Erebie e inni sacri

22 Giugno 2013

Era una sera calda di luglio, credo, quando con mio padre andai al Campo Sportivo che aveva il bellissimo e promettentissimo nome di « La Salute » per vedere le partite del torneo notturno andornese. Diciamo la verità, questo campo spelacchiato era sito in luogo ombreggiato e umido, e quindi tutt’altro che salutare, dove volavano tali Culex pipiens da riempirti gambe e braccia di ponfi larghi quanto una moneta da 50 lire di allora. Quella sera giocava la imbattibile, e naturalmente a me insopportabile, squadra del « Caffé Centro » contro quella del mio paesino di Miagliano. Non ci fu storia. Se ricordo bene, si stava sul 7 a 1 quando i tifosi andornesi intonarono un coro che mi era già noto per averlo udito qualche settimana prima, ma in tutt’altra circostanza: «Per i miseri implora perdono, per i deboli implora pietà - Per i miseri implora perdono, per i deboli implora pietà ».

 

 

Il ritornello, chiaramente religioso e prestato per l’occasione dai canti di chiesa, era stato adattato efficacemente alla partita in corso che si stava concludendo in modo disastroso e con una disfatta memorabile per la squadra di Miagliano. Fu un’umiliazione per tutti gli amici compaesani che non ho mai dimenticato, malgrado siano passati decenni durante i quali episodi marginali come questo normalmente cadono nell’oblio profondo e non sono resuscitati neppure in stato di ipnosi. Quel ritornello, cadenzato e sillabato, volgarizzato in modo blasfemo e cantato a squarciagola da gente che di certo era allegra di buon barbera e di birra Menabrea, mi risultava noto poiché lo si sentiva regolarmente alla processione del paese che si tiene al Santuario mariano di Oropa il 19 giugno di ogni anno. Ci si andava con la famiglia, i vicini di casa, gli amici. Tutto il paese era in subbuglio già dalla settimana prima. In parrocchia, le beghine, il prevosto, i priori e la cerchia di fedelissimi organizzavano il piano per l’ascesa al Santuario. La maggior parte saliva a piedi, passando per le ripide vie che salgono alle spalle di Miagliano verso il pianoro di Case Code e del « Caramlët ». Si partiva presto quel giorno, cosa che per me era già irritante allora, detestando io da sempre la sveglia all’alba. Si partiva salendo rapidi per un paio d’ore verso il Santuario in modo da raggiungerlo in tempo per la processione. Ricordo ancora quei canti, quelle persone ben incolonnate in due file parallele precedute dal prevosto con i chierichetti in abito nero con stola bianca che reggevano il grande crocifisso e il gonfalone del paese. Qui sentivo quei canti e inni poi rimasti nella mia memoria sino ad oggi, merito anche, se non in gran parte, delle ripetizioni fatte sui campi del torneo notturno andornese.

 

 

Salire a Oropa a piedi era un evento straordinario in sé. Io me la godevo principalmente perché mi veniva assicurata una passeggiata in luoghi e attraverso praterie e boschi montani che potevano celare qualche segreto entomologico. Immaginavo, come sempre succedeva ogni volta che uscivo per prati poco conosciuti, di reperire qualche rara farfalla mai vista prima, non avendo chiaro a quei tempi che in realtà nel Biellese non c’era la stessa varietà di insetti che esiste ai tropici. Comunque sia, motivato dal salire ai monti dove non si andava così di frequente da bambini, speravo sempre ed ero già in ansia la sera prima, non soltanto a causa della sveglia all’alba ma anche perché sapevo che avrei trascorso la notte ad agitarmi nel sonno immaginando farfalle inesistenti. Di primo mattino, in una di quelle chiare e fresche giornate di giugno, nostra madre ci svegliava: « forza, siamo in ritardo». Mio fratello e io ci alzavamo storditi e facevamo una veloce colazione con latte e cioccolata, una brioche e qualcosa da bere. Con un po’ di energia in più addosso, eravamo presto pronti alla marcia verso i monti di Oropa.

 

Ognuno aveva il suo sacco sportivo con le scorte addosso: acqua, una tavoletta di cioccolata, e poi il cibo per il tradizionale pranzo al sacco. Io, naturalmente, non partivo di casa senza il mio inseparabile retino che, a quei tempi, era un rudimentale strumento da pesca adattato con il tulle alla caccia alle farfalle.

