La Flavia
Salendo verso il passo dello Stelvio dal versante altoatesino mi trovai un giorno d’estate nel bel mezzo di una festa popolare in un villaggio di poche anime, durante la quale gli austeri paesani che parlavano un dialetto germanico con forte accento mi constrinsero a visitare la locale esposizione dedicata alla vita ai limiti. In una saletta del piccolo municipio infatti era stata allestita una raccolta di erbe e fiori disseccati, di animali imbalsamati e di frammenti di roccia che provenivano dalla fascia alpina più alta, oltre i 2500 metri, ai limiti della vita. Vidi un falco e un gallo cedrone, alcuni culbianchi e fringuelli, una marmotta e un ermellino, e molti fiori d’alta quota in un erbario ben curato. C’erano anche le teche degli insetti: alcuni coleotteri che parevano carabi, delle mosche, dei grossi bombi e soprattutto molte falene e farfalle. Gli occhi si soffermarono immediatemente su alcuni Parnassius phoebus in bella mostra, forse 4 o 5 in totale, preparati un poco rozzamente con le ali anteriori leggermente piegate verso il basso come costumano coloro che non s’intendono di farfalle e come si vede spesso nei testi dell’‘800. Ma poi, guardando un poco oltre i febi, i miei occhi si imbatterono in una grande falena dalle ali anteriori a grandi chiazze nere circuite da candide strie bianche e dalle ali posteriori giallo chiaro, quasi color limone. Aveva un addome rosso vivo con strie nere e un torace nero e molto peloso tanto da ricordarmi il gibbo del bisonte. La testa non si vedeva tanto il gibbo era prominente, ma spuntavano dal capo due antenne nere segmentate.
Flavia
Conoscevo questa falena per essere la mitica Flavia, o Arctia flavia per usare la nomenclatura ufficiale entomologica. Sapevo anche che si trattava di un arctina, ovvero di un membro di quella magnifica sottofamiglia di falene che spesso, ma non sempre, volano di giorno e che sono quasi sempre dotate di vivaci colori, certamente tra i più vistosi osservabili nell’immenso regno delle farfalle cosiddette notturne. Anche questa aveva abitudini notturne, ma per trovarla occorreva salire oltre i 2500 metri di altitudine e porre la lampada nei pressi delle pietraie dove a volte si incontrano piccoli nevai che stentano a sciogliersi anche durante i mesi estivi. È questo il suo ambiente; è qui che cresce la sua larva nutrendosi di piantaggine, doronico, alchemilla, artemisia e altre saporite erbe alpine, e nascondendosi sotto le pietre o negli anfratti del terreno. Ed è qui che vola la bellissima falena adulta soprattutto, si dice, nelle ore finali della notte e sino all’alba.
Un anziano professore, medico e letterato, che era stato il mio mentore per anni, poco tempo prima conoscendo la mia passione per le farfalle mi aveva regalato un libercolo di non più di cinquanta pagine che raccoglieva alcuni racconti dedicati alle farfalle dal grande scrittore Hermann Hesse. Uno di questi, il più bello e affascinante, era quello sulla Flavia. Hesse racconta della sua escursione al Passo dell’Albula, nei Grigioni, dove ai suoi tempi, oltre un secolo fa, gli entomologi e i collezionisti salivano numerosi a cacciare questa falena. Era una breve ma preziosissima testimonianza della passione che lo stesso Hesse nutriva per le farfalle, ma anche di come già ai primi del ‘900 l’appassionato non ponesse ostacoli alla propria febbre per le rare specie salendo in luoghi improbabili con i mezzi di allora a cercare falene di notte. Il racconto descrive la maldestra rivalità tra collezionisti – in verità, Hesse li dipinge come “fanatici insopportabili” quando si ritrovano in massa alla ricerca della specie rara – che soggiornavano in uno dei due alberghetti di Preda, saliti sin lassù a porre lampade all’acetilene nelle fredde notti dell’Albula nella speranza di trovare la Flavia. Ricordava, questo suo narrare, un po’ ciò che si leggeva nel Diario del Carabo, quella sorta di rudimentale registro conservato dall’albergatore del Bocchetto di Sessera mezzo secolo fa in cui i collezionisti del raro carabo biellese descrivevano le loro cacce spesso infruttuose manifestando tutta l’indignazione e la frustrazione possibili, oppure il successo con parole esagerate e, appunto, da fanatici. A Preda, stazioncina ferroviaria sulla via dell’Albula, la gente si guardava in cagnesco e si temeva, racconta Hesse: tutti erano rivali, “ognuno brama la preda, ognuno controlla gli altri”. Ma lo stesso scrittore ammetteva che ci si può contagiare in luoghi simili e che lui stesso decise quella volta lassù di iniziare una raccolta di farfalle dopo aver respirato l’aria del fanatismo dei collezionisti per l’ambita falena.
