Ernesto Franco: d’amore e di mare

29 Novembre 2024

Considerando che Usodimare, uscito ora postumo da Einaudi, è un racconto tutto attraversato dalla morte, verrebbe naturale pensare che Ernesto Franco l’abbia scritto durante la malattia, quando probabilmente immaginava di essere prossimo alla fine. E invece no. Il racconto è stato ristampato ora, ma fu pubblicato originariamente dal Melangolo nel 2007. E, a quanto mi sembra di poter dire, non ci sono correzioni o varianti.

D’altra parte il racconto è costruito su un intreccio di echi letterari, come e più ancora che negli altri libri di Franco. Il narratore è un testimone secondario come il Marlowe conradiano, il Bahía inútil è un vecchio cargo che può ricordare il Tramsteamer di Álvaro Mutis e che, quando viene spiaggiato per la demolizione, smette di essere una nave per diventare solo una massa di metallo, come un aeroplano di Del Giudice in stallo, i disincontri tra Usodimare e Nenè sono in piena regola cortazariani, senza contare i riferimenti all’Isola del tesoro e a Moby Dick. E senza contare le influenze dal mondo del fumetto (Corto Maltese) e da quello del cinema (l’Humphrey Bogart di Acque del Sud) nell’atmosfera del racconto. Dunque una summa della letteratura di mare e del relativo immaginario: non mancano nemmeno i pirati…

Però il motore primo, lo spunto iniziale da cui conseguono le immagini più potenti del racconto proviene dalla realtà: esiste per davvero Chittagong, la città del Bangladesh dove vengono demolite le grandi navi «paratia per paratia, ponte dopo ponte, stiva dopo stiva», manualmente, da moltitudini di operai malridotti e sottopagati. Quella di Chittagong è la più grande industria di demolizione al mondo, al servizio delle grandi acciaierie indiane che riciclano i metalli delle ex navi. Ma quello che interessa Franco non è il potenziale realismo sociale da reportage: sono gli aspetti simbolici che si manifestano in questo luogo così unico al mondo. Altman (Nashville) e Delillo (Underworld) ci hanno fatto sentire la forza evocativa delle discariche di automobili, ma con le navi di Chittagong l’effetto è un po’ diverso. «Ciminiere senza caldaie, antenne, gru. Prue senza navi, eliche senza poppe»: la nave in demolizione è un ammasso di cose che hanno perduto il loro senso e la loro funzionalità, ma anche, forse, una nobiltà che le automobili non hanno mai avuto. E poi il Bahía inútil che «scompare centimetro per centimetro fra gli altri rottami» sembra la carcassa di un gigantesco animale mangiato dalle formiche, esempio di un meccanismo naturale oscuro e incomprensibile prima ancora che doloroso; il ponte di comando a trenta metri di altezza sulla spiaggia via via senza più niente intorno a sé sembra una torre di Kiefer, il relitto delle burrasche della storia, un punto di vedetta sull’insensatezza del mondo.

L’ultimo viaggio del Bahía inútil, la sua morte per spiaggiamento e la sua meticolosa demolizione sono il tema di fondo del racconto, ma questo tema si intreccia con un personaggio affascinante e con una storia sentimentale molto romantica. Gli amori mancati sono quelli più forti e più interessanti: lo dice la storia della letteratura e del cinema. Pepe Usodimare, capitano di lungo corso nato nella «città ricurva», che mai nel racconto viene chiamata Genova, ha avuto molte donne e un solo grande amore: Nenè, che però si è invece legata a MG, «uno di quegli amici che per un caso della sorte stanno sempre un passo avanti a noi». L’ultimo dei disincontri tra Usodimare e Nenè era avvenuto proprio a bordo del Bahía inútil, quando la donna aveva convinto Usodimare ad andare a salvare MG, che doveva scappare clandestinamente dall’Egitto dopo che qualcosa nei suoi loschi traffici era andato storto. Da quel viaggio pericoloso Nenè non tornerà viva, ma prima di morire dirà a Usodimare: «Ti lascio qualcosa su questa nave. Trovalo, cercalo, almeno». Ecco perché Usodimare, guidando il Bahía inútil nel suo ultimo viaggio, controlla ossessivamente ogni centimetro quadrato della nave, smontandola idealmente già prima di portarla allo smontaggio definitivo. E incarica anche l’equipaggio di cercare, senza però essere in grado di specificare che cosa. 

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Nel suo discorso ai marinai dice: «ognuno di noi nasconde qualcosa e cerca o è cercato da qualcosa. A volte veniamo trovati a volte no». Questo è il cuore del libro. Cercare senza sapere che cosa, aspettare di essere trovati: sono precise metafore della letteratura, ma sono anche formule perfette per indicare i meccanismi del desiderio, e dunque dell’eros, il cui reale oggetto, se pure esiste, come direbbe Lacan è sempre qualcosa di assente o, si può aggiungere, di misterioso. Dunque il cuore del libro è contemporaneamente letterario e sentimentale, e questa è poi la cifra della scrittura migliore di Franco, come già aveva mostrato nel suo unico romanzo, Vite senza fine, anche quello tutto giocato su una storia d’amore mancato.