 

 

Ci si riuniva di fronte alla Chiesa dove la gente giungeva da ogni parte chiacchierando sul tempo e la fatica che l’attendeva. Poi, si partiva in grandi gruppi di amici che si selezionavano poco a poco marciando: i più in forma e agili davanti e le vecchierelle dietro a faticare ridendo di quella o di quell’altra che non ce la facevano già più appena passata la curva dell’asilo. La ripidissima ascesa verso Case Code tagliava le gambe sin dall’inizio alla maggior parte della gente anziana di Miagliano.

 

Infatti, costoro, levatisi dal letto all’alba, avevano ancora le gambe rigide e molli della notte, e la salita era talmente difficile che, arrivati alfine alla piccola frazioncina, alcuni già si arrestavano ansimando e respirando a fondo. Noi ragazzini non sentivamo certo la fatica, poiché si comincia a diventare coscienti di quella dopo l’adolescenza e poi sempre più con il passare dei decenni. Infatti, nell’età più avanzata mi si dice che non si ha più coscienza della freschezza e tutto pare fatica; dunque, da sporadica e incosciente quando si è ragazzini, la fatica è costante nella vecchiaia, e se uno sprazzo di affaticamento dopo cento corse per i campi compare occasionalmente in gioventù tra tanta freschezza di gambe e di mente, solo qualche raro istante di freschezza compare in vecchiaia tra tanta fatica addosso alle povere ossa.

 

 

A Case Code la strada si appianava ed era uno scherzo giungere al Caramelletto, dove sorgeva un ristorante di montagna e si serviva la polenta tutti i giorni. Superatolo, iniziava il sentiero per Oropa. Cominciavano i pascoli di montagna appena ai lati del nostro sentiero, ma qui c’erano ancora felci e brugo a sufficienza lungo la via, e questo po’ di selvatico faceva ben sperare per le farfalle di montagna che mi stavano a cuore. Le vacche delle cascine che si incontravano lungo la via lasciavano il loro tanfo bovino ovunque: in realtà, a me piaceva quel profumo di stalla che si portavano addosso essendoci abituato sin dall’infanzia. Infatti, mia nonna mi portava spesso nella stalla del Pietro dove c’erano le sue vacche pezzate di bianco e bruno; qui, il pentolino in alluminio che mio fratello ancora conserva tra i cimeli di famiglia mezzo secolo dopo, veniva riempito del latte caldo e bianchissimo, un po’ schiumoso, appena munto dal Pietro. Mia nonna entrava in stalla solo per farmi vedere le vacche pezzate e bonarie, compresi più avanti, in quanto il pentolino poteva semplicemente essere lasciato verso metà pomeriggio su di un tavolo all’entrata della stalla insieme agli altri. Il Pietro lo riempiva poi di latte dopo la mungitura delle ore 17 e si passava a ritirarlo prima di cena per bollirlo e farne del caffelatte di cui i miei nonni andavano ghiotti e che spesso costituiva la loro cena preferita : vi immergevano grissini tagliuzzati a piccoli pezzetti e mangiavano di gusto.

 

Lungo il sentiero si finiva spesso nelle «moje», ovvero le pozzanghere che si formano quando un ruscello di una delle tante sorgenti delle pendici del Cucco attraversa il sentiero e lo inzuppa. Il peggio però era la mescolanza di acqua con il terriccio e gli escrementi sformati delle vacche : lì si creano degli stagni di mezzo metro di diametro su cui galleggiano chiazze oleose e bluastre, risultato delle deiezioni delle vacche. Finirci con il piede dentro dava fastidio a tutti e quindi si marciava con gli occhi puntati sul terreno e procedendo a zig-zag per evitare le macchie oleose e per porre i piedi al sicuro su grandi zolle di molinia o sui sassi arrotondati che emergevano dal liquame maleodorante. Ma c’era anche qualcosa di positivo in tutto ciò : infatti, già di primo mattino sulle zolle erbose e al margine del pozzanghere spesso si vedevano decine di licene azzurre intente a suggere sali e sostanze organiche. Riuscivo sempre a catturare qualcuna di queste sventurate bestiole e a pormele nella sacca, mentre gli amici di mio padre ridacchiavano delle mie stranezze e commentavano che ero proprio speciale: quando mai si era visto un bambino salire ad Oropa per la processione del paese con il retino a spalla? ma a me che importava delle opinioni degli adulti? Io camminavo con gli occhi puntati sull’erba e sui fiori per vedere se si involava qualcosa da inseguire.