Così, dopo aver letto e riletto Hesse e vista la Flavia in quella teca del villaggio su per la tortuosa via dello Stelvio, decisi che anch’io avrei cercato questa creatura mitica delle altissime quote. Ma farlo non era semplice. Questa non è una farfalla che vola di giorno sulle distese fiorite dei grandi passi alpini. E non è neppure una di quelle falene attratte facilmente alla lampada, visto che vola a notte fonda e sino all’alba quando la maggior parte dei ricercatori, infreddoliti e delusi, se ne sono già tornati in albergo a dormire le poche ore rimaste della notte di dura caccia. Ci provai così andando inizialmente su alcuni passi alpini a 2500 metri a esporre la lampada con tanto di telo bianco dove si posano le falene attratte dalla luce. Giungevano le Apamea e le Standfussiana di alta quota, alcuni geometridi grigi con bei disegni e una stria giallognola, ma della bella falena che cercavo non v’era traccia.
Standfußiana
Provammo in varie occasioni con l’amico Piscopo desideroso di sperimentare le sue lampade che confezionava d'inverno con grande cura; provammo anno dopo anno. Invano. Giungevano alla lampada anche specie rare ma la Flavia non si riusciva a stanare. Salimmo anche all’Albula, dato che non solo Hesse ma eminenti entomologi d’oggi citano l’esistenza di una residua e discreta colonia di flavie. Era una notte buia e un poco nebbiosa, con il vento che disturbò non poco la ricerca soffiando a tratti gelidamente. Stemmo lì in attesa per tre ore prima di scendere a La Punct, un tranquillo borgo romancio in Engadina, per dormire. La falena non si fece vedere. Poi, un giorno fortunato, scoprii, conversando con alcuni collezionisti, che era presente su di un passo ad altissima quota, quasi tremila metri, nelle notti tranquille di fine luglio. Mi dissero che la si vedeva spesso svolazzare robusta intorno alle lampade accese nella notte nei pressi dei tre alberghi che stanno al passo. Così, in un’annata particolarmente calda e con l’aria irrespirabile in pianura, salimmo al passo di quasi tremila metri per passarvi un paio di notti alla ricerca dell’ambita falena.
