Le falene di Neanderthal

4 Ottobre 2014

Non tutte le farfalle sono bellezze colorate ed eleganti. Le oscure erebie, ad esempio, paiono uscite dall’antro di Erebos talmente scure, monotone e quasi insignificanti si presentano all’occhio inesperto. Alcune comuni falene, poi, sono sovente raccapriccianti con le loro tinte grigiastre e la pelosità fitta del voluminoso e vermiforme addome e delle lunghe e fragili zampe uncinate. Da bambini le falene non si consideravano granché, se non era per quelle bellissime arctie dai colori rossi e gialli sgargianti alle ali posteriori, e nere o brune con macchie e strie bianche a quelle anteriori.

 

Le quadripunctaria, ad esempio, si cercavano sulle infiorescenze rosate di Eupatorium della Rovella dove in certe annate erano presenti a decine: si scuotevano i grandi cespugli e quelle volavano all’impazzata e senza meta apparente, sventagliando le ali colorate tanto da sembrare piccole e festose scintille di luce psichedelica bianca e nera e gialla e rossa brillante. Quella era una falena che non sembrava tale e che non la cedeva in quanto a colori che a poche vanesse, e da bambini non si capiva esattamente perché i dotti non la classificassero tra le farfalle diurne, i ropaloceri. Ma c’erano ragioni precise anche per questo, come appresi più tardi cominciando ad avere un approccio più scientifico all’argomento, cosa che invece l’amico Piscopo, attirato principalmente dall’estetica dei colori e delle forme ripetute decine di volte nelle sue scatole di camicie attrezzate a teche entomologiche, avrebbe adottato molto più avanti negli anni.

 

Ma tant’è. Stavo dicendo che le falene sono spesso poco vistose e oscure, e paiono bestie poco evolute con quelle loro abitudini notturne di volteggiare intorno alle lampade senza ragione apparente e quei colori crepuscolari e deprimenti. Tuttavia, ad andare a studiare la cosa un po’ più scientificamente, ci si rende conto che si tratta invece di insetti a volte assai simili alle più colorate e belle vanesse e macaoni. Alcune di esse volano di giorno, come le quadripunctaria e molti geometridi. E non è affatto infrequente incontrare quelle dai colori sgargianti, che ingannano l’occhio inesperto con disegni e atteggiamenti tipici dei ropaloceri. Un giorno racconterò la storia del geometride Archiearis parthenias, una falena che sorprende per precocità, sfarfallando anche al freddo di febbraio e con la neve a terra, e per abitudini di volo davvero peculiari, oltre che per un aspetto simile a quello degli esperidi, una famiglia che sembra stare a cavallo tra ropaloceri e falene.

 

 

Le falene vengono classificate dai tassonomisti in numerosissime famiglie: almeno la metà sono chiamate microlepidotteri, ovvero farfalle notturne di piccolissime dimensioni, tanto da risultare, nel caso di qualche famiglia, quasi invisibili. Altre comprendono specie molto primitive e poco evolute, quali gli epialidi. Ed è degli epialidi che voglio narrare questa volta. Di questa famiglia non sapevamo praticamente nulla sino a quando, un giorno d’estate, un tale di Novara che amava cacciare dalle nostre parti ci incontrò su alla Marchetta dotati dei soliti retini e intenti a osservare i muri di una casetta coperti di falene e altri insetti notturni lì convenuti la notte precedente e ancora immobili in quella giornata nuvolosa e nebbiosa a queste altezze.

 

Come si costuma tra noi entomologi, ci guardammo dapprima con quella sottile diffidenza e timore che precedono un duello al fioretto vecchio-stile. Infatti, si teme da sempre in modo naturale la presenza di estranei ignoti nello stesso territorio di caccia, un po’ come avviene tra i grandi carnivori della savana in competizione per l’antilope. Il tale novarese, dopo qualche attimo, ci rivolse la parola per chiederci se eravamo saliti da quelle parti per le «strane falene a forma di sigaro». Non ne sapevamo nulla. Aggiunse che quassù, dopo le notti senza luna, molte falene si aggregano sui muretti e le pareti attratte dalla luce di due potenti fari che stanno accesi tutta la notte a sconvolgere la quiete degli insetti della Val Sessera più profonda e inalterata.

 

Tra queste falene, c’erano appunto questi strani sigari di colore bruno-grigio: roba rara, aggiunse, roba che si trova solo su questi monti. Non ne sapevamo davvero nulla. Data un’occhiata al muro con molte falene in siesta, scorgemmo presto le grandi sfingi del convolvolo grigiastre, il cui addome rosato e striato di nero e bianco è invisible quando stanno posate con le ali a tetto, una marea di altre piccole e medie falene per lo più brune ma anche color bianco, qualche piccola Eilema giallo-grigia, e, qua e là, una manciata di questi sigari dal colore bruno-grigio.

