Con la coda dell’occhio / Marina Ballo Charmet, o della Defotografia

12 Novembre 2019

Fino al 20 dicembre è aperta allIstituto italiano di cultura di Madrid la mostra di Marina Ballo Charmet Fuori campo, a cura di Stefano Chiodi. Pubblichiamo qui il saggio di Andrea Cortellessa in catalogo. 

 

Vista della mostra all'Istituto italiano di cultura, Madrid


La fotografia potrebbe essere dunque definita l’espressione del desiderio di contenere e conservare una traccia dell’esperienza e costituirebbe dunque una protesi tecnologica dell’apparato psichico.

Marina Ballo Charmet

 

Si crede ancora oggi che l’occhio umano veda tutte le cose nitidamente su una grande estensione: questo è falso: in realtà l’occhio non vede nitidamente che una piccola parte del campo visivo, tutto intorno resta sfuocato […] l’occhio fissa solamente gli oggetti in casi molto rari, in generale si muove dentro un campo visivo largo circa 200 gradi, mentre l’ottica fotografica normale non comprende che un settore molto più ristretto di 45 gradi. Anche se l’occhio fissa un oggetto, è capace grazie al suo ampio campo visivo di registrare anche fenomeni ottici che avvengono o si trovano ai bordi del suo campo visivo. 

 

Queste parole di Raoul Hausmann, grande pioniere dell’avanguardia dada e surrealista anni Trenta-Quaranta, citate da Marina Ballo Charmet in uno degli scritti raccolti nel suo libro Con la coda dell’occhio (a cura di Stefano Chiodi, Quodlibet 2017, p. 50), si possono accostare al passo in assoluto più celebre della teoria e della storia della fotografia, quello di Walter Benjamin nella Piccola storia della fotografia del 1931 (in Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Einaudi 2012, p. 230):

 

la natura che parla alla macchina fotografica è […] una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente […]. La fotografia […] rivela questo inconscio ottico, così come la psicoanalisi fa con l’inconscio pulsionale. 

 

I due partono da presupposti inversi: Hausmann sostiene che l’occhio – la nostra percezione ottica naturale – vede più della macchina fotografica, almeno dell’ottica fotografica normale; mentre per Benjamin è vero il contrario: la macchina è in grado di scoprire una porzione di spazio che la nostra attenzione, di norma, non mette a fuoco. Colpisce però come tutti e due ci richiamino a un’attenzione – dello sguardo umano o di quello della macchina – che dal centro del campo si sposta ai suoi margini. 

È in quest’ottica, è il caso di dire, che va ricostruito il meccanismo del pensiero di Marina Ballo Charmet: che fin dal principio del suo percorso – dalla fine dagli anni Ottanta, cioè – si è posta in controtendenza rispetto ai suoi maestri: i quali si erano assunti il partito preso etico e politico, prima che la missione estetica, di mettere sempre a fuoco il centro dell’immagine impiegando addirittura (come spiega Stefano Chiodi nella postfazione a Con la coda dell’occhio, p. 165), nel caso specifico di Gabriele Basilico per esempio, l’artificio del «tutto a fuoco»: l’immagine è perfettamente razionale, completamente percepibile, e mostra il proprio oggetto per intero. 

 

Il presupposto di Marina Ballo Charmet è simmetricamente opposto: a interessarle è proprio il margine di una percezione che, nel lessico dei suoi altri maestri – psicoanalisti come Salomon Resnik e Anton Ehrenzweig –, viene definita «visione periferica»: quella che ci fa percepire la presenza di un oggetto senza che in realtà ce ne accorgiamo. Il nostro occhio, o forse piuttosto la nostra psiche, si comporta come l’obiettivo fotografico di Benjamin: vede più di quanto, cognitivamente e razionalmente, pensi di farlo.  Se però dalla generazione dei padri risaliamo a quella dei “nonni”, un air de famille si avverte inequivocabile.

