Ursula Le Guin e la rivolta ambientale
Tecnicamente, questo titolo è sbagliato. Quando Le Guin scrive Il mondo della foresta (Mondadori, 2024), nel 1972, lo fa sulla base di una sensibilità artistica orientata in via primaria dalla volontà di mettere in rilievo il guaio – ancora attuale – di una società, quella americana, basata sulla militarizzazione e sull’approccio imperialista a ogni genere di straniero, da quello banalmente terrestre a quello che abita altri pianeti. La riflessione ambientale è inevitabile ma, per quanto ne so, non primaria nello smilzo ma fondamentale volumetto che per molti versi riprende alcuni ragionamenti centrali in La mano sinistra del buio (1969). Il titolo originario – e sappiamo quanto Le Guin tenga ai suoi titoli – è tradotto in italiano quasi alla lettera. Quasi: perché la traduzione letterale sarebbe “la parola per mondo è foresta”. Stabilendo una sovrapposizione semantica tra “mondo” e “foresta”, Le Guin designa anche una dimensione non antropocentrica e non zoocentrica, rovesciando una tendenza che Marco Malvestio ben identifica nel suo Raccontare la fine del mondo (2021). Nello specifico, in un capitolo intitolato “L’era delle piante”, l’autore propone una ricognizione ampia sui vari modi in cui la fantascienza ha riflettuto su quanto poco sappiamo del mondo vegetale, e il nostro non sapere si è fin qui tradotto in una presunzione di superiorità del mondo animale e umano rispetto alle piante. La cosy catastrophe, come la definisce Aldiss in Billion Year Spree: History of Science Fiction (1973), descritta per esempio in Il giorno dei trifidi (1951) finisce per confermare il (presunto) buonsenso comune: se vi sono piante pensanti, esse sono creature aliene e non vegetali terrestri.
La posizione di Le Guin è differente. The Little Green Men – un titolo poi sostituito per insistenza dell’editor Harlan Ellison – riferisce la storia della colonizzazione umana di Athshe, un ecosistema perfetto abitato da umanoidi pacifici, in simbiosi con la foresta che ricopre il pianeta. Le forze americane vi arrivano percorrendo i 27 anni luce che separano questo luogo dalla terra e mettono in atto il consueto modello imperialista. L’occupazione militare del pianeta ne inaugura il disboscamento selvaggio (per procurare legno alla terra e trarne un vantaggio economico) e la schiavizzazione degli “ometti verdi” che abitano le foreste. Donaldson, il prototipo del militare di carriera per il quale l’impresa spaziale ha senso solo se si traduce nella possibilità di menar le mani, è intimamente convinto che si tratti di operazioni legittime. Sa con certezza, per esempio che non è il caso di preoccuparsi troppo quando i suoi boscaioli uccidono per diletto esemplari di specie protette. La cosa non è affatto un problema se la si guarda dal punto più alto nel processo evolutivo, e “Il punto più alto, fin qui, sono gli umani”. Quando un suo subalterno esprime dubbi sul trattamento riservato agli athshiani, poiché esso evoca lo schiavismo e dunque sarebbe una pratica vietata, Donaldson risponde “Giusto, ma qui non si tratta di schiavismo. Ok ragazzo mio. Gli schiavi sono umani. Quando allevi mucche, lo chiami schiavismo? No. E il sistema funziona”. Storicamente collaudato, esso è il “sistema imperialista”, appunto, e prevede i consueti passi canonici, compresa la consuetudine di rinominare il luogo colonizzato – non Athshe ma New Tahiti – e chi lo abita – non gli athshiani, ma i creechie.
E tutto questo lo abbiamo già visto succedere. Soprattutto lo hanno visto succedere gli americani, in tempi del tutto recenti rispetto alla pubblicazione del romanzo. Lo nota Le Guin stesso quando nella sua introduzione ricorda di aver partecipato alle mobilitazioni pacifiche degli anni ’60. Ora che “il coinvolgimento americano in Vietnam è concluso”, le pressioni vanno in altre direzioni, scrive Le Guin. E tuttavia c’è qualcosa di storicamente familiare nella spocchia boriosa di questi coloni americani come pure nel loro spaesamento di fronte alle armi utilizzate dagli athshiani quando decidono di reagire. Il canto finalizzato al controllo dell’aggressività e il sogno volontario come ingrediente fondamentale del vivere sono abilità dimenticate o mai avute, senza le quali Selver, il protagonista athshiano del romanzo, non capisce come si possa stare decentemente nel mondo. È interessante come il medesimo tema torni in un romanzo poco conosciuto ma interessantissimo di Métis Cherie Dimaline. Scrittrice e attivista della Metis Nation of Ontario, Dimaline è autrice di The Marrow Thieves (2017), una storia distopica per adolescenti ambientato in un futuro in cui gli uomini hanno perso la capacità di sognare. Anche qui, il nodo concettuale primario è di natura antropologica ed è finalizzato al rilievo di una discrepanza tra quello che noi occidentali siamo abituati a considerare come un processo di civilizzazione e la condizione di deprivazione e impoverimento, simbolico e fattuale, in cui questo processo risulta.
