Metamorfosi di un mito / Supereroi, antieroi, eroi dark
L’inflazione dei supereroi sta segnando il cinema degli ultimi decenni, con la produzione continua di enormi blockbuster. Ma anche con la conquista di spazi sempre più rilevanti dell’universo seriale: non si contano gli show a tema supereroico, con infinite varianti di genere.
Ed è proprio grazie alla complex tv del nostro tempo che assistiamo a una progressiva “maturazione” di universi narrativi frequentemente e anche giustamente criticati come infantili (e infantilizzanti).
Il supereroe classico, così, si ammanta dei tratti dell’antieroe; e a volte persino di quelli del villain, il cattivo. Pensiamo a show complessi e fascinosi come Watchmen, Legion, The Boys, The Umbrella Academy, Jupiter’s Legacy, e ai recenti casi del 2021: WandaVision e Loki, serie prodotte con grande successo da Marvel espressamente per il piccolo schermo.
La domanda che pongo è quindi questa: si sta affermando un nuovo tipo di supereroe, un supereroe realmente dark? Qualcosa di diverso dalle cupezze un po’ sofisticate del Cavaliere Oscuro: un supereroe se non cattivo almeno patologico – e in più sdoganato popolarmente dalla tv.
L’ultimo ventennio è stato letteralmente dominato dalla riscoperta e dal rilancio dei supereroi. In tutte le salse. In tutti i media. E attraverso tutti i generi e i sottogeneri: d’azione, fantastico, fantascientifico, spionistico, drammatico, di western moderno, psicologico, comico, satirico…
I film di supereroi hanno conquistato le prime posizioni al box office ogni anno. Spesso con più titoli a piazzarsi tra le pellicole più viste. E, in particolare evidenza, l’incredibile successo del MCU. Il Marvel Cinematic Universe, l’Universo Cinematografico Marvel, un franchise creato dai Marvel Studios e voluto in particolare da Kevin Feige. Un progetto oggettivamente ambiziosissimo: creare un universo narrativo coerente e transmediale, in cui ogni film (e, ora, ogni serie tv) diventano un tassello di una narrazione più vasta.
Tra il 2008 (Iron Man) e oggi (Shang-Chi and the Legend of the Ten Rings) si contano 25 film Marvel. Per quello che è diventato il franchise mediatico di maggior successo della storia, con oltre 23 miliardi di dollari ricavati solo dai titoli cinematografici. Non basta? In questo momento, c’è almeno una dozzina di titoli dell’Universo Marvel in varie fasi produttive. Ovviamente, c’è stato quest'anno il debutto dei primi progetti seriali prodotti direttamente dai Marvel Studios: i già citati WandaVision, The Falcon and the Winter Soldier, Loki. Prodotti tutt’altro che privi di importanza. Anzi.
Facciamo chiarezza. Gli eroi ci sono sempre stati, da che mondo e mondo e dalle prime forme di racconto mitico. Ma anche i supereroi: cioè, per tenere una definizione di minima, eroi con tratti sovrumani, che accettano missioni impossibili per il bene dell’umanità o comunque degli altri.
Pensiamo, nel mondo greco da cui discendiamo direttamente, a Ercole con le sue dodici fatiche, perfetto esempio di supereroismo sovrannaturale; o ad Achille con il racconto della sua vita sovrumana, sospesa tra status mortale e divino, e della sua morte avvolta nelle nebbie del mito; o a Odisseo polymetis, cioè l’uomo dal molteplice ingegno, l’uomo forse più intelligente del suo tempo mitico, autore di un viaggio pieno di avventure durato dieci anni.
O, per andare ancora più indietro nel tempo e a mondi più lontani dal nostro, cioè nel Medio Oriente di oggi o la Mesopotamia di ieri, pensiamo a Gilgamesh. La sua è una storia che oggi, da un punto di vista popolare, non molti conoscono. Eppure, è la più antica storia che ci sia stata tramandata. Non solo: sembra una storia di supereroi, ma di oltre 4000 anni fa. Con combattimenti che scuotono la terra e distruggono città, mostri semidivini che gli eroi devono abbattere, l’impossibile ricerca dell’immortalità. Raccontata su tavolette, un po’ come un fumetto di oggi.