 

Le ore blu. Giudecca, ore 20:38, 2017

 

Dobbiamo pensare al tempo di personaggi come John Cage o Ornette Coleman, fine anni Cinquanta-inizio Sessanta. Ricorda questa couche d’infanzia e adolescenza attorno a suo padre Guido critico d’arte e poeta, Marina Ballo Charmet, nell’Introduzione al suo Con la coda dell’occhio. È la temperie che trova la sua sintesi perfetta, nel 1966, nel Blow-Up di Michelangelo Antonioni: celebre apologo sulla fotografia in cui pare circolare il concetto di inconscio ottico (anche se è difficile che Antonioni potesse conoscere, allora, il saggio di Benjamin; la sua traduzione esce da Einaudi, nell’antologia L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, lo stesso anno del film; sono, in ogni caso, pensieri tipici di quel tempo). Questa avventura di un fotografo – come di lì a poco, alla maniera appunto di Antonioni, intitolerà Italo Calvino uno dei suoi Amori difficili – è quella di Thomas, fashion photographer che per caso riprende delle immagini in uno spazio aperto, in un parco alla periferia di Londra – “set” che somiglia da vicino, peraltro, a certi luoghi d’affezione di Ballo Charmet – e poi, sviluppando e ingrandendo quelle fotografie, si convince che quel luogo anonimo, senza senso e “senza qualità”, sia stato in effetti la scena di un delitto. Qualcosa che invece ha molto senso, dunque: e quel senso bisogna a tutti i costi cercare di comprendere. Ma l’ingrandimento ossessivo dell’immagine ha un esito opposto a quello perseguito dal fotografo: la prova del delitto che crede di aver intravisto e di cui cerca le “prove” nell’immagine fotografica gli sfugge, in quanto l’ingrandimento della fotografia finisce per deformare l’immagine, riconducendola alla sua grana materica e astratta.

 

Mentre probabilmente sta già pensando al suo film sulla fotografia, nel ’64, Antonioni scrive una frase-manifesto: «sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. Il cinema astratto avrebbe dunque la sua ragion di essere» (Fare un film è per me vivere, a cura di Carlo di Carlo e Giorgio Tinazzi, Marsilio 1994, pp. 61-2). Un’espressione come cinema astratto è in effetti un ossimoro perché il cinema – come spiegava fra gli altri Pier Paolo Pasolini, nei testi di quegli anni raccolti in Empirismo eretico – ha come sua vocazione, o forse maledizione, quella di avere sempre di fronte una realtà materiale (il famigerato «profilmico») che, in un modo o nell’altro, necessariamente condiziona l’immagine che le si riferisce. Il che non toglie che Antonioni sia l’autore che più ha spinto la sua ricerca in quella direzione; il suo cinema astratto non giunge mai a essere davvero tale, semmai è meta-astratto: come in Blow-Up, mette in scena il processo col quale all’astrazione si giunge (o, piuttosto, vi si precipita). 

 

