Venezia / Biennale: contraddizioni latinoamericane
Opera illustre del genio modernista di Carlo Scarpa inaugurata nel 1956, il padiglione del Venezuela si presentava durante la vernice della 58esima Biennale di Venezia con l’ingresso sbarrato e ingombro di spazzatura, in apparente stato di abbandono. I visitatori, ignari della chiusura, si avvicinavano chiedendosi se quei rifiuti non fossero proprio l’opera in mostra, magari un tributo a una certa estetica poverista che sembra non passare mai di moda. Sono state invece le agitazioni politiche che tormentano il paese sudamericano e l’agonia del regime chavista capeggiato da Nicolás Maduro ad aver ritardato l’apertura del padiglione curato da Oscar Sotillo, poi inaugurato il 19 maggio con i lavori degli artisti Natalie Rocha Capiello, Ricardo Garcia, Gabriel López and Nelson Rangelosky. L’assenza temporanea del Venezuela è diventata così paradossalmente lo statement politico più forte tra i padiglioni latinoamericani, che in questa edizione della Biennale curata da Ralph Rugoff peccano per la mancanza di spessore sia dei temi trattati che degli allestimenti, in cui la molteplicità di rimandi intertestuali “affatica” le opere in mostra. L’inevitabile confusione linguistica che ne deriva maschera in effetti la perdita di un qualsiasi coinvolgimento politico autentico, sia pure spesso dichiarato in forme sin troppo esplicite. Un surplus di significanti che denuncia un vuoto di significati e di idee.
In questo panorama poco entusiasmante fa forse eccezione il solo padiglione del Brasile, che con Swinguerra propone un’analisi estetica e antropologica della regione a nord del grande paese sudamericano. Commissionato dal curatore Gabriel Pérez Barreiro – già direttore della collezione Patricia Phelps de Cisneros, una delle più importanti di tutta la regione, e curatore della 33esima Biennale di San Paolo (2018) –, Swinguerra è una doppia videoproiezione opera degli artisti Bárbara Wagner e Benjamin de Burca (1980; 1975). Wagner è di Brasilia ma ha studiato al Dutch Art Institut di Arnheim, in Olanda, mentre de Burca, nato a Monaco di Baviera, ha frequentato la Glasgow School of Art e l’università dell’Ulster; i due hanno iniziato a lavorare insieme nel 2015 con l’opera audiovisiva Faz que vai. Proprio in questa occasione Wagner e de Burca sono venuti in contatto con le comunità di swingueira di Recife, la città in cui è nata come genere di danza popolare in cui gruppi costituiti da dieci fino a cinquanta persone si sfidano in competizioni annuali. Come spiega Bárbara Wagner “La swingueira è una sorta di aggiornamento di una serie di tradizioni come la quadriglia, la scuola di samba e il trio elettrico, praticate in modo indipendente dai giovani che si incontrano regolarmente negli spazi sportivi alla periferia di Recife. È un fenomeno che nasce dall’esigenza di integrazione sociale, si snoda attraverso l’esperienza dell’identità e arriva sul palco e su Instagram come una forma di spettacolo alimentato dal mainstream, ma che sopravvive assolutamente al di fuori di esso”.
Nei video, preceduti da una serie di fotografie dei partecipanti, tre gruppi – uno di swingueira, un altro di brega e uno di batidão de Maloka (due generi musicali imparentati con il reggae) – composti per lo più da adolescenti di colore, si sfidano su ritmi di musica hip-hop con testi che testimoniano invariabilmente l’imperante forma mentis machista e i suoi pregiudizi misogini, ma che nel complesso documentano un fenomeno, spiega ancora Wagner, che sembra marginale ma che occupa un ruolo centrale nella società brasiliana contemporanea. La danza costituisce un tratto distintivo della cultura brasiliana: i gruppi di swingueira raccolgono ciò che rimane di questa tradizione e del suo aspetto identitario contaminandolo con nuove forme culturali influenzate dalla predominante cultura mediatica globale. Non manca una riflessione sulle questioni di classe – i piedi scalzi e sporchi, l’aspetto esageratamente pop dei vestiti, la desolazione della periferia urbana – e di genere: i corpi sinuosi dei ballerini spesso sfuggono a questa definizione, aggiungendo a una molteplicità di forme culturali, un aspetto sessuale ibrido. Un tratto in comune con l’opera del brasiliano Hélio Oiticica, che già mostrava una fascinazione per la marginalità queer.