Il mito, ovviamente, ha sempre sublimato la complessità della realtà e la difficoltà di interpretarla in una dimensione narrativa tranquillamente metafisica, dove i confini tra umano e divino, tra mondo fisico e mondo soprannaturale, tra vero e falso si mescolano costantemente. Però l’inflazione attuale si accompagna a una radicalizzazione di questa “semplificazione”: fino ad arrivare all’infantilizzazione.
La profondità rivelatrice del mito cede il passo a una ricerca dell’intrattenimento più semplice e fracassona possibile. Quasi a pensare che il pubblico sia in grado di apprezzare solo questo modo di codificare la realtà e le sue problematiche morali.
Attenzione: non stiamo dicendo che i supereroi di oggi siano peggio di quelli di ottanta o sessanta o quarant’anni fa. Anzi. I supereroi di ieri vivevano una dimensione particolarmente risibile, almeno dal punto di vista estetico, che però ne rivelava con una onestà forse non del tutto involontaria un aspetto importante: nascevano per i bambini. La semplicità, la puerilità appunto dei tratti, dei costumi, dell’estetica, dell’azione riflettevano per l’appunto questo.
Ha fatto molto parlare di sé, e discutere, l’uscita fatta un paio d’anni fa da Martin Scorsese quando disse che i film della Marvel non erano cinema, e certamente non una forma d’arte, e che assomigliavano più ai parchi divertimento. In un editoriale per il New York Times di fine 2019, lo stesso Scorsese ha spiegato meglio cosa intendeva:
“Per me, per i registi che ho imparato ad amare e rispettare, il cinema riguardava la rivelazione: rivelazione estetica, emotiva e spirituale. Riguardava i personaggi: la complessità delle persone e la loro natura contraddittoria. Si trattava di affrontare l'imprevisto sullo schermo e nella vita (…) Per noi, quella era una forma d'arte.
(...) Negli ultimi vent’anni il mondo del cinema è cambiato su tutti i fronti. Ma il cambiamento più inquietante è la costante eliminazione del rischio. Molti film oggi sono prodotti perfetti fabbricati per il consumo immediato, ben realizzati da squadre di talento. Tuttavia, manca loro qualcosa di essenziale per il cinema: la visione unificante di un singolo artista. Perché, naturalmente, il singolo artista è il fattore più rischioso di tutti.”
La critica di Scorsese è sembrata ad alcuni violenta. Ma impallidisce di fronte a quella di Alan Moore. Alan Moore è l’autore, oltre che di romanzi e di musica, di autentici capisaldi dell’universo fumettistico: Watchmen, V for Vendetta, From Hell, La Lega degli straordinari Gentlemen. Per cui certe sue dichiarazioni degli ultimi anni sull’inflazione dei supereroi impressionano ancora di più (anche se ovviamente non stupiscono chi conosce la sua opera).
"Penso che i supereroi abbiano rovinato il cinema e degradato la cultura. Anni fa dissi che vedevo come un segnale preoccupante le file di centinaia di migliaia di adulti per vedere personaggi creati cinquant'anni prima per intrattenere dei dodicenni. Mi sembra che questo nasconda il desiderio di scappare dalla complessità del mondo moderno, rifugiandosi nella nostalgia e nei ricordi d'infanzia”.
“L’enorme popolarità dei supereroi e l’infantilizzazione della società sono sintomi dello stesso male: il rifiuto della realtà e il desiderio di soluzioni semplicistiche e sensazionalistiche. I supereroi furono inventati nei tardi anni '30 per i bambini: ma se provi ad adattarli al mondo degli adulti diventano grotteschi".
“I film di supereroi per il mercato di massa sembrano rivolti ad un pubblico che non desidera rinunciare alla propria infanzia o al XX secolo, entrambi relativamente rassicuranti. La continua popolarità di questi film, per me, suggerisce una sorta di arresto emotivo deliberato e autoimposto, che vediamo nell’intero spettro culturale contemporaneo”.
Moore ha ragione anche in termini storici, oltre che di giudizio. I supereroi moderni nascono a ridosso della Seconda Guerra Mondiale (il primo albo con Superman è del giugno 1938). E proprio l’apocalisse bellica ne alimenta la popolarità: il pubblico cerca, comprensibilmente, racconti semplici di vittorie del bene sul male che possano consolare o far parzialmente dimenticare gli orrori del momento. Gli autori creano supereroi che combattono le forze dell'Asse, e ne introducono alcuni ispirati ai temi patriottici, tra i quali il Capitan America della Marvel: che in più di un'occasione non a caso salva il mondo dalla minaccia nazista. Le osservazioni critiche di Alan Moore sembrano avere senso: i supereroi nascono per semplificare la complessità della realtà, in un altro tempo, in un altro mondo che conosce una profonda crisi valoriale e identitaria.
