Speciale
Barthes tra i filologi della mia gioventù
Quando Barthes finì sotto il furgoncino, nel febbraio 1980, Einaudi stava distribuendo l’incandescente Barthes di Roland Barthes ma non era ancora disponibile in italiano, per esempio, L’impero dei segni (Skira 1970), né la Leçon inaugurale al Collège de France (’77) né, ma questo era ovvio, La chambre claire, ultimo libro licenziato dall’autore poche settimane prima. La popolarità di Barthes da noi era lievitata negli ultimi mesi soprattutto per via dei Frammenti di un discorso amoroso, titolo invitante che portava la semiologia su un terreno in apparenza meno esclusivo, conquistando lettori anche al di fuori dei consueti confini della critica letteraria. Barthes faceva tendenza: libri, giornali, riviste. Gli si poteva attribuire una iconografia, com’era accaduto a Brecht, a Sartre, a Pasolini, tant’è vero che dopo la sua morte gli “Struzzi” Einaudi lo mettevano direttamente sulle copertine. Il professore con il pullover girocollo e la sigaretta accesa, circondato dai ragazzi capelloni, era diventato la raffigurazione stessa del seminario strutturalista: un laboratorio giovanile totalizzante, dotato di una propria “lingua speciale” da adepti, dove le analisi testuali a un certo punto lasciavano filtrare i tentativi di fornire, mediante la letteratura, ‘rappresentazioni del mondo’. Questo, più o meno, è stato Roland Barthes per chi abbia frequentato una facoltà umanistica tra il ’75 e l’85, ma, va da sé, altro è averlo ‘incontrato’ frequentando i corsi del Dams a Bologna dove furoreggiava l’amico Umberto Eco; altro studiando, per esempio, la filologia greca e latina in uno dei temibili istituti che pure il Sessantotto aveva da poco «liberalizzato» (un’ode di Pindaro o la metrica di Orazio non si potevano semplificare). È da questo secondo, e secondario, punto d’osservazione che proverò a rievocare quale ruolo abbia giocato Barthes nella “ratio studiorum” di quella generazione.
All’università lo strutturalismo, con il suo ventaglio di posizioni e proposte dalla linguistica alle fiabe, egemonizzava la ricerca, perciò Barthes, anche se molti docenti consideravano con sospetto la sua “semiologia”, in un modo o nell’altro entrava sempre nei discorsi. Se l’analisi strutturale si può applicare indifferentemente a una tragedia di Racine e a Robbe-Grillet, e persino a un fatto di cronaca, perché allora non anche a Ovidio e a Petronio? Basterebbe ricordare il sempre citato piacere del testo. Nessuno si sarebbe sognato di inscrivere un’istanza del genere, di matrice lacaniana, nel corredo critico di un lettore di letteratura antica, ma il fatto stesso che circolasse un libretto che portava quel titolo (e il quadrato rosso) finiva per riguardare anche i classicisti. Così, senza rientrare nel programma d’esame, Barthes lavorava ai fianchi, e faceva sistema con la bibliografia consigliata. Il suo metodo soggettivante – quasi agostiniano per gli effetti di interiorizzazione che suscitava – non si adattava facilmente alla filologia dei ‘nostri’ autori; tuttavia era una pistola carica puntata contro la resistenza storicista, nella disputa per la ridefinizione della letteratura come sistema regolato da leggi proprie e da una pratica ‘intertestuale’.
Occorre però spiegare meglio la particolare posizione di noi studenti ‘classicisti’ – per esempio rispetto ai colleghi delle facoltà moderne – in quanto discendenti da una scuola ermeneutica che si vantava di essere autosufficiente e di impiegare un metodo ‘scientifico’ teoricamente fondato. Per quanto ormai svuotata di ogni pretesa filosofica, questa solida tradizione ‘teneva’ ancora, arginando fra l’altro la deriva algebrica in cui finivano certi epigoni strutturalisti. Del resto la filologia classica, sin dai fasti alessandrini, ha avuto come sua missione l’esegesi, cioè la spiegazione e il commento dei testi: una bussola che segna sempre il Nord, anche quando si ritrova in territori critici inesplorati. E forse non tutti ricordano che Barthes si era laureato alla Sorbona proprio in Lettere classiche, si era specializzato in tragedia greca, e a partire dal ’39, prima di ricadere nella tubercolosi, aveva insegnato nei licei (ma questo allora non lo sapevamo).
Barthes critico ci appariva perciò anti-manualistico e a-sistematico (nonostante un celebre seminario sulla Moda nei giornali femminili); in lui il ‘ritorno del represso’ poteva allearsi, in sede d’analisi letteraria, con lo smascheramento delle ‘ideologie delle forme’: c’era qualcosa che suonasse di più straniante, per chi veniva addestrato – sia pure senza le esagerazioni dei maestri tedeschi – alla gloriosa Quellenforschung, la caccia alle fonti che infilzava confronti e “loci similes” negli apparati in corpo minore dei classici? Eppure questi metodi antagonisti attecchivano simultaneamente, su piani magari complementari. Quel che ci seduceva dei semiologi e degli strutturalisti, o quanto meno di quelli come Roland Barthes, era scoprire che non ci offrivano solo lucidi apriscatole (non sempre taglienti, per la verità), cioè strumenti e protocolli per studiare il funzionamento dei testi. La proposta era più ambiziosa e non si limitava alla teoria della letteratura, talvolta si poneva come Kulturkritik, come filosofia: dal testo poetico al mondo (pensando a Lotman).