Soggiornammo all’albergo Edelweiss, un anziano edificio squadrato scavato sul fianco della roccia che disponeva di una ventina di camere frequentate da alpinisti e amanti della montagna. In quella prima serata, conversammo con gran piacere con l’albergatrice, una colta signora di mezzà età che ci serviva i tradizionali “sciat” della Valtellina, i gustosi cubetti di formaggio sciolti in una pasta di grano saraceno bollente a formare delle palline rotonde e impanate che si accompagnano bene all’Inferno valtellinese, rosso e corposo. L’albergatrice, servendoci gli “sciat”, si arrestò al nostro tavolo e, un poco guardinga, ci chiese che facevamo da quelle parti vedendoci arrivare senza la tradizionale tenuta degli scalatori e degli sciatori estivi dei ghiacciai che circondano il passo, ma piuttosto con ridicoli retini e abbigliati come i bavaresi. L’amico Piscopo, in particolare, vestiva un paio di pantaloni verde militare al ginocchio, calzettoni rossi che dovevano essere del nonno e un maglione con disegni di genziane, stelle alpine e corna di stambecco. All’albergatrice, spiegammo che da quelle parti vive una falena mitica, bellissima, ricercata con passione da tutti coloro che amano i lepidotteri. Citammo Hesse e il suo racconto e ci inventammo lì sul momento qualche storiella per renderci più interessanti ai suoi occhi avendo intuito che costei ci guardava con quel sospetto che è tipico di chi si trovi ad aver a che fare con degli strambi scienziati. La colta signora che di flora e fauna alpine se ne intendeva ci spiegò, con aria sarcastica, che eravamo al posto giusto. Infatti, ci disse, lei era disgustata da tutte queste bestiacce pelose che si ritrovava a dover ramazzare via con la scopa ogni tiepida mattina della stagione calda; erano dozzine di falene che si accumulavano sulle vetrate e i muri dell’alberghetto e che lei trovava quando all’alba ne apriva le porte. Chiedemmo, esitanti, se per caso non ne vedesse di bianco-nere pelose e grandi. Lei rispose parlando di una falena tigrata di bianco e di nero, grande e minacciosa: “magari porta anche disgrazie” aggiunse. Non ebbi alcun dubbio: doveva essere la Flavia, poiché non vi è altra specie che corrisponda a quella descrizione. Chiesi una camera con finestra in posizione strategica così da poter vedere uno dei grandi lampioni che l’albergatrice accendeva all’imbrunire ogni sera e sotto al quale le falene, ci aveva detto, si accumulavano nella notte.
Quella sera uscimmo con la lampada sui vicini dossi che guardavano alle pietraie con piccoli nevai residui. In pianura facevano 38 gradi in quell’estate torrida e quassù eravamo a quasi venti malgrado la grande altitudine. Piscopo continuava a ripetere che non l’avremmo trovata dato che aveva letto che volava solo a notte inoltrata e sino all’alba. Io lo deridevo e dicevo che quelle erano solo leggende inventate da chi non era riuscito a trovarla. Non c’era vento e si stava bene. Il cielo stellato mostrava le costellazioni estive e Giove la faceva da padrone verso sud-est. Passarono due ore e la nostra falena non giungeva. Ci volavano addosso come folli e cieche le Noctua gialle di due specie diverse e si posavano ovunque con quel loro fare che pare di scarafaggio quando racchiudono le ali a formare una sorta di allungato sigaro color ocra e girano a cerchio senza meta fino a riprendere il volo. Volavano anche specie di alta quota: riconoscemmo nottuidi e geometridi, ma la nostra non giunse. Era appena passata la mezzanotte quando, delusi, spegnemmo la lampada e riprendemmo la via del ritorno all’alberghetto. Cercavamo scuse per il nuovo fallimento: forse era troppo avanti nella stagione, o forse era troppo presto; forse le onde luminose emesse dalla lampada non erano quelle che attraggono la Flavia; forse vola davvero verso l’alba; o forse non era vero che in quel passo la specie era presente. Giunti che fummo all’albergo, proposi di dare un’occhiata ai lampioni. Piscopo, deluso e arrabbiato per il fallimento, non ne volle sapere; decise invece di sperimentare uno dei suoi complessi marchingegni, quella trappola a raggi ultravioletti che da tempo studiava nei minimi particolari. Salì allora sul terrazzo del nostro albergo ad accendere una fioca lampada di Wood sistemata su di un contenitore in grado di immagazzinare le falene attratte. Quindi, disse di aver sonno e se ne andò in camera a dormire. Mi avvicinai così ai miei lampioni con quella speranza ultima che motiva a rifiutare inconsciamente la ovvia realtà sfavorevole. Notai ovunque quelle cilindriche Noctua color ocra e poc’altro. Avanzai verso l’ultimo dei lampioni, quello vicino alla porta principale dell’albergo.