Non ci sorprende allora notare che dopo la Seconda guerra mondiale i supereroi perdono popolarità. I supereroi per una quindicina d’anni finiscono un po’ nel dimenticatoio. Sembra che non abbiano più molto da dire.
Ma tornano all’inizio degli effervescenti e problematici anni ‘60, quando Stan Lee, Jack Kirby e Steve Ditko lanciano con il nome Marvel Comics, iniziando con i Fantastici Quattro nel 1961, una nuova linea: fumetti di supereroi che sottolineano i conflitti personali e dedicano molto spazio allo sviluppo del personaggio, alla sua evoluzione, alla sua psicologia, alla sua storia. Un’innovazione ovviamente molto molto importante, e che ha fatto non a caso di Stan Lee l’autore di fumetti mainstream più influente. La Cosa (membro dei Fantastici Quattro), Spiderman, Hulk, gli X-Men hanno questo in comune: sono supereroi tormentati, che lottano per l’accettazione o il controllo dei propri poteri.
Moore è particolarmente rilevante anche nella "decostruzione" postmoderna del supereroe degli anni Ottanta, che ne mina il concetto base. Gli accenti si fanno profondamente dark, le atmosfere gotiche, gli eroi sono chiamati a confrontarsi apertamente con le proprie ombre. Un movimento convergente tra fumetti, romanzi, elaborazioni filmiche che culminerà, in termini popolari, nel Batman di Tim Burton del 1989.
In quegli anni anche la Marvel Comics introduce alcuni popolari antieroi tra cui il Punitore, un ex-soldato (reduce del Vietnam) la cui famiglia venne spietatamente uccisa dalla mafia; Wolverine, un nuovo, violento e cinico mutante; e la versione crepuscolare di Devil realizzata da Frank Miller, che aveva già rivitalizzato il mito di Batman. Questi personaggi erano fortemente tormentati, anzi ossessionati: la strage alla base della follia di Frank Castle (The Punisher), la lotta contro i propri istinti animali per Wolverine, una difficile infanzia per Devil.
Ma è Alan Moore, prima con la serie Miracleman e poi con la maxiserie Watchmen (1986), a inventare un nuovo supereroe, demolendo l'idea che da grandi poteri derivino grandi responsabilità. I supereroi di Watchmen sono emozionalmente insoddisfatti, psicologicamente introversi, spesso sociopatici. Affrontano, per la prima volta in maniera diretta, le conseguenze catastrofiche che la propria esistenza porta sulla gente comune. Watchmen diventerà un bel film di Zack Snyder nel 2009, e poi nel 2019 la straordinaria omonima miniserie che in realtà rappresenta un originale seguito del fumetto. Un senso di oppressione anima il fumetto e poi il film: la speranza è bandita, il sogno americano si è realizzato a rovescio, come una parodia feroce, i supereroi sono vigilanti spettrali o veri psicopatici.
Accanto a Watchmen l'altra opera che contribuì alla reinterpretazione in chiave più realistica, complessa e dark del supereroe fu Il ritorno del Cavaliere Oscuro (1985-1986), cioè Batman: The Dark Knight, scritta e illustrata da Frank Miller. Una delle ispirazioni del Dark Knight del trionfo critico e di pubblico firmato da Christopher Nolan alcuni decenni dopo al cinema. Miller reinventa un Bruce Wayne invecchiato e deluso, un alienato che si lascia dominare dalla sua rabbia interiore, ossessionato dall'assassino dei suoi genitori.
Tendenze, quelle di Moore e Miller, che aprono agli sviluppi registrati nel nuovo millennio: quello di supereroi che sempre più spesso attingono alla dimensione dell’antieroe, o che addirittura sfiorano (o abbracciano) quella del villain, l’antagonista, il cattivo.
Una distinzione che è importante fare è quella tra antieroi e antagonisti. Per strane ragioni i due termini sono oggi spesso usati in modo intercambiabile. O, anche, “antieroe” viene usato per designare l’avversario.
Quando invece la definizione di antieroe, in letteratura, è quella di un personaggio protagonista cui mancano alcune delle tradizionali qualità dell'eroe: altruismo, idealismo, coraggio, nobiltà e forza d'animo, bontà. Oppure, un personaggio che dimostra addirittura tratti opposti a questi. Ma non è l’antagonista, e non dovrebbe mai essere confuso con il villain, il nemico, il malvagio.