In modo del tutto differente e pescando da Le Guin solo gli aspetti più “marketizzabili” (senza peraltro dichiarare il romanzo tra i crediti), James Cameron riprende l’idea del pianeta coperto di boschi e abitata da simbionti del mondo vegetale in Avatar (2009). La parabola naturista, se così si può definirla, è declinata con abbondanti effetti speciali e si incornicia nella battaglia, questa sì pregevolissima, del regista contro il disboscamento della foresta amazzonica. Il film segue percorsi consueti, proponendo al centro della storia il solito americano buono (e ancora più buono perché disabile), che si ravvede rispetto alla sua carriera di militare doc e in conseguenza al ravvedimento guadagna la possibilità di incarnarsi in un corpo sano e trovare persino l’amore. Lo schema strutturale della storia è così consueto da risultare irritante: l’eroe vince e la donna – pure se è aliena – è il suo premio.
Rovesciando lo schema e con voce tagliente e poetica al tempo stesso, Tlotlo Tsamaase – autrice mostwana con due romanzi all’attivo – racconta una parabola di degrado ambientale e oppressione imperialista in cui non vince nessuno. O meglio, vince l’idea che chi è schiavo possa solo morire per recuperare la libertà. The Silence of the Wilting Skin (In silenzio sfiorisce la pelle, 2020), racconta di una città divisa in due dal treno che ci passa in mezzo e che trasporta i morti. Gli schiavi abitano la parte “dove sorge e tramonta il sole”, in cui non c’è scampo alla siccità come non ce n’è al controllo. La vita è fatta di regole, e ogni trasgressione implica una perdita di identità: la pelle sbianca, la vista si annebbia, la parola si aggroviglia. E un sole accecante incombe su ogni cosa, rendendo difficile anche la semplice sopravvivenza. La naijamerican Nnedi Okorafor, invece, immagina una invasione aliena a Lagos, la città laguna, che invece di portare distruzione e schiavitù, serve a restaurare un ambiente devastato da colonialismo e neocolonialismo. Lagoon (Laguna, 2014; trad. it Zona 42), come il romanzo di Tsamaase, realizza un’operazione interessante e molto frequente nelle narrazioni africane di oggi: il romanzo coniuga la riflessione storico sociale sulle conseguenze del colonialismo occidentale con la rivolta ambientale, ipotizzando una pacificazione che ha come snodo centrale il rispetto per le forme di vita non umane. La traccia di Le Guin è molto chiara, ma vi è una consapevolezza ambientale e storica in più: quella della sistematica distruzione del delta del Niger per fini strettamente economici.
In generale, c’è un portato storico nelle numerose voci di donna che impugnano sempre più spesso questi temi. Come aveva fatto Octavia Butler nel suo Wild Seed (Seme selvaggio, 1980), molte scritture descrivono e affrontano il trauma del Middle Passage, ragionando anche su quanto fosse peggiore la sorte delle donne rapite rispetto a quella degli uomini. Un romanzo in particolare sembra ricapitolare la mitologia fiorita intorno a questa sorte tragica. Insolita novelette intesa come un’opera collettiva e uno spinoff dell’album Journey of the Deep Sea Dweller (Drexcyia, 1972), The Deep (2024) racconta la storia di Yatu, creatura anfibia appartenente alla stirpe generata dalle donne schiave gettate in mare quando in procinto di partorire. Secondo la mitologia creata dai Drexcyia e poi raccolta da Rivers Solomon (e dal gruppo musicale hip hop clipping.), i bambini sarebbero sopravvissuti per abitare pacificamente l’oceano e allontanarsi progressivamente dalla cultura perversa degli umani. Yatu è una Storica: spetta a lei ricostruire e conservare la memoria del Middle Passage e dei mille corpi sacrificati come oggetti perché – come gli omini verdi di Le Guin – non sono umani. In una certa misura, e in positivo, l’affermazione è indiscutibile: le creature leguiniane non seguono i modelli di pensiero cui siamo abituati come umani. Non lo fanno quelle di Rivers Solomon – lei stessa autodefinita «half woman, half boy, part beast, and a refugee of the Trans Atlantic slave trade». E infine non lo fa neanche la protagonista ecologista e mutaforma di Nnedi Okorafor in Lagoon tanto quanto la Anyanwu di Octavia Butler, in Wild Seed: impavida, scavalca di sua volontà la murata della nave negriera per nuotare con i delfini.