Proprio nel tentativo di rendere visibile la condizione emarginata delle bidonville di Rio, nel 1964 Oiticica crea i suoi primi Parangolés, vesti di materiali “poveri” di vario genere fatti indossare a ballerini di Samba provenienti dalla favela di Mangueira. I Parangolés rifiutano categorizzazioni di genere e di media, attuando una fusione tra corpo, pittura, architettura, danza, linguaggio e musica. Non sono oggetti statici ma aventi qualità performative; la danza che ne emerge ricorda i movimenti serpentini di Annabelle Moore, immortalati dai fratelli Lumiére all’inizio del secolo. In questo lavoro, Oiticica si propone di trasformare il ruolo dello spettatore in quello di “partecipante”; e coerentemente con l’idea di “morte dell’autore” reclamata da Roland Barthes negli anni Sessanta, propone la trasformazione dell’artista in “istigatore alla creazione”. Lo spettatore diventa così partecipe di una collettività unitaria, apparentemente realizzando l’utopia tardo-modernista del rifiuto di un’esperienza puramente estetica in favore di un coinvolgimento tout-court del pubblico. L’opera prospetta la nascita di una identità collettiva potenzialmente capace di superare differenze di etnie e di genere. Al pari dei Parangolés, Swinguerra insiste sulla messa in scena di una pluralità di voci e sull’aspetto collaborativo con le comunità della periferia di Recife alla base del progetto. Ma la staticità degli scatti che immortalano le prove dei ballerini e la qualità stessa dell’opera – un po’ troppo ricalcata sullo stile dei video musicali della fine degli anni Novanta– rischiano di ridurre un progetto promettente all’istantanea letterale di un fenomeno che tradisce un approccio etnografico assai convenzionale.
Nel testo Contro il vizio interpretativo che accompagna la mostra nel padiglione dell’Argentina la curatrice Florencia Battiti si interroga a sua volta sulla possibilità di fornire una risposta alla “povertà ideologica” che caratterizza la contemporaneità attraverso il progetto El nombre de un país di Mariana Telleria, artista nota per le installazioni e gli interventi volti a ri-concettualizzare la “cosa pubblica”, come nel caso di Les noches de los días (2014), in cui l’artista ha dipinto di nero la facciata del museo Juan B. Castagnino di Rosario, o Dios es un inmigrante (2017), nell’area dove sorgeva l’Albergo degli Immigranti a Buenos Aires, oggi Museo dell’Immigrazione e Centro di Arte Contemporanea dell’UNTREF. Nel primo caso, il tentativo di occultamento, di far sparire il museo dalla “trama” urbana della città, lo rende ancora più visibile, generando polemiche sia tra il pubblico che nella giunta comunale; nel secondo, alberi maestri di barche a vela vengono disposti fino a formare delle croci sovrapposte: un’installazione in situ, che raggiunge il significato desiderato solo nel luogo per cui è stata concepita, al di fuori dello spazio museale.
Nel padiglione argentino Telleria (1979) rivendica l’assenza di significati predefiniti della sua installazione, e sembra praticare una esplicita dialettica di resistenza alla significazione,. Un approccio che richiama alla lontana la polemica anti-estetica rivendicata da tanti artisti tardo-modernisti, per cui un oggetto artistico è tale in quanto semplicemente è; l’essere acquista la doppia natura ambivalente di significante e significato. A Venezia, Telleria costruisce un’atmosfera cupa, in cui tronchi d’albero che sfidano lo spazio e sono fiancheggiati da colonne di specchi si vestono di ipertrofici materiali eterogenei: frammenti di macchine smantellate, tessuti, mobili, pneumatici, spine, medaglie, cornici di quadri a forma di croci, e così via. Un accumulo indiscriminato di materiali che sembra richiamare i colchones colorati (dal 1962 in poi) dell’argentina Marta Minujin – installazioni di materassi ready-made – ma che manca dell’intrinseco aspetto partecipativo e dei riferimenti all’erotismo, all’intimità e al corpo.
I mostruosi assemblages di Telleria sono evidentemente costituiti da oggetti trasferiti dal loro contesto originario. E tuttavia questa deterritorializzazione, l’oggettualità volutamente ‘sporca’, caotica, la presunta assenza di significati non fanno altro che generare un grande pasticciaccio iconografico – accomunando il padiglione argentino a molti altri in questa Biennale – che finisce ironicamente per ribadire proprio quella mancanza di spessore politico cui si cercava di far fronte in primo luogo. Una processione di sculture monumentali in cui si affaccia, con rinnovata vitalità, una abusata estetica del trash, una forma di estetizzazione del rifiuto che non smette mai di mietere vittime anche tra artisti delle generazioni più giovani, per i quali fallisce in anticipo il gioco di matrice dada di creazione dell’inaspettato.