Ed è una figura sempre più importante e popolare. Anche perché nella nostra epoca culturalmente post-moderna è sempre più difficile partorire personaggi eroici in senso pieno e tradizionale, che non siano appunto quelli ammantati di poteri sovrumani: i super-eroi.
In questa situazione di carenza, quindi, sempre più spesso gli antieroi diventano protagonisti pieni, e assolutamente amati, di opere celebri, largamente popolari e influenti.
Basta a confermarlo una rapida carrellata di personaggi altamente iconici degli ultimi 30 anni di televisione che possiamo perfettamente inquadrare come antieroi. Popolari e amati, e ovviamente non super-eroici: Homer Simpson, Tony Soprano, i protagonisti di serie come The Shield, Dexter, Mad Men, Breaking Bad, True Detective, Ozark...
Fino ad arrivare al cartone occidentale più importante e interessante del nostro tempo, Rick and Morty. Il cui protagonista rappresenta quasi un passaggio perfetto verso il mondo dei supereroi, perché di fatto Rick Sanchez – l’uomo più intelligente dell’universo, un inventore geniale e pazzo che stravolge l’adolescenza del nipote con le sue allucinanti avventure nello spazio e nel multiverso – è qualcosa più di un antieroe: è un supereroe di carattere non sovrannaturale, un po’ come Batman. Ma, come vedremo tra un attimo, un supereroe decisamente assai più dark del pur cupo uomo pipistrello.
La nuova appropriazione televisiva dell’universo supereroico sta quindi cambiando le cose? Forse sì. Forse sta aiutando a rendere più complessa, matura, adulta una materia fin qui gestita dal cinema, nei termini di Moore, in modo prevalentemente infantile.
Lo avevamo visto con Legion, bella e non fortunatissima serie di qualche anno fa, che al centro aveva un supereroe schizofrenico. E, in maniera diversa, con serie antieroiche come le solo parzialmente interessanti Jessica Jones o The Punisher.
Pensiamo ancora al supereroismo antieroico di certe varianti teen o young adult come I’m not okay with this, o prima ancora Misfits (o in Italia quest’anno l'abominevole Zero, buona idea mandata catastroficamente in vacca). O a quello di The Umbrella Academy e di Jupiter’s Legacy, prodotti di diversa fortuna e diversamente riusciti, accomunati dall’inclusione del nuovo topos della narrativa moderna: la famiglia disfunzionale. A proposito, esiste ancora in tv e al cinema una famiglia che non sia più o meno disfunzionale?
Ma pensiamo ancora di più a Watchmen, la strepitosa miniserie di Lindelof del 2019.
Non un reboot o un remake ma addirittura il seguito dei fumetti e del film di Snyder. Una miniserie che innova profondamente il genere facendogli affrontare di petto uno dei temi più intricati del mondo americano: quello del razzismo, presente e storico. La serie si apre rievocando il “Massacro di Tulsa”, l’atroce vicenda reale di una fiorente e industriosa comunità nera che venne massacrata e distrutta dalla “punizione” dei bianchi: una storia che era stata anche popolarmente dimenticata fino a questa serie, che la colloca a fatto fondativo del suo racconto di un’America profonda e contorta e terribilmente malata. E scossa dalla violenza terroristica dei suprematisti bianchi. Sviluppando una narrazione pazzescamente complessa, dal punto di vista dell'intreccio dei piani temporali e delle idee. E una serie davvero bella.
Pensiamo poi a The Boys, di cui abbiamo già visto due stagioni. Il racconto di un mondo in cui i supereroi sono un brand globale, governato da una multinazionale con logiche di marketing e comunicazione. Idolatrati dalle folle, i supereroi sono quasi tutti malvagi e corrotti, ubriachi di potere, totalmente disumani: sono la minaccia da cui i Boys del titolo, i protagonisti, un gruppo di ribelli in parte ammanicati con la CIA, cercano di difendere il mondo, dovendo combattere in clandestinità e ricorrere a tattiche terroristiche.
