David Graeber. Debito
Ora più che mai, forse è il caso di zittire anche solo per un attimo i tecnici dell'economia e le loro formule magiche. Magari per dare la parola a un antropologo come David Graeber che, nel suo Debito. I primi 5000 anni (il Saggiatore, Milano 2012), scardina alcuni miti della storia economico-politica e teologico-politica, come il baratto, recitato in ogni testo universitario di economia, o il debito primordiale nei confronti di dèi e Stati. Così come la storia economica non inizia con il baratto, il debito non è alla base della società e delle relazioni umane, ma arriverebbe invece in un secondo tempo – costruzione dell'origine effettuata a posteriori e capace ora di dialogare nuovamente e proficuamente con il presente che l'ha composta e proiettata all'indietro, con buona pace di Adam Smith e Hobbes, dei loro contemporanei ed epigoni presenti.
Parlare di debito significa anche parlare di denaro. Questo secondo elemento introduce una fredda calcolabilità, tale da renderlo non solo un semplice obbligo morale, ma un fattore misurabile con esattezza. Le mitologie del debito hanno sapientemente occultato la violenza necessaria per giungere a questa situazione che raccontano come naturale, ma il mercato, lo Stato e gli elementi gravitanti attorno alla relazione creditore-debitore – che immediatamente succede alla relazione di scambio e alla società scambista nel momento in cui queste vengono pensate come commerciali –, sono vincolati ad armi e oppressione, guerre e conquiste. Dopotutto, oltre al ladro, non furono forse proprio «malfattori e soldati dediti al saccheggio» i primi a dover calcolare il valore di un oggetto (Ivi, p 374)? Ma il punto cruciale riguarda il meccanismo in grado di produrre elementi valutabili e dunque vendibili. Come funziona questa macchina? Afferra, taglia, e poi riallaccia. È necessario scindere dal contesto ciò che si vuole vendere, strapparlo dall'usuale condizione per individualizzarlo, così da poter calcolarne il valore, e successivamente ristrutturare una nuova relazione, questa volta esclusiva, con il proprietario (Ivi, p 141). Questo vale, nella sue estreme implicazioni, ovviamente anche per gli esseri umani, pensabili nella loro dimensione di merci solo dopo averli sradicati dalle molteplici relazioni che li definiscono e rendono quel che sono. E se, in quelle che Graeber chiama «economie umane», la moneta non serve per comprare esseri umani, ma proprio per ricordare che questi non sono acquistabili – né la loro vita, né il loro lavoro che, come lavoro salariato, «è la messa in affitto della nostra libertà nella stessa maniera in cui la schiavitù ne era la vendita» (Ivi, p 203) –, allora è chiaro come solo la violenza possa rompere questo quadro nel segno dell'individualizzazione e della calcolabilità.
Questa presa che si stringe sul singolo, si riflette anche nell'insolvenza. È una colpa che porta alla criminalizzazione dell'individuo, e la sua declinazione tende al singolare: esige l'individuo sovrano, capace di fare promesse, capace di responsabilità giuridica, persona interpellabile dalla collettività, persona che risponde – ecco nuovamente lo strappo dal contesto relazionale e la ristrutturazione che include in una relazione esclusiva; ecco l'uomo calcolabile della nietzschiana Genealogia della morale. Il singolo è stato separato, sradicato dalla collettività, e risponderà ora autonomamente di fronte al suo proprio debito, e dunque anche davanti alla sua propria colpa: «padroni delle nostre libertà o padroni delle nostre personalità. È l'unica maniera per immaginarci come esseri completamente isolati» (Ivi 206). Saldare il proprio debito con il proprio creditore, questa è la moralità che risponde alle mitologie del debito. E se il peccato è di un singolo, anche la sua irraggiungibile redenzione non può che essere individuale.
Non ci si riesce a sbarazzare di questa struttura, dice Graeber, e ciò che manca è proprio la capacità di immaginare collettivamente altro. Come strutturare un esistente differente? Il percorso suggerito è scardinare il meccanismo facendolo girare sui propri cardini, spingendolo al limite e alle sue estreme conseguenze: bisogna re-immaginare il debito. Siamo una società di indebitati in cui questa condizione è ormai strutturale, in cui la sovranità del debito fa di quest'ultimo il nucleo costitutivo della società, indebitati per la sopravvivenza, dall'affitto al mutuo. Questa è la condizione comune, il munus che ci accomuna – qui la riflessione di Graeber incrocia quella di Roberto Esposito che nel suo ultimo libro si confronta direttamente con Debito. Se siamo tutti inclusi nel meccanismo del debito, ridefiniti in questo, e contemporaneamente esclusi dalla collettività nel rispondere singolarmente della propria colpa, allora la comunità riemerge proprio là dove era stata recisa. È qui che si può forse rovesciare e convertire il senso del debito. Fare di questo la base di una nuova rete di solidarietà, ristrutturare la società attorno a un debito che ci accomuna e di cui dunque non si può e non si deve rispondere singolarmente. Non si tratta di interpretare la società come flusso di scambi, ma di riscoprire la solidarietà nel debito. Insieme alla separazione, violenza di un dispositivo che contemporaneamente include ed esclude, strappa dalla comunità per accomunare tutti gli isolati sotto una comune condizione, si intravede la coesione, altra faccia del medesimo meccanismo verso cui si può cercare di forzare l'intero apparato del debito.