Il ratto d'Europa. Dialogo con Angelo Bolaffi

29 Luglio 2024

Che cosa vuol dire, oggi, Europa? Domanda ricorrente che assume un risvolto puramente retorico, se non si inquadra in una questione anzitutto autenticamente filosofica. In un discorso moraleggiante di infimo livello gli “europeisti” si scontrano con i “sovranisti”, facendo sì che questa rappresentazione dei problemi risulti del tutto sconnessa con quali siano davvero le domande radicali da porsi in tale epoca storica. Domande radicali che implicano andare alla radice dei problemi, e abbandonare per qualche istante gli sterili prosceni in cui il nostro pensiero sembra irretito. 

Compito improbo e ponderoso che abbiamo provato solo minimamente ad assolvere con Angelo Bolaffi, storico Professore di Filosofia politica dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, che da molti decenni studia e scrive su tali problemi. 

Partirei, per dar cominciamento a questo dialogo, da un famoso dipinto del “tardo” Tiziano, il Ratto di Europa (1560-1562). La tela raffigura il noto episodio mitologico nel quale la principessa fenicia Europa viene rapita da Zeus, tramutatosi in un toro bianco per riuscire nel suo intento. Ciò che mi ha colpito è che in Tiziano l’episodio è raffigurato con una dinamicità e tragicità pressoché inesistenti in altre iconografie moderne del racconto mitico. Europa è terrorizzata dal toro bianco e cerca in tutti i modi di sfuggire alla indomita bestia: sembra letteralmente travolta dalla forza e dalla potenza del dio. Sopraffatta cerca di agguantare il toro per le corna, come se solo così potesse riuscire ad avere una qualche “presa” sull’animale. Il suo sguardo si rivolge disperatamente agli angeli, che nulla possono. Sullo sfondo, il cielo è vivido a tal punto da dare per un attimo l’impressione di esser catapultati in un dipinto di Emil Nolde... Anche il cielo, quindi, sembra ridarci un senso di profonda inquietudine, di estrema fragilità e mutevolezza. Ecco allora il punto: chi è, oggi, il toro bianco che travolge l’Europa? 

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Tiziano, Il ratto di Europa, Isabella Stewart Gardner Museum.

Anzitutto, farei una distinzione tra Europa ed Unione Europea; l’Unione Europea è un progetto geopolitico escogitato, inventato, sperato nel momento più drammatico, ovvero nel fallimento storico dell’Europa, quando cioè l’Europa si è autoesclusa dalla storia. Una guerra civile europea, se vogliamo, inizia con la guerra franco-prussiana del 1870 e termina con l’occupazione di Berlino. A quel punto una parte dell’Europa – perché l’altra Europa, come nota bene Kundera, era stata “rapita” – ha avuto la fortuna di stare dalla parte “giusta” del muro, e con l’aiuto della nuova potenza geopolitica mondiale, gli U.S.A. – e precisamente con l’aiuto decisivo di quei profughi ebrei tedeschi che lavoravano per i servizi statunitensi (Otto Kirchheimer ad esempio, Franz Neumann ed altri) – ha potuto cercare di trasformare se stessa da Abendland in The West, l’Occidente. Ecco il progetto geopolitico di una nuova egemonia capitalistica e liberale, il cui fulcro erano gli Stati Uniti. 

L’Europa, invece, è già etimologicamente “terra dove tramonta il Sole”. Essa in tal senso è sempre esistita, anche quando Nietzsche la prende in giro dicendo che è una piccola appendice della massa asiatica. Non giocherà magari sempre un ruolo geopolitico, come è evidente, ma quel progetto geopolitico è nato solo dopo la seconda guerra mondiale; oggi, questo progetto è messo in discussione, vacilla. Quella immagine a cui lei rimandava mette in risalto non tanto un disegno geopolitico, quanto un’Europa che ha radici profonde nel Vicino Oriente (si pensi ad Alessandro Magno, ad esempio). 