Di quali ulteriori varchi, oltre alla critica formale/strutturalista e al marxismo – che da tempo aveva piantato le bandierine soprattutto negli studi a carattere storico-economico –, disponeva l’offensiva barthiana dentro le facoltà di Lettere antiche, o quanto meno nelle teste più aperte e più giovani? Anziché fornire attendibili ricostruzioni, mi limiterò ad accennare, holding back the years, a qualche scampolo di personal criticism: senza «riaprire i libri» cioè, e scartando i contributi più ovvi come il saggio su «Tacito e il barocco funereo» (che noi leggevamo quasi contemporaneamente all’Ammiano Marcellino di un Auerbach), o l’utilissimo libro-seminario sulla retorica antica, tradotto per tempo da Bompiani. Ricordo però i mugugni di alcuni amici, allievi del vecchio Cinzio Violante, quando li provocavo con «Il discorso della storia», dove Barthes smontava molte illusioni sulla ‘verità’ del mestiere di storico attraverso lo studio dell’enunciazione da Erodoto a Michelet, e utilizzando con successo il dispositivo jakobsoniano dello shifter (il “commutatore”). Ma il cavallo col quale alla fine Troia fu presa è stato, almeno per noi, la linguistica post-saussuriana, in quanto essa costituiva la principale armatura teorica sotto il cui riparo moderno apprendevamo e selezionavamo anche la lezione dei grandi filologi, Hjelmslev, Benveniste, la Scuola di Praga, Jakobson. Il primo probabilmente fu Émile Benveniste, la cui opera aveva agli occhi di Barthes un aspetto quasi «romanzesco», e uno stile «ardente e discreto», come disse in un’intervista. Einaudi aveva tradotto il Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, il che rendeva quel monumento un ‘portable Classic’ del quale disporre anche a casa propria (grazie al “conto rateale” dei genitori); nel Benveniste della Linguistica generale, invece, il giovane latinista poteva dare una sorprendente profondità culturale a tutto ciò che sino a quel momento si era presentato come grammatica arida, che occorreva sapere e basta: il “genitivo”, la “frase nominale”, la “diatesi media” nel sistema verbale greco e latino. Ma per alludere a uno dei titoli che preferisco, l’indiscutibile ruolo contundente di Barthes si manifestava soprattutto nel mettere alla prova – adottandolo – il suo stesso gergo critico, così formalistico e moderno, ‘industriale’: penso in particolare a etichette come “trasformazione stilistica”, “denotazione/connotazione”, “effetto di reale”, tutte felicemente adattabili al bagaglio tecnico di un classicista (purché poi alla fine si arrivasse al risultato). Quei dispositivi meta-letterari attingevano allo stesso serbatoio, allo stesso modello descrittivo dei linguisti, e così circolavano liberamente nelle nostre esercitazioni. Come disse una volta Eco, Barthes ci faceva credere di ‘ripetere’ Saussure e Hjelmslev, in realtà li ribaltava, li trasformava attraverso le sue sottili strategie di scrittura.
Prendiamo la “connotazione”, cioè il “senso secondo” di un testo o di una parola: nozione risalente al grande Louis Hjelmslev, che Barthes appunto potenziò moltissimo, applicandola per esempio nel decostruire l’ideologia dei “miti d’oggi”. Essa era entrata di diritto nel nostro abituale vocabolario critico, accanto a formule più tradizionali come “ekphrasis”, “indiretto libero”, “chiasmo”, “clausola” ecc. Poi però stava a noi distinguere, per esempio, la polisemia potenziale con cui egli leggeva Balzac (sminuzzandolo nelle famose «lessìe» seminariali che gli ricordavano il cielo ritagliato ad arbitrio dagli àuguri), dalla univocità canonica di un testo antico: sempre da ricondurre invece al sistema fortemente convenzionalizzato che, di fatto, lo metteva in condizione di interagire e di significare (come sapevano bene anche i lettori coevi). C’è, a questo proposito, un caso esegetico divertente, che per contrappasso potrebbe riassumere in modo esemplare tutta la pericolosa attrattiva con cui Barthes galvanizzava, e minacciava, i nostri vent’anni. Nel IV Libro dell’Eneide Didone insonne confessa alla sorella Anna di bruciare per Enea: «Che straordinario ospite m’è venuto in palazzo, che portamento, che forza in cuore e nell’armi!» («...quam forti pectore et armis», così traduceva la Calzecchi Onesti). Un vecchio filone della critica però, piuttosto duro a morire, intende armis come ablativo non di arma («le armi») ma di armi («le spalle»), il che dà tutto un altro tono e colore al ritratto amoroso dell’eroe troiano («quanto forte nel petto e negli omeri!» annotava La Penna). Chi propende per la prima lettura, invece, valorizza soprattutto il coraggio virile del guerriero che è scampato all’incendio di Troia, cogliendo una connotazione virgiliana tipica, quasi un contrassegno di genere: una marca lessicale-stilistica che all’orecchio esperto fa l’effetto di una formula omerica. Comunque la si pensi (a me riesce difficile credere che una regina parli come una Bond-girl), le regole di connotazione dell’epica classica non ammettono i «sensi plurimi» attivati dagli scrittori e dai poeti moderni, che Roland Barthes smascherava con foga elegante in S/Z.
Questo articolo è uscito originariamente in “Alias-domenica” su "il manifesto" dell’8 novembre 2015.