Pensiamo ovviamente a WandaVision. Con il suo racconto oltraggiosamente e magnificamente complesso. Che inizia con Wanda Maximoff e Vision, supereroi del MCU, che si trovano dopo i fatti di Endgame misteriosamente catapultati in una realtà in bianco e nero, che sembra funzionare come una sitcom del passato. E che diventa poi il racconto di una psiche intrappolata da se stessa, in un mondo che è stato plasmato seguendo i cliché di alcuni decenni di televisione e di show a tema familiare, in una geniale e struggente parodia della dimensione domestica che all'eroe è dolorosamente preclusa.
Da ultimo, guardiamo Loki, grandissimo successo appena consumatosi. Pensiamo, al di là delle sue implicazioni e della sua rilevanza narrativa per il MCU, a come abbraccia il surrealismo, il bizzarro, il nonsense persino – in questo avvicinandosi a Rick and Morty. Non casualmente, visto che il creatore di Loki è appunto uno degli autori di Rick and Morty. Basta una scena su tutte a rappresentare l’atipicità di questa serie rispetto al suo universo canonico di riferimento: quella in cui il dio dell’inganno si trova a doversi confrontare con una nutrita schiera di sue varianti, tra cui un Loki vecchio, un Loki bambino, e quello che è diventato il beniamino del pubblico, un Loki coccodrillo.
WandaVision e Loki segnalano un nuovo interesse del MCU ad aprirsi verso elementi anomali per il franchise, di complessità persino metanarrativa, nonché – finalmente – di complessificazione morale dei personaggi.
Wanda e Loki sono figure complesse in termini morali perché, se da un lato ci piacciono e ci sono sempre piaciuti, e hanno già avuto modo di redimersi in altre precedenti occasioni per i peccati e i crimini che avevano commesso, dall’altro sembrano ineludibilmente incapaci di tenere a freno la propria natura manipolatrice. Una natura che li porta a vivere i propri poteri come strumento per sottrarsi al vaglio degli altri, o per riparare le ingiustizie vissute disinteressandosi delle conseguenze sul resto del mondo. Una cosa particolarmente vera per Wanda e per la prigione mentale che ha costruito nella cittadina in cui si è rinchiusa.
È, il nostro, il tempo della tv complessa. Ed è il tempo di una nuova forma di supereroe: il supereroe dark. Un supereroe che ha vissuto l’influenza della cultura postmoderna e del suo relativismo morale, della difficoltà o impossibilità di definire bene e male. Figlio della crescente popolarità dell’antieroe, e quindi in dialogo con la propria ombra. Capace addirittura di sconfinare tranquillamente dalle parti del villain, abbattendo così l’ultima barriera tra buoni e cattivi.
Tre serie in questo senso toccano vertici di bellezza e complessità, facendoci familiarizzare con il volto di supereroi che hanno compiutamente abbracciato la propria ombra. Non come uno strumento per farsi più forti e spaventare i nemici, come è anche nella tradizione dei vari Batman. Ma perché l’eccesso del proprio potere li ha portati a non poter più tornare a una dimensione normale. Sono tre storie assai diverse, ma accomunate dalla scoperta, da parte dei supereroi, del costo di un potere troppo grande. E di come quel potere abbia finito per condannarli a una solitudine straziante. È un’idea struggente: quando il supereroe diventa la propria ombra, quel potere – un tempo strumento per fare il bene del mondo – diventa una condanna esiziale. La condanna a una prigione di incomunicabilità, all’impossibilità di qualsiasi condivisione, all’uscita dalla comunità.
È Wanda Maximoff che in WandaVision ha costruito una realtà chiusa, di cui può essere demiurga e regina, ma al prezzo di escludere fisicamente tutti gli altri, tranne coloro che diventano ombre del suo spettacolo. È Ozymandias, l’uomo più intelligente del mondo di Watchmen, la serie, che vive in esilio nel micromondo che ha trasformato nel proprio teatro, nel proprio regno, nel proprio supplizio permanente fatto delle stesse storie messe in scena infinite volte, in una ripetizione che non ha mai fine. È Rick Sanchez in Rick and Morty, l’uomo più intelligente dell’universo, l’inventore pazzo e alcolizzato, il supereroe che cerca l’oblio, fino a provare in una puntata - in una vetta di disperazione del tutto anomala per il genere e il medium - ad uccidersi con un raggio disintegratore nel proprio laboratorio-garage. Scampando alla propria autodistruzione solo perché, ubriaco come al solito, collassa all’ultimo momento evitando il raggio mortale.
Perché - questa è la lezione - il proprio dono è anche la propria croce. Ed essere l’uomo più intelligente del mondo vuol dire anche, forse, essere il più infelice.