Il voto svuotato

29 Ottobre 2012

Il consiglio regionale della Lombardia va a casa. Formigoni e la sua giunta, travolti dagli scandali, devono rassegnarsi a scendere dai piani alti di Palazzo Lombardia. A premere il bottone dell’ascensore che li ha portati a terra è stato l’assessore Zambetti, arrestato dopo le inchieste della Direzione Antimafia. Zambetti è stato eletto con oltre 4.000 voti di preferenza raccolti – secondo l’accusa – attraverso i signori della ‘ndrangheta operanti nell’hinterland milanese.

Davanti a questo fatto gravissimo l’attenzione di tutti – delle forze politiche, dei media, dell’opinione pubblica – si indirizza ancora una volta su quello che uscirà dalle urne: i risultati raccolti dai partiti, gli eletti, le possibili future maggioranze.

 

Nessuna attenzione su quello che nelle urne ci entra: vale a dire l’uso che i cittadini fanno, nella realtà, non nei manuali di educazione civica, del diritto di voto loro assegnato dalla Costituzione. Quindi, nel contesto della Lombardia (ma solo qui?), il problema della grave ferita rappresentata dalla vendita del diritto elettorale da parte di una minoranza (quanto rilevante?) di cittadini.

C’è da allibire nel registrare come l’unica voce che ponga con forza la questione sullo stato di salute dei meccanismi fondamentali della democrazia nel nostro Paese sia quella del magistrato Ilda Boccassini, che ha chiesto l’arresto di Zambetti.

 

Il legame tra settori della politica e criminalità organizzata è un ingrediente allarmante, anche se non nuovo, dell’affresco italiano. Ma lo è tanto da non far scorgere quanto sia esplosiva la messa sul mercato, per poche decine di euro, del diritto di voto da parte di alcune migliaia di cittadini?

Qualcuno continua a preoccuparsi per lo stato di salute della democrazia italiana in seguito all’avvento del governo Monti che - pur formato fuori, abbastanza fuori, dal circoli interni ai partiti - ha comunque adempiuto a tutte le regole parlamentari e a tutte le liturgie costituzionali per la formazione dell’esecutivo.

Invece nessuno, a parte Ilda Boccassini, pare accorgersi dell’interrogativo fondamentale posto dalla vendita dei voti. Un interrogativo che investe un fattore fondamentale della democrazia: il diritto ad eleggere i propri rappresentanti. Diritto che, coi fatti accaduti, viene svuotato e annullato.

 

Chi - e come - curerà questa parte di cittadinanza così distante da ogni sensibilità democratica e da ogni cultura civica? Sono domande in attesa di risposta.

Rimandano a un interrogativo che ottantacinque anni fa poneva una figura limpidissima della cultura italiana, il torinese Edoardo Ruffini, nel suo libro Il principio maggioritario. L’incipit del libro suonava così: “La comunissima regola, per cui in una collettività debba prevalere quello che vogliono i più e non quello che vogliono i meno, racchiude uno dei più singolari problemi che abbiano affaticato la mente umana…L’applicazione del sistema maggioritario ha per presupposto uno dei principi più giusti ma meno naturali: quello che tutti gli uomini siano eguali fra loro. Se pure il sentimento dell’eguaglianza dei diritti è penetrato al fondo della nostra coscienza, chi potrebbe asserire altrettanto dell’eguaglianza delle capacità?”.

 

Interrogativi che di questi tempi costituiscono un tabù, ma che ora sono più che mai attuali. Ruffini non era né un reazionario né un conservatore. Quanto a libertà e democrazia, sapeva di cosa parlava. Fu uno dei pochi professori universitari che nel 1931, davanti all’imposizione del giuramento di fedeltà al regime fascista, seppero dire di no a Mussolini. Ne pagò il prezzo. Cacciato, a trentun anni, dall’insegnamento.

 

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