Il momento decisivo, in questa storia, si colloca nel 1962, negli ultimi cinque minuti e mezzo di quello che forse è il più bel finale della storia del cinema italiano, quello dell’Eclisse: quando la storia, non so se chiamarla d’amore, fra Monica Vitti e Alain Delon, si perde – proprio come si perderà la soluzione del “giallo” inseguito da David Hemmings nel film di quattro anni dopo. Le immagini che mostrano il quartiere romano dell’EUR dove si danno l’ultimo appuntamento i due protagonisti, un appuntamento al quale nessuno dei due si presenta, non è appunto “astratta” ma si svincola definitivamente dalla successione logica della narrazione, si affranca dal suo dover-essere narrativo. Sono Antonioni e – con stile diversissimo dal suo – Federico Fellini a introdurre nel cinema quella che negli stessi anni veniva definita «denarrazione». Come spesso nella storia dell’arte, questa espressione venne usata originariamente in negativo; fu la scrittrice (nonché critica cinematografica) Anna Banti, consorte di Roberto Longhi, a impiegarla nel ’67 sulla rivista «Paragone» per stroncare i tentativi narrativi degli scrittori della Neoavanguardia di quegli anni: «denarratori» perché, appunto svincolando la successione delle “scene” da ogni possibile filo logico-temporale, de-costruivano in primo luogo i presupposti logici causa-effetto sui quali, più o meno consapevolmente, si fonda ogni pratica narrativa. (Con scarto a sua volta tipico, quella taccia ominosa verrà assunta in positivo quando l’anno dopo Vanni Scheiwiller lancerà una collana editoriale intitolata proprio «Denarratori», inaugurata – nonché conclusa… – da due opere in effetti estremistiche come Obsoleto di Vincenzo Agnetti e L’equivalente di Corrado Costa; negli anni Settanta, verosimilmente all’oscuro di questo precedente, s’intitolerà The Untelling – da Damiano Abeni reso appunto come La denarrazione – il più ampio tentativo di narrazione in versi del grande poeta americano di origine canadese Mark Strand: ora in Tutte le poesie, Mondadori 2019, pp. 222-39). 

 

Con la coda dell'occhio, #41, 1993-94

 

Per un esempio eloquente, di quella che si potrebbe definire una “funzione Blow-Up”, si pensi all’oltranza antiromanzesca di un testo di Nanni Balestrini dal titolo Tristano, uscito lo stesso anno del film di Antonioni (nel controverso convegno del Gruppo 63 sul Romanzo sperimentale, tenutosi a Palermo l’anno prima, Balestrini aveva dichiarato sprezzante: «i fili spezzati con la realtà non si riannodano più e basta, non ce n’è più bisogno» – a p. 133 nell’edizione a mia cura pubblicata da L’orma nel 2013 – e qui non importa il fatto che la sua opera letteraria a venire smentirà, persino clamorosamente, un simile assunto). Tornando alle narrazioni o de-narrazioni per immagini (non è un caso, però, che mostri un impianto spiccatamente visivo pure il Tristano di Balestrini…), si pensi ai capolavori di un altro grande autore di quella generazione, Alain Resnais: il quale, con un filo d’ironia forse, una volta ha spiegato le infrazioni al codice narrativo, da lui allora spregiudicatamente operate, ricordando come, subito prima e all’inizio della Seconda guerra mondiale, da adolescente fosse abbonato a riviste di fumetti americane che, per arrivare in Francia, dovevano attraversare l’oceano: un percorso talmente lungo che spesso le spedizioni si accavallavano le une alle altre, e poteva capitare che gli arrivassero in lettura prima le puntate successive e poi le precedenti. 

 

Mi sono ricordato di questo aneddoto quando ho visto la mostra di Marina Ballo Charmet, Sguardo terrestre, curata da Stefano Chiodi al MACRO nel 2013. Nella sala conclusiva e apicale dell’esposizione, infatti, era esposto un trittico (spesso le immagini di Ballo Charmet sono composte in successione orizzontale, mimando un “effetto panoramica”) tratto dalla serie Il Parco del 2006: immagini riprese in un parco parigino e intitolate appunto Paris, Les Buttes Chaumont. Ora, proprio in virtù di quello che potremmo definire il nostro inconscio cinematografico, quando vediamo una successione orizzontale di immagini siamo portati a ricondurla a una sequenza lineare, cioè a un ordine temporale – per noi che leggiamo da sinistra a destra – uniforme: a sinistra il “prima”, a destra il “dopo”.

