Domenico Gnoli racconta

3 Gennaio 2025

Novalis, uno dei più importanti esponenti del romanticismo tedesco, considerava fosse essenziale dare alle cose un senso di solennità, alle realtà quotidiane una forma misteriosa. Questa sua lezione è stata magistralmente adottata da Domenico Gnoli.

Ho conosciuto l’opera di Gnoli nella prima casa editrice dove ho lavorato, che poco prima del mio ingresso aveva pubblicato una sontuosa monografia (testo di Vittorio Sgarbi) che recava in copertina un dettaglio di Chemisette verte, un quadro del 1967 che ritrae, appunto, il colletto rotondo e due bottoncini di madreperla di una camicetta di seta stampata ton sur ton a motivi floreali. Niente di meno misterioso al mondo, vien da pensare, del dettaglio ingigantito di un capo d’abbigliamento. Ma – e non credo di essere io a dirlo, né da primo né da ultimo – quel che si deve guardare nella pittura di Gnoli non è quel che c’è, ma quel che manca.

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[Un suo collezionista, Claude Spaak, drammaturgo e zio della più nota Catherine, lo disse con maestria nella postfazione al libro sopra citato: «Nella modesta stanza campeggiava sul cavalletto Letto bianco, coperta chiara, guanciale immacolato recante peraltro l’impronta di una testa, che mi sconvolse. Qualcuno ci aveva dormito senza turbare l’ordine delle lenzuola? Qualcuno aveva lasciato quel giaciglio per non tornarvi mai più? Qualcuno che forse si aggirava non lontano? Si pretendeva che Gnoli fosse il pittore dello sguardo e io scoprivo il pittore dell’assenza.»]

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Roba seria. Molto seria. Talmente seria da far pensare sia quasi impossibile trovare in un artista tanto rigoroso un segnale di allegria, umorismo, ironia. L’ombra di un sorriso.

Ero rimasto sorpreso, alcuni anni fa, nel trovare in vendita a un prezzo ragionevole l’edizione originale di un bel libro di grande formato, intitolato Orestes or the Art of Smiling by Domenico Gnoli, pubblicato da Simon and Schuster nel 1961. Lo ordinai a scatola chiusa, non sapendo bene che cosa fosse (catalogo di una mostra? Libro illustrato? Raccolta di tavole incise?) e che cosa aspettarmi. Certamente, la copertina non rimandava affatto a un’atmosfera gaia: un bel disegno a penna, ritoccato all’acquerello, con una mongolfiera (uno dei topoi dell’opera grafica di Gnoli) identificata da un cartiglio che riporta il numero 611 che sorvola una città rinascimentale, trasportando un giovane uomo ben vestito che, invece di guardare il panorama, sembra assorto in pensieri tutt’altro che lieti. Un seppia per il segno, un cilestrino e qualche tocco di paglierino a riempire, e il bianco della carta. Un segno fatto – sorprendentemente – di volute e tratteggi incrociati, fra il tardo Cinquecento e il primo Seicento, direi.

Il pacco viaggiò parecchio, il libro arrivò e si rivelò essere sontuoso e sconcertante: sul piano materiale, la sovraccoperta in carta naturale pesante (descritta sopra) celava una legatura con piatti in carta goffrata a imitazione della tela di lino e dorso in seta, con impressioni pastello al piatto e al dorso e un interno stampato con ogni possibile cura da Amilcare Pizzi, una delle glorie della buona stampa italiana, su una carta uso mano marcata; su quello artistico, una invenzione spiritosa che rivela in Gnoli una prodigiosa fantasia di illustratore che Vittorio Sgarbi definì a suo tempo “ariostesca”. Un libro che, in fondo, rivela un’anima segreta – e segretamente lieve – di un pittore che raramente sembra toccato dall’ironia, tutto teso, come scrivevo sopra, a “dare alle realtà quotidiane una forma misteriosa”.

Ma dal reale Gnoli dimostra di poter fuggire nella favola, scrivendo e illustrando Oreste, dove tornano tutti i temi più cari alla sua opera grafica, dal letto con i dieci materassi della principessa sul pisello, alle fantastiche architetture, alle gabbie vuote (che sono tantissime e stanno dappertutto: in cima a una collina o dentro un armadio aperto). E poi ci sono palchi di teatro affollati come le navi degli emigranti; un cavaliere romantico in bicicletta nella notte rischiarata dalla luna; uno straordinario campionario dei sorrisi che tappezzano come manifesti un’intera stanza; i teatrini imprevedibili in cui scorrono stravaganti avventure da affrontare con un sorriso, a volte coraggioso, a volte misterioso.

