Watch, che mi ha raccontato di Hissène Habré, ex dittatore del Ciad, e del processo che lo vede coinvolto. Nel giorno di apertura del Curatorial Intensive di Dakar, Habré è stato condannato all’ergastolo per aver commesso una lunga serie di crimini atroci, stupri e omicidi. È apprendendo questa notizia che sono arrivata in serata a Dakar. Non sapevo bene cosa aspettarmi, ma ero felice di visitare per la prima volta il continente africano. Forse, ingenuamente, speravo di fare delle esperienze illuminanti che mi aiutassero a dare senso alla mia nebulosa identità di nera americana.

 

Dak’Art 2016 international exhibition, Installation view, Palais de Justice © C&. 

 

Il Curatorial Intensive dell’ICI di Dakar (presente sui social media come #CIDakar) si è rivelato all’altezza delle mie ambiziose aspettative. Durante la settimana abbiamo partecipato a numerosi seminari condotti da esperti curatori provenienti da Dakar, dal continente africano e dal resto del mondo. Abbiamo girato la città e visitato spazi espositivi. Il workshop si è tenuto presso la Raw Material Company, “un centro per l’arte, il sapere e la società” fondato dalla scrittrice e curatrice Koyo Kouoh. È stata lei a tenere il primo seminario della settimana. Durante le tre ore di lezione, Kouoh ha raccontato di aver creato questo innovativo centro culturale per far fronte alla necessità di un dibattito critico nella città di Dakar. Kouoh ha inoltre esortato i partecipanti a “focalizzarsi sul proprio luogo di appartenenza”, ovvero a utilizzare la pratica curatoriale per rispondere alle esigenze del proprio territorio.

Nel corso del workshop, abbiamo preso parte a un seminario condotto dal curatore Simon Njami, direttore artistico di Dak’Art 2016. È stata l’esperienza più appassionante della settimana. Njami ha iniziato affermando che, dal momento che ci trovavamo in un Paese francofono, avrebbe parlato esclusivamente in francese. Al contrario di molti partecipanti, che parlavano almeno due o tre lingue, io e alcuni altri americani ne conoscevamo solo una: l’inglese.

 

Bili Bidjocka, Last Supper: “Do not take it, do not eat it, this is not my body…”, 2016. 13 public performances and installations which take place in different events and cities around the world. Dak’Art 2016 international exhibition, Installation view, Palais de Justice © C&. 

 

Per tutta la settimana, mi sono dovuta confrontare con la mia americanità, con la dimensione politica della lingua, con la mia aspettativa che fossero gli altri a doversi adeguare alla mia lingua. Ero in un Paese di cui non conoscevo né la lingua coloniale (il francese) né quella nativa (il wolof). Di conseguenza, ho provato un senso di vulnerabilità ed esclusione. E mi sono immedesimata ancor di più con i tanti immigrati che non parlano inglese e cercano rifugio in America, costretti a esibire le loro sofferenze davanti alla cultura americana, per poi vedere spesso negata la loro richiesta di accesso ed essere espulsi o incarcerati.

Njami ha iniziato il seminario facendo battute solo in francese, alternando poi inglese e francese e spiegando che per un curatore “è importante conoscere più lingue”. I curatori sono dei traduttori, ha affermato: se non conoscete le lingue, come potete tradurre?

 

Per venirci incontro, Njami è poi passato all’inglese. Ha quindi espresso un sentimento anti-istituzionale, affermando che “i migliori curatori sono quelli che non hanno studiato storia dell’arte”. Nel corso del suo discorso ha più volte ribadito che il lavoro curatoriale non parte da una formazione dogmatica e istituzionale in storia dell’arte, ma da una conoscenza più ampia che abbraccia letteratura, filosofia e vita vissuta.

Njami ha poi sottolineato l’importanza di conoscere a fondo il bacino d’utenza e il territorio in cui si opera. Una visione curatoriale deve considerare lo spazio espositivo dove essa prenderà corpo e l’audience a cui si rivolgerà. L’invito era quello di rimettere al centro luoghi e persone, piuttosto che il canone storico-artistico, così come i curatori sono sempre stati incoraggiati a fare.

Abbiamo potuto conoscere la filosofia curatoriale di Njami attraverso l’opera svolta come direttore artistico per la XII edizione di Dak’Art 2016, intitolata “The City in the Blue Daylight” (La Cité dans le jour bleu). La mostra principale, “Re-enchantments”, ha avuto luogo nel Palais de Justice di Dakar. Ex sede della Corte Suprema del Senegal, l’edificio era rimasto inutilizzato da tempo e versava in evidente stato di abbandono. A fare da sfondo alle opere erano mura cadenti, un cortile dalla vegetazione moribonda e ambienti fatiscenti. Nonostante non fosse più l’edificio di un tempo, il Palais de Justice aveva carattere e vita.

 

Victor Ehikhamenor, The Prayer Room, 2016. Mixed media installation. Dak’Art 2016 international exhibition, Installation view, Palais de Justice © C&.

 

Non sapevamo per certo se l'accostamento tra quello scenario di devastazione e le opere africane contemporanee fosse intenzionale, ma potevamo assumere che lo fosse. Njami aveva dunque riattivato uno spazio che era molto più comunitario di un museo o di qualunque altro nuovo centro culturale. Gli abitanti di Dakar visitavano quindi la Biennale con un senso di reminiscenza, forse anche con il ricordo delle esperienze vissute nell’ex sede giudiziaria. L’idea non era quella di creare una Biennale a Dakar, ma una Biennale di Dakar, che desse un nuovo senso a un luogo già esistente, interagendo con l’ecosistema di Dakar.

Una delle ultime relatrici del workshop è stata la curatrice Nancy Adajania. Il suo seminario è stato tra i più incisivi e stimolanti della settimana. Adajania ha parlato appassionatamente della necessità di abbandonare costrutti identitari che rischiano di divenire dogmatici. Ha affermato un’idea di intersettorialità nella pratica curatoriale, che ponga in relazione dialogica e metta a contrasto le diverse storie tessute insieme dal lavoro del curatore, presentando una molteplicità di verità, piuttosto che un’ideologia unica e immutabile.

 

Ho lasciato Dakar con l’idea che il lavoro curatoriale nella realtà contemporanea debba essere democratizzato. Per riprendere la riflessione di Francesco Bonami, i curatori non sono “irrilevanti”: è il loro ruolo ad assumere oggi un significato del tutto diverso. La rilevanza del curatore sta nella sua capacità di mettere al centro le intersezioni tra comunità, politica e territorio.

 

Taylor Renee è una scrittrice di Detroit, direttrice del magazine online ARTS.BLACK. Laureata in storia dell’arte alla Howard University, si è recentemente specializzata in studi museali presso la Harvard University.

 

Traduzione a cura di Laura Giacalone.

 

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