Impossibile différance / Derrida chi?

12 Maggio 2018

Ricordo bene il giorno in cui ho conosciuto Derrida. Era il 6 dicembre 2000, pochi minuti prima dell'inizio del suo seminario annuale all'École des hautes études en sciences sociales. Avevo ventiquattro anni ed ero a Parigi in Erasmus, ad esami finiti, a preparare la tesi di laurea su Blanchot. Entrato all'École chiesi indicazioni per l'Anfiteatro dove si teneva il corso, ma prima di entrare mi fermai nel bagno antistante lo stesso Anfiteatro. Mi servivo delle toilettes quando di colpo mi rendo conto che esattamente di fianco a me a fare la stessa cosa c'è Derrida. Ed ecco che nel momento stesso in cui ci stacchiamo dal muro, in preda a chissà quale passaggio all'atto, gli tendo la mano esclamando "buonasera professore!". Nel momento stesso in cui mi escono di bocca queste due parole ricordo di aver pensato: "Sei un'idiota! magari acqua e sapone prima!"... Ma ecco che Derrida coglie immediatamente il mio imbarazzo e mi dice: "non si preoccupi… in fondo non c'è che la contaminazione… il pensiero ha un corpo". Sorridemmo. Nello scambio che seguì gli dissi che la mia tesi prevedeva intere parti sul suo lavoro e su quello di Blanchot e subito mi rivelò con aria preoccupata che aveva appena sentito Blanchot e che non stava bene. Non so perché volle subito rendermi partecipe delle condizioni fisiche di Blanchot, o forse una possibile risposta posso avanzarla oggi ed è la seguente: il pensiero è anche sempre corpo del pensiero. Il pensiero è già da sempre segnato dal pathos, pathos che innerva il corpo scrivente.

 

Ed è proprio al corpo del pensiero che fa riferimento Valerio Adami in una delle tredici belle interviste condotte da Igor Pelgreffi nel testo da lui curato Derrida chi? (Orthotes, 2017, pp. 355), nel quale il pensatore francese viene ricordato da filosofi e intellettuali italiani che ne hanno attraversato l'opera secondo modalità e sensibilità diverse.

Se volessimo dare un nome a questo corpo non esiterei a richiamare il concetto non concetto di différance, perché l'intera opera di Derrida trova articolazione a partire da questo. A quasi quattordici anni dalla sua scomparsa occorre ripartire proprio da qui. Derrida, smontando i dualismi caratteristici della cultura occidentale (significato/espressione, interno/esterno, dentro/fuori, natura/cultura etc…), ci insegna che c'è qualcosa che non torna nel modo dualistico con cui l'Occidente ha concepito il linguaggio, in quanto questo dualismo si basa fondamentalmente sull'esorcismo del rinvio, ovvero sul diniego del differimento originario, di cui invece la filosofia, in quanto pensiero critico, non può non farsi carico. Prendiamo la prima coppia: significato ed espressione altro non sono che figure differenziali: posso avere un significato senza significante? No. Posso avere il significato "albero" senza il suono "albero"? No. Non posso comunicare qualcosa che non si articola, che non ha suono, ma, al tempo stesso, come faccio ad articolare suoni, così da costruire la parola "albero", se già non ho il significato "albero"? Sono chiamato a scegliere i suoni significanti giusti, le lettere più idonee per costruire la parola. Concetto e significante sono indispensabili l’uno per l’altro. Ciò significa che viviamo in un rimbalzo permanente. Da dove cominciamo quando parliamo? Da dove ha origine il nostro dire? Dal significato o dal significante? Questo impossibile da definire, che è condizione di ogni nostro dire, Derrida lo chiama différance e il modo in cui mette in scena questo impossibile nella storia del pensiero è geniale. Siamo nel 1968 e Derrida tiene alla Società filosofica francese una conferenza (che poi verrà raccolta nel testo Margini della filosofia) nella quale pronuncia différence (differenza) ed il pubblico pensa effettivamente a différence, con la e, ma lui scrive différance con la a.

 

L'aspetto decisivo di questo passaggio è costituito dal fatto che il ruolo della “e” non è definibile, ma è al contempo ciò che rende possibile il dire: in francese se dico “différence” nessuno può sapere se penso différence o différance. Lungo tutta la conferenza Derrida, quasi a presa di giro, si trova a dover specificare se si sta riferendo alla prima o alla seconda. Questo gioco serve a Derrida per mostrare che l’evidenza piena del senso non può darsi e che è vincolata a un gesto di scrittura che precede la phonè (la voce). 