 

Ma Marina Ballo Charmet disattende alla radice il presupposto di tale linearità («la sequenza, la ripetizione di fotografie di uno stesso soggetto, non ha per me un valore cinetico, né suggerisce una lettura da sinistra a destra, ma ha invece a che fare con una sorta di interruzione della narrazione»: Con la coda dell’occhio, p. 28). Le tre immagini – che riprendono persone sdraiate nell’erba a prendere il sole o a leggere il giornale, più lontano dei bambini che giocano coi loro genitori – hanno in comune gli stilemi cui il linguaggio dell’autrice ci ha abituato: il piano della composizione è s-centrato dall’abbassamento della prospettiva (sicché al centro dell’immagine non si trova il suo presunto “soggetto”, quello che ho appena descritto, bensì l’erba che si frappone fra esso e l’occhio della macchina) e la sua superficie è “macchiata” dal fuoco ondivago, che restituisce con precisione determinate parti del piano “allontanandone” altre in tratti più confusi.

 

 

Con la coda dell'occhio, #23, 1993-94


Ma a rendere totalmente s-paesante l’opera è soprattutto qualcosa che in prima battuta percepiamo, invece, solo per via subliminale. La successione delle tre immagini infatti sembra, ma a ben vedere non è, quella logico-spaziale che risponde alla nostra ipotetica percezione “reale”. Dalla collocazione delle persone nelle tre fotografie, quella che si trova a sinistra (i bambini che giocano) in teoria dovrebbe invece – per riprodurre la “panoramica” del nostro sguardo – stare a destra. 

 

Viene così messa in discussione l’implicita credenza “narrativa” che, volenti o nolenti, attribuiamo alla fotografia nei confronti della realtà. Marina Ballo Charmet ha realizzato anche dei video, e parlando con Chiodi delle proprie immagini metropolitane ha definito, i suoi, «fermo-immagine del nostro vivere e camminare nella città»: come se ogni immagine servisse a “fermare”, e così appunto de-costruire, l’immaginario, interminabile film della nostra esistenza (la «lingua scritta della realtà», come il Pasolini anni Sessanta definiva appunto il cinema). La disposizione in serie (come, in questo caso, in trittico) delle immagini fisse, in una sorta di “effetto Kuleshov” della nostra attenzione, ci induce ogni volta a metonimicamente narrativizzarle, come appunto quando seguiamo un film. Così che l’infrazione di Ballo Charmet – nei confronti di questa sintassi, incongrua e implicita quanto, per lo più, strettamente vigente – ci turba in profondità. L’illusione di coerenza lineare, decostruita al proprio interno, fa vacillare il nostro senso del tempo, la nostra collocazione nello spazio e dunque, in generale, il nostro rapporto con la realtà.

 

Primo campo, #6, 2001

 

Commentando i primi lavori della serie che dà il titolo al suo libro, Con la coda dell’occhio, Chiodi ha definito la fotografia di Ballo Charmet «una fabbrica di nulla» (nella postfazione citata, a p. 162). È un’espressione che mi ha colpito molto perché, proprio come non è astratto il cinema di Antonioni (i cui paesaggi metropolitani, come quelli del finale dell’Eclisse, ricordano inequivocabilmente quelli di Ballo Charmet), non si può definire astratta neppure questa fotografia: la quale, se mette a repentaglio il nostro ordine di lettura del mondo sino a “fabbricare il nulla”, è appunto in virtù dell’infrazione continua che perpetra nei confronti dell’ordine compositivo: come detto, tanto internamente alla singola immagine che nella relazione fra un’immagine e l’altra. 

 

Negli anni Sessanta sopra evocati si parlava molto, in letteratura, di «lettura subliminale» – chiamata in causa, in particolare, a proposito dell’opera di due narratrici donne, Ivy Compton-Burnett e Nathalie Sarraute –: la scrittura intendeva mostrare al lettore oggetti ed eventi che, di norma, sono collocati sotto la soglia della nostra attenzione (l’ottica fotografica normale di cui parlava Haussmann) e che dunque sta a noi ricostruire a posteriori (con la stessa attitudine analitica del Thomas di Blow-Up...). Questo sguardo, questa particolare impaginazione cognitiva dell’immagine da parte di Marina Ballo Charmet è una visione da lei esplicitamente definita «anti-antropocentrica» (Con la coda dell’occhio, p. 34; non a caso Jean-François Chevrier ha parlato, per certe sue fotografie, di «sguardo del cane»): nella misura in cui, s’intende, consideriamo propriamente anthropos solo l’essere umano adulto – coi sensi e il pensiero ormai codificati e, in qualche misura, standardizzati. 