A proposito del versante geopolitico del lemma, lei scrive in Calendario civile europeo. I nodi storici di una costruzione difficile (a cura di A. Bolaffi e G. Crainz, Donzelli, Roma, 2019) che “anche se i trattati che stabiliscono gli equilibri e i rapporti tra gli organi dell’Unione (Consiglio, Parlamento e Commissione), come pure le regole del loro funzionamento, sono restati immutati, di fatto nel corso del decennio […] è avvenuta una silenziosa metamorfosi del loro funzionamento a seguito della quale oggi dobbiamo prendere atto di un dato di fatto inoppugnabile: che gli avvenimenti hanno, per così dire, preso il sopravvento sulle regole. La contingenza ha prevalso sulla norma”. A me colpisce molto questo riferimento alla contingenza, che rimanda a una chiara dimensione “governamentale”, e per questo le chiedo se questo ricorso al governo della contingenza che lei dice abbia prevalso sulla norma opprima o privi di senso l’organismo rappresentativo dell’Unione, ovvero il parlamento europeo. Questa nuova logica, insomma, mette in crisi quella vetusta dello Stato moderno? 

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In Italia c’è una cosa, anzitutto, di cui non si discute mai (a differenza che in Germania, a partire da alcune sentenze della Corte costituzionale tedesca): il parlamento europeo non è un parlamento democratico, perché non è eletto dai cittadini europei secondo la regola semplice di “una testa, un voto”. Un parlamentare tedesco ha bisogno per essere eletto di x numero di voti, un parlamentare ad esempio del Lussemburgo ha bisogno di tutt’altro numero di voti per essere eletto. Questa è una logica che è propria della rappresentanza federale dei Länder tedeschi, e c’è con evidenza anche nelle elezioni americane (si pensi ai famosi “stati chiave” per l’elezione del presidente statunitense), ma c’è un problema in tal senso: l’Europa non è uno Stato federale. 

Dobbiamo poi ricordare, e anche questo è utile alla riflessione, che la nascita del Parlamento europeo non era prevista. Quando nacque la Comunità europea c’era una Commissione che aveva un ruolo tecnocratico volto a facilitare l’organizzazione degli scambi economici tra Paesi europei; a un certo punto ci fu una sorta di “colpo di stato democratico”, voluto da Spinelli, che introdusse le elezioni democratiche. Per reazione alla introduzione del suffragio parlamentare europeo, venne istituito da Giscard d’Estaing il Consiglio europeo, che è la rappresentanza degli Stati. Quindi la sovranità rimane ancora presso gli Stati; gli Stati continuano in fondo ad essere i soggetti sovrani dell’Unione europea. Chi racconta che gli Stati sono qualcosa di illegittimo, contrari allo spirito europeo, racconta una bugia. Gli Stati sono ancora i padri della sovranità europea, che hanno deciso di condividerla parzialmente tra di loro. Per questo, secondo me, gli Stati europei che fanno parto dei 27 dell’Unione sono Stati sovrani post-moderni: non hanno più le caratteristiche dell’assolutezza (Bodin), ma mantengono alcune competenze – che continuano quindi ad essere sovrane – mentre altre le delegano all’Unione europea; hanno deciso cioè per motivi strategici, e non solo per motivi democratici, di delegare alle istituzioni europee parte della loro sovranità. Ma loro delegano: e quindi mantengono la loro sovranità proprio mentre decidono di delegare. 

La favola che corre in Italia e in Europa secondo cui se non ci fossero gli egoismi nazionali trionferebbe un cosiddetto “spirito europeo”, è appunto una favola. Kelsen aveva già capito che l’interesse “generale” è un’ipostasi, non esiste. L’interesse generale è invece un risultato di una mediazione, di un compromesso tra diverse posizioni. Non esiste uno “spirito europeo” che evocato, ma è un risultato di una trattativa faticosa che ha una funzione legittimante. Il compromesso non è qualcosa di negativo, come invece dicevano Carl Schmitt e il giovane Otto Kirchheimer. Kelsen ha ragione: il vero buon compromesso, come ha sempre sostenuto anche Angela Merkel, è tenere presenti le differenze degli interessi trovando delle soluzioni che abbiano una capacità di überwinden (“superare”), di aufheben (“levare”) in senso hegeliano, cioè di prender con sé nel mentre si supera. 