 

 

Cade così il protagonismo del voler dire, poiché non c’è più rispondenza tra espressione e significato. La voce, che si vorrebbe veicolo di significati puri, è già da sempre contaminata dal corpo dell’écriture (scrittura), o per dirla con Derrida dell’archi-scrittura, una scrittura “originaria” che rende possibile il segno in tutta la sua paradossalità e quindi il nostro stesso poter comunicare. C'è un gesto di scrittura che precede la voce, che ci rimanda dal voler dire a ciò che non si avverte.

Cosa propriamente voglio dire quando dico qualcosa? Cosa voglio scrivere quando scrivo? In un certo senso posso dirlo solo après coup, in una dimensione seconda. Il mio dire non dimora mai nel qui e ora, vale a dire nell'immediato. Non appena apriamo bocca siamo differiti perchè usiamo segni e nel momento in cui usiamo i segni è in azione la différance. La nostra condizione è quella di chi ha detto sempre altro rispetto a quello che voleva dire; c'è un infinito differimento del senso. Essendo collocato nella tessitura dei segni, nessuno è proprietario della propria espressione. Così come i libri restano infinitamente da scrivere, sempre da compiere (e qui il debito di Derrida con Blanchot è fin troppo evidente), così il nostro dire resta infinitamente da dire (e qui il richiamo è alla tradizione ebraica e alla lezione freudiana). Chi sono io? Non finirò mai di dirlo, non c'è un'ultima parola possibile. In questo senso ogni autobiografia è già da sempre auto-etero-biografia (p.204). Come nota Riccardo Panattoni alla fine della sua intervista, quando il massimo della trasparenza sembra annunciarsi irrompe l'opacità più implacabile, un'opacità che squalifica qualsivoglia identità a sé (p.325). 

 

Tra i molteplici motivi che emergono dalle interviste condotte da Pelgreffi vorrei qui analizzarne uno la cui trattazione mi permette di accennare ad altri passaggi chiave della riflessione derridiana. Un'idea ha spesso accompagnato la ricezione dell'opera derridiana e cioè l'interpretazione in chiave impolitica della sua filosofia. A più riprese Derrida ha sottolineato come sia fuorviante la tesi che vuole il suo pensiero caratterizzato da una svolta etico-politica di cui si troverebbe traccia nelle opere della fine degli anni Ottanta e che si compirebbe con l'uscita di Spettri di Marx avvenuta nel 1993. Nessuna svolta, come ricorda anche Caterina Resta nel suo scambio con Pelgreffi (p.194), segna il corpus derridiano: si tratta dell'urgenza di “rispondere” filosoficamente ai mutamenti geopolitici in atto e a precise questioni politiche (pensiamo al fenomeno dell'immigrazione) a rendere i testi di Derrida più insistentemente e apertamente politici. Se prendiamo una delle sue ultime interviste rilasciata a Évelyne Grossman, che ha per titolo La verità che ferisce o il corpo a corpo delle lingue, Derrida afferma che “l'attenzione per la cosa politica” ha costituito il tratto caratteristico dell'intera sua ricerca sin dagli inizi e come, in fondo, ciò che accomuna gli studiosi della sua opera sia un certo modo di porre la questione della politica in termini di “dissidenza e di resistenza”. In questo senso la decostruzione non può che configurarsi come una riflessione etico-politica radicale dal momento che il suo spazio di esercizio è l'ordine gerarchico metafisico su cui riposano la politica e l'etica intese come discipline filosofiche. Pensiamo alla questione dello spettro e della spettralità che attraversa il testo su Marx: lo spettro è una figura da leggersi in chiave emancipatoria tanto che Derrida arriva a parlare di una hantologie (da hanter, infestare) che abiterebbe l'ontologie (l'ontologia) che è una sorta di invito a pensare l'essere abitato dal fantasma.

 

Qui il fantasma di Marx non finisce di ossessionare l'assiomatica capitalista costituendone il rimosso. Nella prospettiva derridiana il reale è letto come costantemente inquietato, nel suo stesso accadere, da un'ulteriorità, un fuori (dehors) che marca l'inadeguatezza a sé di ogni presente (si pensi alla lettura che Derrida fa dell'amletico The time is out of joint). È lo stesso Derrida ad affermare in Spettri di Marx che “ovunque ne vada della decostruzione, si tratta di legare un'affermazione (in particolare politica), se ce n’é, all'esperienza dell'impossibile”. Ho sempre pensato che questo scarto, questa non contemporaneità a sé del presente fosse da intendere come uno spazio di libertà. Tutto sta nel comprendere se l'essere umano è in grado di sostare in questo spazio di libertà che è anche uno spazio di profonda inquietudine, l'inquietudine di chi sente irrimediabilmente perdute la sicurezza e la certezza. 