 

 

Si recupera così una lunga tradizione, ben precedente a quella anni Sessanta che sinora ho richiamato ma che, a ben vedere, ne è la matrice diretta. Nei suoi scritti Marina Ballo Charmet si rifà infatti a precedenti illustri, “bisnonni” come Paul Klee o Matisse: il quale sosteneva che bisogna «guardare tutta la vita con gli occhi dei bambini» (citato in Con la coda dell’occhio, p. 20). Più alla radice, e in senso più tradizionalmente anti-antropocentrico, viene da pensare a uno scrittore leopardiano come Italo Calvino, che nei suoi ultimi testi vagheggia di uscire dalla percezione cognitiva del soggetto per conseguirne una non astratta, ripeto, ma certo estranea alla coscienza individuale, aliena all’identità soggettiva («magari fosse possibile», scriveva nei primi anni Ottanta nell’ultima pagina compiuta delle testamentarie Lezioni americane, «un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…»: Molteplicità, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori 1995, p. 733). Anche Gilles Deleuze cercava una «scrittura» che «ha fondamentalmente a che fare con la vita», ma non nel senso volgarmente voyeuristico dello show-biz, del biografismo individuale; viceversa «portando la vita allo stato di una potenza non personale» (dalle Conversazioni ’77 con Claire Parnet: ombre corte 1998, p. 55): non la vita del singolo, dunque, ma qualcosa che appartiene alla specie – o al general intellect, parafraserebbe qualcuno – e che è dato ritrovare, prima dello sviluppo e appunto dell’individuazione, molto meglio nel bambino che nell’individuo adulto. 

 

Il che ci introduce alla ricerca di Ballo Charmet che in assoluto trovo più affascinante, quella della serie intitolata Primo campo: in cui si riproduce quello che si immagina il primo sguardo da noi portato all’esterno del nostro corpo, e che per oggetto ha il collo della persona – padre o madre che sia – che ci tiene in braccio appena nati. Si tratta naturalmente di un’astrazione, una ricostruzione virtuale; eppure almeno una volta – in un seminario per l’infanzia condotto con Elio Grazioli e Lorena Peccolo – Ballo Charmet ha effettivamente messo una macchina fotografica in mano a dei bambini (ancorché certo non neonati!), avendo così modo di riscontrare come le immagini da loro prodotte – prima appunto dell’uniformazione cognitiva, razionale, di uno sguardo a misura di uomo adulto – ricordino in certa misura, soprattutto per l’ottica iper-ravvicinata, quelle della serie Primo campo (Con la coda dell’occhio, pp. 126 sgg.). 

 

Primo campo, 2005


Non può che venire in mente Donald Winnicott: secondo il quale il volto della madre, e più in generale dell’essere adulto che accudisce l’infante, per quest’ultimo equivale in effetti a uno specchio. Nel saggio La funzione di specchio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile (che è del ’67: in italiano è raccolto nell’antologia Gioco e realtà, Armando 2006, pp. 175 sgg.) lo psicoanalista britannico prende le mosse dal celebre testo di Lacan sullo «stadio dello specchio», ma se ne discosta decisamente per la direzione relazionale che prende (che varrebbe la pena commentare col pensiero radicalmente intersoggettivo di Emmanuel Lévinas sul volto e lo sguardo). Questa idea straordinaria mi ricorda quella di un altro grande scrittore, Carlo Emilio Gadda, che in un frammento gravitante nell’orbita del suo grande romanzo autobiografico, scritto fra anni Trenta e Quaranta ma pubblicato in forma incompiuta solo nel 1963, La cognizione del dolore (si legge alle pp. 527-35 dell’edizione critica a cura di Emilio Manzotti, Einaudi 1987), descrive il rapporto fra il bambino e la madre (cioè quello tra lui e sua madre) come appunto un rispecchiamento mancato. L’odio fra madre e figlio – dal quale provengono le fantasie di matricidio che avvelenano il romanzo – si produce nel momento in cui il bambino non riconosce se stesso nello sguardo della madre: l’uomo adulto ricollegherà il «male invisibile», che è all’origine della propria personalità, precisamente a questo errore di coincidenza. Tale rispecchiamento mancato è definito per contrasto, da Gadda, con un verso della IV Ecloga di Virgilio, «incipe, parve puer, risu cognoscere matrem».