Il Parlamento europeo, in sostanza, per me funziona male. Ci sono pochissime circoscrizioni per le elezioni, dove sono i collegi, dove i parlamentari tornano a render ragione di quello che hanno fatto? Possiamo dire quindi che il Parlamento europeo possiede una dinamica propria, non è una rappresentanza democratica del demos europeo, è solo una componente funzionale della costruzione di una legittimazione europea.

 La Corte costituzionale tedesca ci dice che l’Unione è un unicum, se vuole, un monstrum: non è né una semplice confederazione di Stati, né uno Stato federale. È qualcosa che sta in mezzo. 

Sono molto d’accordo con la sua critica all’istituzione parlamentare europea così come rilevo il suo opaco meccanismo di selezione dei propri deputati... 

Tra l’altro, soprattutto dall’Italia vengono mandati showmen, con candidature di bandiera…

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Alexis HAULOT, © European Union 2024.

Meno forse mi sento di concordare con questa idea che, grazie a questa accezione “positiva” di compromesso, esso possa poi davvero esser raggiunto. Mi viene il dubbio, tramite ad esempio alcune riflessioni di Kirchheimer che ha prima menzionato, che sia molto difficile pensare un’unione politica tra Stati – che ancora pretendono e posseggono (ma solo in parte) alcune prerogative tipiche della sovranità – senza un sostrato politico comune. Lei parlava testé della Aufhebung hegeliana, appunto di quel “levamento” che non oblitera le differenze; ma, forse, il grande problema ancor prima del pensare a questo “levarsi” delle differenze è appunto autenticamente politico, ed è cioè capire se vi sia, davvero, qualcosa da mettere in comune, qualcosa che ancor prima del problema del compromesso metta al centro la questione rimossa dell’identità politica europea. Un concetto di “politico” di stampo europeo è, allora, possibile? 

È possibile, ma forse non nella forma a cui magari noi pensiamo. Una forma del “politico” europeo è il viaggio Macron-Draghi-Scholz sul treno verso l’Ucraina. Fu una decisione altamente simbolica, che significò molto. È una decisione politica l’idea che faticosamente gli Stati europei dedichino parte delle loro risorse economiche all’invio di armi per l’Ucraina e non a spartirle per il welfare. Il fatto che si decida una certa politica dell’asilo dei migranti è anch’essa una decisione politica. Viene presa, appunto, faticosamente, ma viene presa. Poi il problema del politico c’è… pensi quanto sia difficile eventualmente da Bruxelles decidere di mandare a morire in Ucraina un cittadino italiano… è estremamente complicato. Già era difficile per lo Stato-nazione, si pensi per l’Unione! Ma ci si riesce eventualmente, se ci si riuscirà mai, proprio perché bisognerà arrivare a una soluzione di compromesso, e questo avverrà solo realisticamente dalla lunga e faticosa azione mediatrice degli Stati, che sono ancora gli unici soggetti legittimati democraticamente. Il demos continua a riconoscere – anche se con tanta fatica – il proprio Stato; l’U.E. non ha ancora, agli occhi di quello stesso demos, una propria completa legittimità. 

Poi, io ho avuto una fase “schmittiana”…

Mi verrebbe da dire che in Italia è stato uno “schmittiano” prima degli “schmittiani”…

Ho ancora delle lettere che Schmitt mi inviò; andai anche a trovarlo a Plettenberg nel 1980. Ma lui ancora all’epoca non poteva capire che esistesse qualcosa come i “sindacati”… è il pluralismo il grande problema di Schmitt, e la società moderna è una società plurale. 

A proposito del discorso che stiamo facendo, a me ha molto colpito che in un suo testo del 2002, Il crepuscolo della sovranità. Filosofia e politica nella Germania del Novecento (Donzelli, Roma, 2002), scriva: “l’epoca della sovranità si è definitivamente conclusa. E con essa è uscita definitivamente di scena la versione “continentale” della statualità”. Questi passi, oltre a richiamare da vicino una tesi che lo stesso Schmitt espresse nella celeberrima premessa del ’63 alla riedizione di Il concetto di politico, mi permettono di porle una domanda tutto sommato semplice: è ancora convinto di questa diagnosi? 