Racconto d’amore e racconto di morte, come si è detto. Però in realtà è anche un racconto di sopravvivenza oltre la morte. Il fantasma di Nenè aleggia sul e dentro il Bahía inútil e non è solo un ricordo. E Usodimare che fine ha fatto? Scompare nel nulla e non si potrà mai dire se si è ucciso o se naviga ancora in qualche angolo di mare. E d’altronde un personaggio del libro sostiene che la balena bianca «nuota dall’inizio dei tempi. Certo, poi ha incontrato quel capitano americano che si è portata via, ma sta ancora da qualche parte e ci sarà anche dopo la fine del Bahía inútil». I grandi sentimenti, i grandi miti non muoiono, durano per sempre. E d’altra parte è già tutto detto nell’incipit del libro: «Ancora una volta per l’ultima volta». È l’addio perpetuo. Un congedo iterato per una serie infinita di repliche nel grande teatro del mondo.

Pepe Usodimare (il cui cognome è preso da un navigatore genovese del XV secolo) è l’ultimo rappresentante di una famiglia di «eroi virili», per dirla con Asor Rosa, dai tanti marinai di Conrad a Maqroll il Gabbiere di Álvaro Mutis (amato e tradotto da Franco). E la lingua marinara del racconto affonda in una lunga tradizione che è insieme letteraria e tecnica. Immette il lettore in un universo preciso e nello stesso tempo mitico. Quella di mare è una letteratura che mette sempre in scena il destino. Non il fato, che è deciso dagli dei, ma il destino che è almeno in parte costruito dagli uomini, con le loro scelte morali e con i loro gesti estetici. Il destino dei marinai è qualcosa che ha a che fare con la sfida e con la libertà, con un oltre che a volte non può essere espresso solo in miglia marine. Attraversa e mescola i luoghi, intreccia le lingue, i fusi orari e i tipi umani. E però non è esente dalle gabbie e dalle ossessioni. Usodimare ne sa qualcosa. Ma libertà, sfida, gabbie, ossessioni sono gli ingredienti della letteratura: la letteratura di mare è sempre una letteratura al quadrato. Ed è così che Franco accomuna Usodimare e Moby Dick con la stessa risata che in due diversi punti del racconto il capitano e la balena fanno: una risata enigmatica, ma abbastanza liberatoria, che comprende in sé tutto l’assurdo di ogni vicenda su questa terra e in fondo al mare. Lo stesso gusto per cui assurdo, comico e metafisico si fondono in una connotazione unica è testimoniato da una scena bellissima del racconto in cui il topos del vascello fantasma, dalla Ballata del vecchio marinaio all’Olandese volante, è qui rinnovato con l’immagine di una piccola flotta di catamarani guidati da una scimmia che salta da uno all’altro. L’elemento inquietante dell’imbarcazione senza pilota è qui corroborato da un elemento indiscutibilmente grottesco.

Letterario e sentimentale, s’è detto. Ma il lato sentimentale del racconto non sta solo nella storia d’amore tra Usodimare e Nenè. C’è una disseminazione di tracce personali emotivamente molto calde (anche in questo caso non senza ironia). A partire dalla «città ricurva». Snodandosi su un golfo, Genova non può essere concentrica come Milano né squadrata come Torino. Il pensiero curvo dei suoi abitanti sarà dunque un pensiero malinconico, ma anche teatrale, perché la città è di fatto una platea e una galleria naturale sul palcoscenico del porto (e il teatro, praticato in varie forme, è sempre stata una delle passioni di Franco fin dagli anni giovanili). Si dice nel racconto che, abituati a vedere le grandi navi da crociera entrare e uscire dal porto, i genovesi immaginano che anche i palazzi della loro città, prima o poi, salperanno in mare aperto. È una città predisposta all’immaginazione e alla letteratura. E si capisce che è una città amatissima, anche se Franco vi ha abitato lontano per gran parte della sua vita, o forse proprio per questo (a Genova è dedicato in gran parte un libro di poesia di Franco che uscirà prossimamente, anche questo purtroppo postumo). Poi ci sono le due mogli, le donne della sua vita trasfigurate in Donna Marina e Nené, fellinianamente riconciliate. E possiamo anche svelare che MG, diventato qui il rivale di Usodimare, era l’auto sportiva che la moglie Irene, a cui il libro è dedicato, amava guidare. Ma queste sono cose che ogni scrittore fa e che non è necessario che il lettore sappia. Il lettore però, anche se non coglie i riferimenti, sente di trovarsi di fronte a un racconto molto intimo, nonostante l’impianto letterario. Peraltro, non c’è niente di struggente come la vera letteratura…

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