 

Un verso di straordinaria ambivalenza: perché il risus può essere attribuito, anfibologicamente, tanto al bambino che alla madre (nel primo caso è l’espressione che accompagna, nel bambino, il momento in cui riconosce il volto della madre; nel secondo, il segno affettivo dal quale il bambino effettivamente la riconosce); ma l’ambiguità del v. 60 si scioglie, appunto per contrasto (e tormentosa resa filologica del testo virgiliano a parte), ricorrendo ai successivi vv. 62-3 – «Incipe, parve puer; cui non risere parentes / nec deus hunc mensa, dea nec dignata cubili est» –: colui al quale i genitori non hanno sorriso ne avrà la vita devastata, tanto sul piano sociale che su quello specificamente amoroso. (Diagnosi in qualche modo confermata dalle più recenti ricerche di psicologia infantile – quelle delle università di Oslo e di Uppsala pubblicate nel 2015 sul «Journal of vision» e riportate in un articolo di Elena Dusi uscito su «la Repubblica» il 2 luglio di quell’anno, col titolo Il mondo visto dagli occhi dei bimbi. «Così a cinque mesi decifrano un sorriso»: «i bambini hanno una vista molto ridotta e non percepiscono i colori», spiega lo psicologo Svein Magnussen, e «l’espressione più facile da identificare per i neonati è il sorriso».) 

 

Il frammento dal laboratorio della Cognizione del dolore s’intitola proprio Cui non risere parentes, ed è interessante che ogni volta che evoca questi versi-feticcio di Virgilio Gadda pensi pure alla figura proiettiva di Leopardi e alla sua aneddotica famigliare (ci si metteva pure l’onomastica, a fargli proiettare la figura della propria madre anaffettiva, Adele Lehr, su quella per antonomasia anaffettiva – Gadda la chiama «a-genetica» e «castrante» – del canone letterario italiano, Adelaide Antici). Troppo capzioso, forse, sarebbe ricollegare l’anti-antropocentrismo di Leopardi – dalle Operette morali alla Ginestra – a questo mancato rispecchiamento materno, che su di lui proietta Gadda (eppure com’è noto definisce «matrigna», Leopardi, quella «natura» che nega all’essere umano l’abitarla in armonia).

 

Il parco, Madrid, Casa de campo, 2008

 

Ma colpisce ritrovare nel lavoro di Ballo Charmet questa medesima, duplice e in apparenza divergente, linea di ricerca: lo sguardo de-narrativo, s-centrato e anti-antropocentrico dei suoi paesaggi metropolitani, e quello invece iper-centrato dell’infantile Primo campo (ancorché, con s-centramento “iper-realistico” in effetti questo “manchi” ogni volta il volto, il risus, per concentrarsi sulla regione, del corpo parentale, che immediatamente vi sottostà; in un suo scritto, infatti, Ballo Charmet corregge appunto Winnicott con Resnik: Con la coda dell’occhio, p. 72).