Pastiche verbo-visuale è quello che sembra caratterizzare anche il padiglione del Perú curato da Gustavo Buntinx, in cui viene presentato Indios Antropófagos, un progetto di Christian Bendeyán (1973). L’opera si propone di richiamare l’attenzione sulla regione amazzonica di cui è l’artista è originario, sui suoi simboli, le sue tradizioni e mescolanze culturali; “un’esplorazione post-concettuale dell’impatto sensoriale della cultura amazzonica su determinati orizzonti neobarocchi dell’arte contemporanea peruviana”, come la definisce il curatore. Il titolo rinvia a una terminologia poco nota in Italia ma ormai abusata in ambito latino-americano, quella appunto di “antropofagia”. Le origini della fortuna di questo termine risalgono al 1928, quando il poeta Oswald de Andrade scrive il Manifesto Antropófago, testo cruciale in cui vengono delineate le caratteristiche peculiari del modernismo brasiliano. Pubblicato nelle pagine del Jornal do Brasil, il manifesto era accompagnato dalla riproduzione di un’opera di Tarsilia do Amaral, Abaporu (1928), che in tupi-guarani significa l’uomo cannibale. È proprio l’iconografia ideata da Tarsilia – una figura con gambe e braccia allungate che si staglia su un essenziale paesaggio tropicale – in cui temi indigeni si mischiano a stilemi desunti da Picasso e Leger, a ispirare il manifesto antropofago. De Andrade rivendica al modernismo brasiliano un atteggiamento cannibale: la vorace ingestione di tratti stilistici internazionali che vanno a mescolarsi con la cultura autoctona è l’unica strategia capace, secondo de Andrade, di creare un’arte moderna brasiliana che sia al pari delle avanguardie europee.
E tuttavia, quello che vorrebbe essere un inno alla mestizaje (“meticciato”), resa attraverso la combinazione di stilemi e riferimenti eterogenei, nel padiglione peruviano si trasforma nell’apoteosi del kitsch: in una delle opere di Bendeyán, un quadro di grande formato dipinto a colori sgargianti, Indios Antropófagos, Río Amazonas (Perú), un gruppo, un “trenino” di donne di etnia india circondate da una vegetazione lussureggiante si staglia su una casa coloniale, un night club di Quito, come si legge sull’insegna. Le donne, con il corpo tatuato di simboli tribali, hanno in mano delle lance colorate; una di loro si fa un selfie, le altre assumono pose lascive e guardano ammiccanti verso lo spettatore. Similmente, l’opera Fila India (Recuerdos de Iquitos), adotta la stessa costruzione iconografica e lo stesso stile pop, ma utilizzando azulejos, piastrelle di ceramica importate dall’Europa - un dettaglio che enfatizza lo stratagemma "cannibale", idea chiave di tutto il padiglione. In questo preludio orgiastico sembra che l’aspetto antropofagico sia andato ad intaccare il piano socio-culturale, lasciando quello stilistico ed estetico alla mercé del caso e del cattivo gusto. Ma non era kitsch indiscriminato da cartellone pubblicitario quello che de Andrade prescriveva come strategia di creazione di un’arte nativa ma moderna, e viene da chiedersi perché la contemporaneità dell’arte latinoamericana senta ancora il bisogno di rifugiarsi nelle idee moderniste degli anni trenta, che non mancarono di raccogliere nuova linfa vitale a partire dagli anni sessanta, ma che oggi patiscono una trasformazione manierista data dall’usura del tempo.
I concetti, altrettanto abusati, di “egemonia”, “subalternità” ed “emancipazione” sono invece le idee chiave di Altered Views, l’installazione, ambiziosa e pedante, di Voluspa Jarpa nel padiglione del Chile (curato da Augustín Pérez Rubio), che sembra non aggiungere stimoli interessanti se l’ulteriore insistenza su una presunta (auto)marginalizzazione dell’arte contemporanea latinoamericana. Una retorica che poteva forse funzionare come strategia di differenziazione negli anni Novanta o inizi Duemila – si pensi al discorso critico sviluppato da Mari Carmen Ramírez in occasione della mostra Inverted Utopias, del 2004 – ma che ora non basta a stimolare una produzione davvero originale.
Da questo panorama peraltro solo parziale dei padiglioni sudamericani di questa edizione della Biennale, emergono dunque numerose contraddizioni. L’argentina Telleria rifugge un approccio troppo esplicitamente politico solo per ricadere nel vuoto di contenuto, che nonostante le pretese, non giustifica la presenza di significanti eterogenei, del caos materiale del suo lavoro. Bendeyán nasconde un’individualità artistica mascherandosi dietro un pastiche di retoriche ormai consumate. I soli Wagner e de Burca sembrano capaci di interpretare lo scenario contemporaneo enfatizzando il contesto storico e sociale dell’opera – che lo spettatore lo vorrebbe vedere in maniera più convincente, ma non se ne può negare la presenza – contaminato con la cultura mainstream e l’estetica kitsch contemporanea. Il duo artistico brasiliano sembra in effetti il solo in grado di conservare un equilibrio tra la necessità di interrogare i conflitti dell’attualità e quella di conservare alla ricerca artistica un proprio spazio di discorso e di azione.