In un suo testo recente sul rapporto dell’occidente con la tragedia della migrazione, Paul Gilroy scrive che per capire quello che ci sta accadendo intorno – e implicitamente include anche i cambiamenti climatici e i disastri naturali – dobbiamo imparare a “pensare al livello del mare” (“thinking at sea level”). Destinata a dar forma alla necessità di rimodellare le nostre modalità di approccio a quello che intendiamo come il mondo reale, la metafora contiene un riferimento ambientale che non può essere privo di senso. Mentre Los Angeles brucia riproducendo in una terrificante realtà quello che James Ballard già aveva raccontato nel 1961 (Vento dal nulla), la questione di come relazionarsi con l’ambiente che ci ospita diventa di importanza centrale nelle narrazioni, senza che però ci si decida, nella vita reale, a individuare correttivi al nostro sistema di vita.
Contro questo orizzonte, è lecito chiedersi che cosa ci sia di nuovo nelle narrazioni ambientali contemporanee e soprattutto in quelle delle donne. Anche qui, Le Guin è, rispetto al suo tempo, una battitrice libera. Quello che le conferisce rilevanza, oltre alla qualità della scrittura, è la capacità di muoversi con estrema disinvoltura in un territorio infestato da stereotipi maschili. Nella prima monografia italiana dedicata a Le Guin, Ursula K. Le Guin e le sovversioni del genere (2024), Giuliana Misserville mette molto bene a fuoco un aspetto fondamentale: occorre ricollocare un certo tipo di fantascienza delle donne in una contemporaneità complessa, nella quale la “danza oltre l’orlo del mondo” di cui dice Misserville è un’operazione al tempo stesso gioiosa e pericolosa. Subiamo il fascino delle creature selvagge di cui scrive Halberstam, ed è bene che questo accada. Ursula K. Le Guin e le sovversioni del genere è un volume esemplare per il discorso che mi concerne soprattutto perché ha un andamento leguiniano, nel senso che è fatto di prospettive e aperture, di germinazioni simboliche e ripiglini harawayani.
Per quanto sia senza dubbio meno articolato e soprattutto meno noto di La mano sinistra del buio e I reietti dell’altro pianeta, Il mondo della foresta ha questo stesso pregio significativo. Non parla di ambiente a prescindere di chi lo abita e delle dinamiche che si intessono nella relazione. Al contrario fa a partire il discorso da lì: da quell’intreccio imprevedibile, a tratti malsano, a tratti esilarante, che contraddistingue la relazione tra specie senzienti. Quella umana è solo una di esse.
In tempi di grande fioritura di ecocritica, ecolinguistica, climate fiction e solarpunk, tutti vogliono essere parte della grande danza ambientale, ma il rischio è che essa diventi, appunto, solo un’occasione sociale e non politica: giardinaggio e non impegno. Giova ricordare anche che, se è vero che riferimenti all’ambiente compaiono in letterature anche molto remote, forse quel che consente di dirne con cognizione di causa è la consapevolezza di ciò di cui si sta parlando. Si possono trovare riferimenti ambientali dappertutto, da Dante a Shakespeare, e dentro Calvino e molti altri. Ma il punto è: quando questa preoccupazione ambientale si fa consapevole? E che ne facciamo di questa consapevolezza? Le Guin propone un ragionamento preciso e un atteggiamento combattivo, poiché, come ricorda Misserville nell’epigrafe leguiniana al suo volumetto, la resistenza e il cambiamento cominciano spesso con l’arte, e ancora più spesso con la nostra arte: l’arte delle parole.
In quanti stiamo utilizzando questo potere?
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