Io direi anzitutto questo: la sovranità che dico essere finita è quella che io definisco “continentale”, perché per il resto la sovranità continua ad esistere. Cos’è in fondo la Cina, cosa sono ancora gli U.S.A., se non Stati sovrani? Non funzionano più con quell’idea quasi omerica di stampo decisionistico, la sovranità diviene un complesso di decisioni, è un sistema…per comprenderla, serve più la teoria dei sistemi oggi che la teoria decisionistica. La sovranità non ha più un punto archimedico, essa diviene un continuo rimando di competenze, non vi è più un’ultima istanza. 

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L’unico posto forse ove ancora vi è sovranità in senso decisionistico sono i tribunali. Il giudice decide e lì finisce. Non c’è più quindi quella sovranità, se c’è davvero mai stata per come la immaginiamo. 

Nella trasformazione dell’odierno liberalismo non pare in alcun modo avvicinarsi una medesima crisi del modo di produzione capitalistico, che anzi pare vivere in alcuni settori una piena Steigerung (“intensificazione”). E qui arrivo a un’ulteriore domanda: questa epoca storica che viviamo oramai da più di un trentennio è l’espressione di ciò che è davvero la logica del potere moderno ne è cioè il suo disvelamento oppure quella che lei chiama post-modernità politica è in realtà qualcosa di diverso, cioè una crisi/trasformazione di un modello che in fondo si è sempre più allontanato dalla sua origine? A me pare che questi siano due elementi compresenti sotto molti punti di vista, ma vorrei sottolineare soprattutto il lato legato al disvelamento; questo ritorno a un paradigma governamentale che fuoriesce dalla logica della rappresentanza democratica credo possa essere, davvero, ciò che in fondo il moderno oblia, ciò che il moderno sempre occulta e che noi stessi non riusciamo più a vedere (che in sostanza non vi sia mai un fuori dal rapporto governato-governante). E se non c’è un fuori da quel rapporto, lo stato di salute pessimo delle nostre liberal-democrazie ci serve quantomeno per comprendere la vera radice, l’origine, di queste ultime. Krisis della politica moderna oppure aletheia della stessa?

Questo non lo so con certezza, credo che vi siano nella storia, e ancor più nella modernità, fasi di cambiamento radicali che sono di tipo tecnico, culturale (pensiamo solo a quanto sia cambiato il mondo a seguito dell’invenzione della stampa, o a quanto il nostro mondo sia profondamente mutato con le moderne tecnologie e a seguito dell’invenzione dei social networks). Credo in sostanza che ciò che viviamo non sia la verità del mondo liberale, non l’aletheia, ma una crisi di una età del mondo capitalistico-liberale, e che stiamo per entrare in una nuova età dominata da fattori tecnici e culturali completamente diversi, i quali mettono già in discussione i fondamenti della tradizione storica liberale. 

Più crisi che disvelamento, quindi. Potremmo congedarci con quest’ultima questione, che richiama non a caso, per concludere, una possibile etimologia del termine Europa cui lei prima ha alluso. Il termine fenicio ereb – da cui Europasignifica per l’appunto “oscurità”, “tramonto”. Lei stesso scrive che il termine veniva utilizzato dai naviganti nell’antichità per indicare le terre a occidente dell’Egeo; solo con una suggestione, mi viene in mente che nella lingua tedesca, invece, è l’intero Occidente ad essere Abend-land: “terra della sera”, letteralmente… Coinciderà il tramonto dell’Occidente (ovvero di quel pezzo di mondo a trazione americana) con il tramonto dell’Europa, o essa riuscirà a sottrarsi a questo lento declino – quanto meno dal punto di vista geopolitico – della potenza americana? 

Secondo me l’Europa da sola non va da nessuna parte. L’Europa può sopravvivere soltanto se sopravviverà il progetto democratico dell’intero Occidente, altrimenti l’Europa tornerà ad essere quella di cui parlava Nietzsche: un’appendice. O l’Europa attraversa l’Atlantico e collega se stessa all’Ovest (che si spinge anche oltre l’America, arrivando fino alla Corea, all’Australia, al Giappone), verso quel mondo che ha attraversato Magellano, oppure per l’Europa arriveranno tempi molto complicati e difficili. 

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