 

 

Erano queste le nostre falene primitive, gli epialidi, come suggerì prontamente il novarese. Ci avvicinammo per toccare un esemplare: quello cadde a terra girandosi su se stesso e fingendo di essere morto, una tattica studiata dagli insetti di questa famiglia per scoraggiare il nemico simulando la morte. Lo guardammo attentamente: aveva questa forma allungata inusuale che lo aveva fatto definire un «sigaro» dal novarese; le ali erano stranamente allungate; la tinta di fondo era marrone con numerose e irregolari chiazze biancastre circondate da sottili strie color senape; il torace e il capo coperti da fitta peluria come quella dei bisonti in inverno, ma di colore fulvo, che si prolungava anche sulle zampe. Il capo era quasi invisibile sotto a questo pelame, ma spuntavano due corte antenne filiformi marroni. Un insetto chiaramente primitivo, pensammo.

 

Dopo averlo stordito con etere per valutarlo più tranquillamente, notammo una netta separazione tra le ali anteriori e quelle posteriori tanto che parevano staccate come avviene presso altri insetti quali le libellule o i tricotteri. Se poi si vanno a studiare le venature delle ali, si nota che la disposizione non cambia tra quelle anteriori e quelle posteriori, una caratteristica che definisce queste falene primitive come «omoneuri», ovvero con l’identico reticolo di venature alle due ali, al contrario di ciò che avviene nella stragrande maggioranza dei lepidotteri, per questo definiti «eteroneuri». E che dire dell’apparato buccale? Questi poveretti non possiedono che un abbozzo di spirotromba per suggere e invece sono dotati di alcune primitive mandibole come quelle delle larve, che tuttavia da adulto non paiono funzionare per la masticazione: in pratica, sono condannati a non nutrirsi una volta usciti dall’involucro pupale, così devolvendo tutta l’energia accumulata quando, da larva, mangiavano radici nel terreno, alla funzione riproduttiva. Triste sorte.

 

Si è dibattuto a lungo tra gli entomologi sulla natura degli epialidi. Addirittura c’era chi, fino alla metà del secolo passato, li considerava quasi parte dei tricotteri, un altro ordine di insetti che ha una discreta somiglianza morfologica con i nostri sigari. I tricotteri sono ancora considerati, in una prospettiva filogenetica, come i più affini ai lepidotteri e, naturalmente, tra le falene vi sono famiglie primitive che vi si avvicinano: una di queste è quella degli epialidi. C’è chi ritiene che vi fosse un progenitore comune a questi due ordini poi differenziatisi nel corso dell’evoluzione delle specie con i tricotteri fossili che comparvero alcuni milioni di anni prima delle farfalle e delle falene. Gli epialidi dunque sono davvero delle «falene cavernicole» e probabilmente tra le prime ad essersi evolute dai propri progenitori pre-lepidotteri, forse 100 milioni di anni fa.

 

 

In quel giorno di scoperta degli epialidi, la curiosità si impadronì di noi. Tornati a casa in serata ci mettemmo a consultare un volumetto scritto da un esperto di questa famiglia primitiva. Apprendemmo le caratteristiche del tutto uniche di queste falene neanderthaliane, pelose, dal volo irregolare e veloce. Riuscimmo a identificare la specie a forma di sigaro e fummo colti da viva emozione: infatti si trattava di Pharmacis claudiae, scoperta solo nel 1994 da tre entomologi tedeschi che bazzicavano per la Valtournenche, cosa sorprendente se si considera che è una specie di dimensioni medio-grandi e che gli entomologi visitano queste zone alpine da almeno un secolo e mezzo.

 

La storia della loro scoperta si tinge di giallo, come ho inteso da un entomologo milanese che mi raccontò la vicenda. Egli aveva organizzato queste ricerche in alto, sopra a Torgnon, insieme ad un collega tedesco con cui stava lavorando sul censimento delle farfalle e falene della Valle d’Aosta. Il collega di Germania arriva in loco con un paio di amici e le mogli. Salgono a caccia sulle alte radure e trovano decine di queste falene a prima vista ritenute appartenenti ad un’altra specie simile e già nota. Tuttavia, gli amici tedeschi hanno dei dubbi e, tornati in Germania, analizzano in laboratorio gli esemplari e scoprono che si tratta di una nuova specie. All’insaputa dell’entomologo milanese che li aveva guidati alla ricerca e aveva con loro catturato la nuova specie, pubblicano la scoperta su una rivista entomologica dandole il nome della moglie di uno di loro, Claudia.