Flavia
Ero a cinque metri e vidi subito una grande macchia nera sul muro. Fu questione di un attimo a riconoscere quell’immagine che avevo visto centinaia di volte sui testi. Non poteva che essere la Flavia. Mi avvicinai con prudenza, ma la grande falena non aveva l’aria di essere allarmata. Al contrario, era lì quieta posata sotto al lampione con le ali a tetto a coprire il rosso addome: vidi quell’aspetto tigrato che avevo desiderato vedere per anni e quel gibbo peloso del torace che nascondeva il capo. La toccai delicatamente per vederne le reazioni, ma quella se ne stava con gli artigli ben ancorati al ruvido muro e non aveva intenzione di volare. La ammirai a lungo, incerto se catturarla con un vasetto pieno di vapori di etere oppure no, sinché d’improvviso, forse disturbata dal volo di una Noctua vicina, quando ormai mi ero deciso a trattenerla, se ne andò con un balzo possente roteando dapprima irregolarmente intorno al lampione e poi allontanandosi nel buio delle scarpate a pietraia dietro all’albergo. La mia stizza si trasformò presto in quella piacevole sensazione che si prova trovando finalmente la rarità desiderata da anni. Mi precipitai alla camera di Piscopo a raccontargli l’accaduto, ma malgrado le mie insistenze non volle credermi pensando a uno scherzo e mi disse di andare a dormire. Di primo mattino, dopo una notte agitata al pensiero che la falena tanto ambita c’era veramente lassù, scesi ai lampioni con la speranza di ritrovare quell’esemplare fuggito nella notte che magari era tornato al lampione. Infatti, ne avvistai presto una e poi un’altra e un’altra ancora: quattro in tutto, posate sui muri proprio come l’albergatrice ci aveva raccontato, addormentate in attesa del sole che stava alzandosi dalla pianura e di involarsi per passare il giorno nascoste tra le pietre e i licheni.
Flavia
Ancora una volta salii nella camera dell’amico Piscopo che stava ancora dormendo. Aprì la porta, inveì per averlo svegliato, mi lanciò uno sguardo irato con gli occhi semichiusi dal sonno, e si convinse a seguirmi per vedere che era giunto ai lampioni. Quando vide le quattro Flavia sobbalzò come era solito fare di fronte a un raro insetto, fu colto da grossolani tremori di felicità, e, ratto, ne prese una tra la mani sollevandola sino agli occhi per vederla meglio: “Saliamo in terrazza” mi disse gioioso, “a vedere che è successo alla mia trappola accesa nella notte”. Salirvi fu cosa di pochi istanti, e rapido fu pure l’esame del contenuto della trappola: ancora Noctua e piccoli insetti, ma il fioco lume ultravioletto aveva attratto anche un’altra Flavia il cui colore nero vistoso aveva immediatamente richiamato la nostra attenzione nel mezzo di quel generale ocra e grigio delle altre falene. Piscopo esultò felice per la bella falena ma soprattutto per aver dimostrato a me, sempre assai dubbioso ed ironico circa i suoi marchingegni, che la sua amata lampada funzionava.
Quella fu una giornata indimenticabile. Scendendo dal passo, non si fece che parlare della Flavia dai bei colori e del racconto di Hesse che pareva ora essere divenuto realtà. Piscopo mestamente si ripromise di mai più dormire di primo mattino quando si era in luoghi come quelli e io ammisi che forse questa specie davvero vola prima dell’alba e che la sua trappola funzionava nonostante le mie ironie e dubbi. Intanto, al passo tutto era quieto, il silenzio non era rotto che dai gracchi corallini, il cielo era terso e blu come si conviene a quelle quote, molte farfalle volavano sui dossi erbosi che scendevano verso un vasto pianoro appena sotto al passo, e centinaia di impalpabili Flavia riposavano sotto ai sassi in attesa del buio quando avrebbero ricominciato il loro vagare notturno in cerca della compagna distraendosi con il loro girotondo intorno ai pochi lampioni del mitico passo.