 

Alla Cross Granda, mio padre e mia madre mi raccontavano ogni anno la storia di questa vecchia cappella di montagna che era deteriorata nei decenni mentre nella loro gioventù era bianca e pulita. Di qui si ammirava un panorama stupendo sulla pianura e la gente si rallegrava poiché la Cross Granda era anche il punto in cui la salita dura era quasi terminata e da qui si procedeva, sempre salendo, ma ora più dolcemente, verso il vallone di Oropa. Infatti, la via un po’ bruscamente vira verso nord quasi come un gradino sui dossi del Cucco sotto al quale sta il vallone e sopra al quale sono infiniti pascoli montani. Intorno si stagliavano frassini e castagni verdissimi che davano rifugio ai fringuelli il cui canto monotono ci accompagnava per lunghi tratti. E qui, sulle molinie e il brugo che ci attorniavano, comparivano le farfalle di montagna che attendevo. Infatti, ora il sole era più alto e riscaldava l’atmosfera, e anche le specie più grandi prendevano il volo. Impazzivo dietro alle grandi Hypparchia bianco-nere che ci passavano sopra la testa per posarsi di solito sui rami alti dei frassini dove non potevo certo arrivare con il retino. Cercavo le vanesse variopinte e ne vedevo alcune di quelle dell’ortica qua e là, ma erano difficili da inseguire stando sul sentiero e dovendo procedere al passo di tutti gli altri che salivano verso Oropa. Quasi ignoravo quelle numerose farfalline brune di medie dimensioni che volavano lente e basse tra le molinie. Ce n’erano a centinaia e, inspiegabilmente, io le ignoravo. Ne prendevo qualcuna in mano per guardarle meglio: marrone scuro con delle piccole macchie regolari di colore fulvo lungo il bordo dentro alle quali stava un ocello nero e una pupilla bianca al centro. Non mi piacevano e non mi parevano neppure farfalle ma falene, così scure, un poco pelose e poco attraenti, con le ali tondeggianti e mollicce rispetto alle robuste e squadrate ali dei macaoni e delle vanesse che erano per me il riferimento. Così le rilasciavo annoiato e senza rendermi conto che, in realtà, quelle erano vere farfalle montane, le Erebie, genere affascinante di satiridi che conta una cinquantina di specie disseminate sulle Alpi e su altre catene montuose in Europa. Molte fra queste sono specie endemiche e talmente localizzate in alcune vallate da risultare spesso rarissime. Si assomigliano tutte con quel colore di fondo marrone scuro e quasi nero e quelle macchie rossastre e ocellate. Io salivo e le ignoravo, credendo fossero banalità prive di interesse. E così, passo dopo passo si raggiungeva la «Casin-a d’la scionta», ovvero la «cascina degli escrementi di vacca», si potrebbe tradurre. Era un rudere abbandonato da chissà quanti anni. Mio padre raccontava di quando la cascina era abitata nella sua gioventù e poi, nessuno sa i motivi, i margari se ne andarono e non tornarono più. Il rudere mi impressionava con i suoi muri di pietra mezzi distrutti, il soffitto ed il tetto crollati quasi del tutto. Ci entravo per verificare cosa poteva esserci dentro a questi anfratti che un tempo erano stanze in cui vivevano, mangiavano e dormivano i margari e le loro famiglie. Ci trovavo un urticaio fitto da un lato e erbacce dall’altro, rovi di qui e cumuli di pietre provenienti dal crollo di un muro laterale di là. Non mi piaceva affatto la casin-a d’la scionta.

 

Ormai entravamo nel bosco di faggi, segno che mi ricordava di essere prossimi alla meta. La gente di Miagliano saliva stanca, ma allegra per l’avvicinarsi di Oropa. Alla fine, attraversato il torrentello di acqua fredda, si saliva l’ultima rampa di rudimentali scale di pietra e si era nel grande piazzale di fronte al complesso di edifici religiosi che prelude alla basilica vecchia. Una soddisfazione esserci giunti. Spesso qui faceva freddo e c’erano le eterne nubi a nascondere il Mucrone, ma il profumo di pane fresco che si poteva comprare nei primi porticati rendeva il tutto piacevole, almeno così mi ricordo, anche se il sole se n’era andato per un po’ e di certo il mio sogno di cacciare rare farfalle dei nostri monti svaniva lentamente.