 

Naturalmente, l’esperto milanese ci rimane malissimo, ma non riesce neppure a inoltrare le proprie lamentele poiché nel frattempo viene informato della scomparsa del primo responsabile della pubblicazione. Insomma, un storia poco felice e che purtroppo è già successa molte volte in campo entomologico e non: gli accademici amano pubblicare e ricevere la stima del mondo e lo fanno spesso senza troppa esitazione né considerazione per chi ha contribuito alla scoperta. Il caso che conosco meglio è quello della scoperta nel 1943 della streptomicina – l’antibiotico che permise l’inizio dell’era moderna nel trattamento efficace della tisi – attribuita, con tanto di Premio Nobel, a Selman Waksman.

 

In realtà, Waksman era il direttore dell’istituto di ricerca dove lavorava Albert Schatz, lo studente che scoprì l’antibiotico con i suoi esperimenti e che Waksman, stando alla storia ben documentata di recente, pensò bene di marginalizzare prendendosi tutti i meriti di un esperimento eseguito dal giovane collega. Si narra anche che Waksman fosse così impaurito dal lavoro di Schatz sul bacillo tubercolare da evitare in tutti i modi di visitare il suo laboratorietto e interessarsi ai suoi esperimenti. Ma così va la storia del mondo.

 

Tornando alla nostra falena primitiva, leggemmo poi che la Pharmacis di Claudia era stata reperita da altri anche nella vicina valle di Gressoney, e in quelle di Macugnaga e di Alagna, sempre in alto, intorno a 2000 metri di altitudine. Insomma, era presente in tutte le vallate che si dipartono dal grande massiccio montuoso del Rosa. Sorprese che a Macugnaga, apparentemente, se ne fosse segnalata la presenza già a fine anni ’80. Così scrissi all’autore della segnalazione chiedendo come mai non la battezzò lui stesso e si dovette attendere l’arrivo di tre tedeschi (e un milanese!) qualche anno dopo per riconoscere la nuova specie. Mi rispose molto semplicemente che si era sbagliato a identificarla come una specie simile già nota, una cugina alpina, anziché intuire di trovarsi di fronte alla scoperta di una nuova Pharmacis. Così non ebbe l’onore di battezzarla e segnalarla alla scienza. Pensammo, Piscopo ed io, che anche noi avremmo potuto scoprirla per primi se solo ci fossimo dedicati alla ricerca delle falene da queste parti, vicino a casa nostra, trent’anni fa ai tempi in cui cercavamo giorno e notte il raro carabo di Olimpia. L’avremmo probabilmente dedicata alle nostre ragazze così come fecero i tre tedeschi chiamandola «Claudia».

 

 

Un’altra cugina stretta, un epialide più piccolo e scuro, vive invece solo in alta quota sopra ad Aosta, oltre Pila. Invaghitici di questi esseri delle caverne, e presi dalla febbre di cercare la cugina della nostra Claudia, si salì con Piscopo, in una splendida giornata di luglio verso Pila. Da qui, grazie ad una veloce seggiovia che sale tra belle foreste di verdissime conifere, si raggiunse la conca alpina del lago Chamolet a 2300 metri circondato da belle radure e pietraie di alta quota che scendono verso le sponde del piccolo specchio d’acqua azzurro cielo. Intorno fioriscono nigritelle dal profumo di cioccolato, genziane e violette alpine: un paradiso per il botanico e l’entomologo amanti delle specie di quota. Della Pharmacis anselminae sapevamo solo che vola di giorno, rasoterra, ed è scarsamente visibile a causa del colore oscuro e del volo velocissimo.

 

Cercammo a lungo: volavano le belle bolorie arancio vivo, alcune mellicte color camoscio e le Colias phicomone verdastre di alta quota. C’erano le zigene esuli rosso-blu, ma la Anselmina non pareva essere presente sinché ad un certo punto la intuimmo più che vederla: qualcosa che pareva quasi una grande mosca sfrecciò a 10 centimetri d’altezza ai nostri piedi diretta dal sentiero in cui eravamo verso la scarpata in basso. Un colpo di retino ed era nostra. La guardammo con l’ammirazione dovuta alla specie rara ed endemica, malgrado la sua evidente bruttezza: color marrone quasi nero con alcune irregolari chiazze grigio scuro, pelosa al torace e con due antennine di pochi millimetri, grande poco più di un moscone. Eppure ha un notevole fascino, la rara Anselmina, scoperta a sua volta solo qualche anno prima della cugina Claudia e tuttora nota solo di questi luoghi sopra a Pila.

 

Con Piscopo ci lasciammo andare alla fantasia chiedendoci quanti di questi esseri primitivi e spesso poco visibili popolano le nostre vallate alpine non essendo ancora noti alla scienza. E fantasticammo per ore ammirando la cima aguzza del Cervino che spuntava da una cresta montuosa di fronte a noi, oltre la valle della Dora, mentre più a ovest si stagliava il profilo del Grand Combin e, a est, il massiccio candido del Monte Rosa da cui si dipartono le vallate popolate sin da lontanissime ere geologiche dalla neanderthaliana e misteriosa Claudia.

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