 

In entrambi i casi, comunque, siamo di fronte a uno sguardo inquieto. Le due classi di immagini non hanno nulla di astratto, s’è detto, e neppure alcunché di doloroso (a differenza che in Leopardi o in Gadda); eppure ci inquietano profondamente entrambe. Se lo fanno è perché ci costringono in tutti e due i casi a fare nostro, a riscoprire nella nostra stessa memoria di osservatori, uno sguardo che rifiuta di assoggettarsi alla nostra tradizione percettiva. Quello di Marina Ballo Charmet è uno sguardo radicalmente insubordinato: ci mette di fronte a un’esigenza di liberazione, una liberazione che molti di noi – io per primo – troviamo inquietante, forse persino angosciosa, ma che in sé non ha nulla di distruttivo. Semplicemente ci trascina in luoghi distanti da quelli cui siamo abituati. 

 

In un suo scritto affascinante, intitolato Il documento di esperienza, Marina riflette su due suoi video, Agente apri e Frammenti di una notte, accomunati dal «mostrare le soglie, il margine fra il sonno e veglia, fra controllo razionale e abbandono» (Con la coda dell’occhio, p. 110) e ambientati rispettivamente in carcere e in ospedale. Quest’ultimo in una sezione problematica come quella dei cosiddetti «post-acuti» dove, per le condizioni molto gravi dei pazienti, i parenti sono ammessi a restare anche di notte a vegliarli: proprio come fanno i figli delle donne carcerate che in Agente apri (video realizzato in collaborazione con Walter Niedermayr), sino all’età di tre anni, possono soggiornare nel «carcere dei bambini», un’area riservata del penitenziario nella quale possono restare a contatto colle madri. «Agente apri» è l’espressione che il bambino rivolge alla guardia carceraria, alla fine del lungo travelling che lo segue mentre accompagna la madre verso il cancello di uscita. Lui potrà varcarlo, lei no. E qui davvero accediamo a un luogo paradossale, dove la liberazione coincide con l’accostarsi il più possibile alla condizione carceraria: un regime radicalmente diverso da quello che ci è abituale.

 

Il parco. Palermo, La Favorita, 2008


Non è un caso che nei suoi scritti Marina Ballo Charmet riprenda il concetto foucaultiano di «eterotopia» (Con la coda dell’occhio, pp. 117 sgg.). Luoghi come appunto l’ospedale (La nascita della clinica) o la prigione (Sorvegliare e punire), che Michel Foucault studierà analiticamente negli anni Settanta, sono accomunati – nella sua fondamentale conferenza del 1967, Altri luoghi – dal discostarsi dalle nostre abitudini, dalle sedi che ci sono consuete, dai luoghi in cui ci sentiamo a casa: sono luoghi che ci costringono a ridefinire la nostra identità cognitiva ed esistenziale, cioè appunto il nostro punto di vista. E, se è vero che questo linguaggio fotografico ci interroga così in profondo, non penso sia un caso che la sua matrice concettuale, la sua humus primordiale e diciamo il suo primo campo, sia riconducibile a quel momento della nostra storia e della nostra cultura, fra gli anni Sessanta e i Settanta, che oggi dai più viene stramaledetto: proprio perché ci costringeva a essere liberi. È il medesimo paradosso cui oggi ci mette di fronte il linguaggio di Marina Ballo Charmet. 

 

Era un tempo, quello, in cui l’arte che si vedeva, la musica che si ascoltava, le letture che si facevano inducevano le persone a prendere il mare aperto – un’apertura sconosciuta alle generazioni precedenti. Marina usa spesso un’espressione di Salomon Resnik, «l’errare delle immagini». L’errare è strettamente collegato all’errore: e in fondo tanto i suoi paesaggi che i suoi primi campi, secondo la tecnica classica della fotografia, andrebbero appunto rubricati quali “errori”. Anche il fotografo Thomas di Blow-Up commette un errore fatale: cercando di trarre una storia sensata dalle immagini, deve prendere atto che quel senso irrimediabilmente gli sfugge. Ma il suo è un errore vitale: il segno di una libertà e di un’insubordinazione, la presa in carico di una missione di libertà che il nostro tempo pare aver dimenticato.

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