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La storia è ambientata a Terramafiusa, una città murata descritta in antiporta da un disegno “a volo d’uccello”, analogo alla monumentale Venezia incisa nel 1500 da Jacopo de’ Barbari. E a ricordarci la passione dell’artista per il teatro, nella pagina iniziale ci vengono presentati i personaggi principali, posti sui rami di una pianta a metà strada fra l’albero delle vanità del Barone Rampante e l’albero di Jesse, fra due muri che fanno da quinte; sopra quello di destra si affaccia un personaggio che guarda: è Domenico Gnoli stesso, nell’unico ritratto di sé che ci abbia lasciato nella sua opera grafica.

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Da qui si comincia a dipanare la storia di Oreste, il principe malinconico, divenuto sovrano del regno alla morte della nonna Palmira, bisbetica, dispotica e litigiosa, protagonista di rumorosissimi battibecchi con il suo consigliere, il pappagallo Lucien, che spaventavano a morte il piccolo Oreste, il quale trovava consolazione e conforto fuggendo nella foresta e ascoltando il canto degli uccelli.

La prima decisione di Oreste da sovrano è promulgare una legge che impone il silenzio in tutto il regno. Terramafiusa si trasforma nel paradiso del viaggiatore ferroviario dei nostri tempi: tutti parlano a bassa voce, la musica diffusa è proibita e l’unico suono ammesso è, appunto, il canto degli uccelli. Il pappagallo Lucien, reo di avere una voce sgraziata e sonora, viene relegato in una gabbia e lasciato lì a vegetare.

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Ma, come in ogni favola che si rispetti, le cose non vanno sempre per il verso giusto: per rimettere le cose al loro posto serviranno gli interventi di Lucien e di Violante, una dama di compagnia segretamente innamorata di Oreste, che aiuteranno il principe malinconico a trovare il suo sorriso. In quale modo e dopo quali avventure ci riuscirà, lo taccio. Ricordo solo l’aggettivo “ariostesco” attribuito all’opera grafica di Gnoli ma riferibile anche, senza alcun dubbio, alla sua scrittura.

Vale, però, la pena fare una riflessione su un momento molto importante della vicenda narrata da Gnoli: una situazione che, con il senno di poi, potrebbe essere definita “preveggente” quando, invece, sono convinto che si trattasse nelle intenzioni dell’autore solo del desiderio di creare una situazione surreale e allo stesso tempo ridicola e disperata.

Il pappagallo Lucien, privato del suo importante incarico di consigliere, allontanato da Terramafiusa e imprigionato, grazie all’aiuto di Violante scava un tunnel segreto, ma, invece di cercare la libertà, dopo l’immane sforzo di scavo, finisce per scegliere di spendere tutte le proprie risorse – cioè, le penne della sua coda, desiderate da un custode che sogna di diventare un capo pellerossa – per avere accesso al Padiglione delle Gioie Speciali, nel quale un untuoso imbonitore di nome Gaston si dà da fare per appagare il suo desiderio di sentirsi gratificato, amato, festeggiato. Una grottesca e farlocca fiera delle vanità che ricorda molto da vicino qualcosa di quotidiano per tutti noi.

A ventitré anni dalla pubblicazione, esce l’edizione italiana di questo libro illustrato, per i tipi del Saggiatore. La traduzione del testo, di Maria Maiocchi, è impeccabile. Più discutibile quella della forma del libro. La scelta del formato ridotto è comprensibile, anche se per il prezzo di copertina di 35 euro non è difficile trovare in libreria albi illustrati di grande formato; quel che fatico a comprendere è la scelta di un formato di proporzioni diverse dall’originale, che ha obbligato l’impaginatore a tagli delle immagini un po’ troppo arditi, con mutilazione di piedi e di becchi, taglio di cartigli, riduzione degli spazi marginali, producendo una generale sensazione di “costrizione”. Le leggi dell’economia della produzione libraria sono ferree, ma non ineludibili al punto da imporre il sacrificio delle caratteristiche originali dell’opera: una progettazione tecnica più attenta avrebbe risparmiato un fastidio a quei pochi che hanno avuto per le mani l’edizione originale ed evitato quella che credo sia una certa mancanza di rispetto per l’autore e un aspetto fondamentale della sua opera, sacrificato sull’altare dell’economia produttiva e forse anche dell’uniformità di caratteristiche di una collana. Il libro rimane bello e godibile e di questo difetto si accorgeranno in pochi. Ma è comunque un peccato.

 

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