Ancor meno è sostenibile l'“accusa” di impoliticità se consideriamo la concretezza di alcuni atti spiccatamente politici compiuti da Derrida. Ne ricordo tre: la convocazione degli stati generali della filosofia all'indomani della legge che aboliva in Francia l'insegnamento della filosofia nelle scuole, la creazione del Collège international de philosophie, la collaborazione con i membri di Charta 77 che gli valse l'arresto a Praga. 

 

Questa “passione per l'impossibile” trova nella tematica dell'ospitalità, spesso richiamata nelle interviste di Pelgreffi, un'ulteriore declinazione. Qui si misura la portata etica del pensiero di Derrida. La tolleranza resta per il pensatore francese un'ospitalità sorvegliata, avara, gelosa della propria sovranità. Si offre ospitalità a condizione che l'altro rispetti le nostre regole, le nostre norme di vita, addirittura la nostra lingua, il nostro sistema politico. La tolleranza implica un sistema di garanzie atto a rendere l'avvento dell'altro aministrabile e conseguentemente discreto. Al contrario l'ospitalità incondizionata è aperta a chiunque non è atteso né invitato, a chiunque giunge in quanto visitatore assolutamente straniero, come un nuovo arrivo non identificabile e imprevedibile, totalmente altro. Derrida sa bene che l'esigenza avvertita di un'ospitalità incondizionata non può trovare applicazione pratica dal momento che uno Stato non può che “applicare” un'ospitalità condizionata e tuttavia ci richiama alla necessità indifferibile nel momento in cui noi stessi riserviamo ospitalità condizionata all'altro, di avere come orizzonte il pensiero impossibile di un'ospitalità pura. In sintesi, per usare una formula utilizzata da Derrida in un'intervista di qualche anno fa rilasciata a Gianfranco Dalmasso, a sua volta tra gli interlocutori di Pelgreffi: “il problema etico è fare in modo che l'incondizionato accada”.

 

Infine, la domanda che fa da sfondo al testo curato da Pelgreffi è: Cosa resta di Derrida? È assai difficile rispondere. A chi intende la filosofia come spazio in cui il filosofo si muove dentro il protocollo della coerenza (p. 32), Derrida non ha mai parlato. A chi è corroso dal dilemma irrisolvibile della non congruenza tra espressione e significato, Derrida non finisce di parlare. È indubbio che sono più numerosi coloro a cui Derrida non ha mai parlato, coloro che, criticandogli una presunta assenza di rigore, non l’hanno considerato un filosofo. Per gli altri il gesto filosofico di Derrida è il gesto più proprio della filosofia, perché è un gesto che, preda di un automatismo ai limiti dell'ossessione, fa segno verso l’anarchia dell’origine. Ad essere originaria è l’assenza di origine e tuttavia, come preda di un'istanza compulsiva, l’interrogazione filosofica non può evitare di richiamarvisi. Senza l'archi-scrittura verrebbe meno la condizione stessa del comunicare. Si tratta dunque di spingere incessantemente la domanda al limite del pensiero; in questo consiste il pathos della filosofia. Questo ha fatto Derrida, ma è comprensibile che il tecnicismo filosofico che spesso attraversa i dipartimenti di filosofia questo pathos non lo sappia cogliere. 

 

Sostiene Carlo Sini, per chi scrive a ragione, che con Derrida bisogna farsi carico dell'impasse del pensiero. Non si può più continuare come prima (p.139). Si tratta di reggere l'urto dell'inquietante estraneità (Unheimlichkeit) che la sua opera produce. Spesso uno studioso vuole continuare a seguire le logiche ed i presupposti che ha sempre usato, ma che il gesto decostruttivo fa saltare. Siamo in presenza, il più delle volte, di un vero e proprio esorcismo attuato nei riguardi di questo gesto, che domanda fin dove non è lecito domandare (p.43). Derrida, ben lungi dal proporre giochi sofistici, ci conduce fin dove la maîtrise (padronanza) del pensiero viene meno, dunque nel luogo più proprio della filosofia, là dove il cercare in assenza di garanzia è sovrano. Ed è questo inesausto desiderio di ricerca che accomuna chi ha dialogato con Pelgreffi in Derrida chi? 

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