 

Infine, era tempo della processione, lo scopo ultimo della scampagnata. Il prete dalla voce gutturale dirigeva le operazioni insieme alle beghine del paese. I chierichetti in veste nera e stola bianca si disponevano in ordine a due a due, uno portava la grande croce ed un altro più indietro il gonfalone di Miagliano; la gente che ormai era giunta sul piazzale in attesa, si disponeva in processione in due colonne ben allineate e così cominciavano i canti mariani e anche quello che a me è rimasto impresso per tutta la vita: «per i miseri implora perdono, per i deboli implora pietà». La processione che girava, se ricordo bene, intorno al piazzale della basilica storica ove si diceva che la statua della Vergine nera fosse stata collocata da Sant’Eusebio nel suo primo sacello di adorazione, alla fine entrava in chiesa e qui si assisteva alla messa celebrata dal parroco dalla voce gutturale in latino : ora pro nobis, Deus vobiscum, et cum spirito tuo. E poi riprendevano i canti «Mira il tuo popolo o bella Signora che pien di giubilo oggi ti onora» e ancora quell’ossessionante «per i miseri implora perdono, per i deboli implora pietà».

 

Stufo di queste litanie senza fine, gioivo quando uscivamo dopo la benedizione e il «ite, Missa est» perché sapevo che ora arrivava il momento più atteso, quello del pranzo al sacco, la grande tradizione del paese, ed anche la mia grande tradizione del mezzogiorno dopo una lunga camminata al fresco: in breve, avevo un grande appetito. La gente si salutava, e si aggregava a gruppi famigliari di amici e insieme si saliva alla «Passeggiata dei preti», una faggeta adorabile appena a fianco della basilica nuova sui primi dossi del lato orientale della conca di Oropa. Qui la gente stendeva le coperte sull’erba fresca e umida, si accampava come farebbe un gruppo di nomadi, definiva il proprio territorio in modo che il gruppetto famigliare non fosse troppo vicino al prossimo, ma neppure troppo distante poiché bisognava parlarsi, e si sedeva rilassandosi in attesa che la mamma di famiglia iniziasse a preparare il pasto tanto desiderato da noi bambini. Naturalmente, io inseguivo le farfallette che mi giravano intorno quando il sole appariva tra le nubi. Erano delle Pieris bryoniae, qualche Clossiana e le solite erebie a me sgradite, quelle che Nabokov descrisse come vivaci e scure :

 

Le Erebia ligea, molto vivaci, molto scure, che si schiudevano soltanto ad anni alterni (ecco che, in questo caso, lo sguardo retrospettivo si è rimesso in riga), svolazzavano tra gli alberi o mostravano i loro vermigli disegni e gli orli variegati mentre si crogiolavano al sole sulle felci aquiline ai margini della strada.

 

E così facevano anche da noi ad Oropa, tra i faggi dal tronco magnificamente grigio-perla e le foglie verdissime, qualche felce e i cespi di brugo. Intanto, nostra madre aveva estratto dagli zaini e le borse il cibo: erano prosciutto e formaggio, frittelline verdi e fiori di zucchino ripieni, antipasti in scatola, sardine e tonno, il tutto da assaporarsi con il pane fresco di Oropa, profumato e delicato. Questo rito mi affascinava e chiedevo perché non mangiassimo sempre sui prati e nei boschi, così da poter vedere il cielo, sentire il venticello fresco che scompigliava i capelli, e odorare il profumo di selvaggio e, a ventate, di vacche al pascolo. Da allora appresi che non ero davvero adatto per le sale affollate e maleodoranti dei ristoranti, quelle da cui si esce con l’odore del soffritto di cipolla addosso. Io ero per gli spazi aperti, dove l’ossigeno la fa da padrone e non l’anidride carbonica che ti entra nella testa e te la percuote senza pietà, come un martello pneumatico, sommandosi all’inquinamento sonoro prodotto dalle decine di ristorati nei ristoranti.

 

Come ogni anno da decenni la gioiosa giornata dei miaglianesi ad Oropa si concludeva poi nel pomeriggio. Si rimpacchettava il cibo residuo, si piegavano le tovaglie, si ricomponevano gli zaini e ci si incamminava lentamente e un po’ tristemente verso valle. A poco a poco, gli amici si separavano, ma a me interessava solo controllare nella mia saccoccia le bustine ove immagazzinavo gli esemplari di farfalle catturati in giornata. Le erebie alla fine erano numerose, ma non sapevo esattamente che farne. Dovevano passare molti anni prima che io comprendessi appieno la bellezza ed il fascino discreto di queste abitatrici dei monti. Ci vollero molte spedizioni in valli lontane e in luoghi difficili da raggiungere per apprezzare la rarità e la unicità di alcune specie di erebie che vivevano solo in quei luoghi angusti e remoti. Di tutte, la ricerca della rarissima Erebia christi sarebbe diventata una delle più affascinanti storie che potrò raccontare un’altra volta.

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