Quotidianità luminose. Alice Munro e noi

22 Maggio 2024

Cerco di figurarmela, sebbene io non l’abbia mai conosciuta. 

È nel Munro’s Book Store, a Victoria, sulla Vancouver Island, dove la famiglia si è trasferita nel 1963. La libreria è ancora piccola, e si trova in Yates Street; nel ‘79 si sposterà in Fort Street e successivamente, nel 1984, nello straordinario edificio neoclassico che occupa ancora. 

Ma tutto questo avverrà anni dopo. 

Ora siamo nei primi anni ’60. Alice Ann Munro, poco più che trentenne, è una sagoma sottile, in piedi nella libreria aperta dal marito James Munro. Lo ha sposato che era appena ventenne: nei villaggi sperduti dell’Ontario, dirà poi scrittrice in alcune interviste, se a 25 anni sei una donna e non hai ancora preso marito, significa che sei un fallimento totale. Con parole diverse, è questo il senso della decisione di Rose in “La mendicante” (in Chi ti credi di essere [1978] 2012), quando accetta di sposare Patrick, sciocco ma benestante, perché probabilmente un’occasione del genere non le capiterà più. Il matrimonio, all’epoca, è una sorte necessaria per una donna, il prezzo dell’integrazione in un contesto di stereotipi rassicuranti. 

Comunque, Jim Munro è una brava a persona, e ha aperto una libreria, che gli sopravvivrà e che nel 2014, pronto ad andarsene in pensione, lascerà a quattro impiegati di vecchissima data perché essa continui a prosperare. Ma oggi siamo ancora in Yates Street, e in quella libreria Jim ha mandato Alice – casalinga di serie B per sua stessa definizione – perché lui non sta bene. Lì, in penombra, in piedi tra i libri che vorrebbe scrivere, Alice Munro non mi appare affatto timida e ritrosa, come qualcuno ha voluto vederla. Per me, che non l’ho mai incontrata se non nelle sue storie (ma esiste un incontro più attendibile?), Alice Munro è d’acciaio, capace di affilare le parole in modo che cesellino con tratti precisi e realismo spesso brutale il mondo che vuole rappresentare: un po’ alla Raymond Carver, autore al quale è spesso stata accostata, o Carson McCullers, maestra del Southern Gothic. Io aggiungerei ai nomi già fatti anche quello di Grace Paley, che ha una sorte simile, una analoga passione per la forma del racconto, e la medesima crudele e splendente ironia nella rappresentazione delle piccole cose. Per entrambe, nello scrivere si parte sempre dalla realtà, e da quel piccolo insignificante luogo della realtà che rischia di restare invisibile ai più, non svelato perché comodo a conservare intatta la superficie del vivere comune. Quella superficie, per Munro, coincide con il ricordo e l’esperienza di Wingham, il villaggio isolato nella contea di Huron (Ontario) dove è nata e ha passato i primi anni della sua vita e che ricompare con nomi diversi in moltissime sue storie. Come Faulkner, anche Munro ha la sua Yoknapatawpha. E in questo paese collocato nel territorio intermedio tra mimesi e visione sta annidata la memoria di quel che la scrittrice è stata e continuerà a essere. 

La sua è una famiglia di allevatori, molto modesta, in cui la madre, personalità risoluta e non necessariamente gradevole (eppure fondamentale nella vita di sua figlia), è stata maestra ma a 40 si è ammalata di Parkinson, mettendo la sua figlia più grande – Alice, appunto – nella condizione di occuparsi della casa e degli altri figli quando ha appena 9 anni. La bambina impiegherà tempo a conciliarsi con il rapporto con la madre. Da adulta alla complicata relazione madri/figlie Munro dedicherà la raccolta Una cosa che volevo dirti da un po’ (uscita in inglese nel 1974, e in Italia nel 2016). Sono 13 racconti, nei quali al solito Munro, seguendo percorsi insoliti e sghembi, combina la sua esperienza di madre con quella di figlia precocemente responsabilizzata e altrettanto precocemente fuggita dalla gabbia domestica per infilarsi, inconsapevolmente, in un’altra.

Il padre è figura che fatico di più a immaginarmi. Robert Laidlaw è un uomo canadese in anni e in un contesto rurale in cui i limiti della mascolinità sono molto ben delineati. Non stupisce che sia autoritario e imponga punizioni ai suoi figli. Quello che meraviglia di più è che fosse “addicted to books” e che coltivasse la sua dipendenza regolarmente tutte le domeniche pomeriggio. In “Botte da re” (incluso anch’esso nella raccolta Chi ti credi di essere), Munro ne fornisce un ritratto che ne combina punizioni e risorse con la consueta, cristallina franchezza. Lui legge, e il fatto che legga lo rende prezioso, anche se non necessariamente complice.

La fuga dalla provincia, in prima battuta, dipende da un’altra circostanza sorprendente: Alice, una ragazza di campagna, vince una borsa di studio per la University of Western Ontario. Ma sono anni complicati, e il riscatto femminile non è ancora realizzabile attraverso lo studio, almeno non lì, perciò non stupisce che il matrimonio, a università non finita, sia l’altra via di fuga, forse più semplice, che la futura scrittrice intraprende. Munro spiegherà poi la sua scelta: all’epoca, che qualcuno le si proponesse le sembrò un miracolo, e quindi dubbi non ne ebbe. In “Chance”, comparso in The New Yorker nel 2004, Juliet si trova in una situazione simile, ma con maggiore consapevolezza. Il problema della protagonista – una ragazza che ha vinto, appunto, una borsa di studio – è rappresentato come una sorta di doppio legame: se si sposa, butterà via la fatica e il lavoro di anni; se non si sposa, probabilmente diventerà una vecchia zitella, destinata a vedersi passare davanti, nel suo mestiere, una quantità di uomini. È un po’ la versione quotidiana e meno clamorosa dell’ordalia cui venivano sottoposte le donne sospettate di stregoneria: legate a una sedia e buttate in acqua, se sopravvivevano, erano streghe e dunque condannate al rogo; se non sopravvivevano, erano innocenti, ma ormai erano annegate. Le donne perdevano comunque, e non c’era verso di uscirne.

Così succede che Munro si sposa ventenne. A 26 anni, ha già avuto tre figlie (sebbene la seconda di esse non viva che il tempo necessario per respirare il mondo e andarsene). Fa la casalinga, e dunque come tante donne all’epoca, se vuole andare a far la spesa deve farsi dare il denaro da suo marito: un po’ come Emily Dickinson, che aveva bisogno di chiedere al padre i francobolli per spedire le poesie ai suoi editori. Alice Munro, però, non sembra essere infelice: semplicemente, si è adeguata. Scrive nei ritagli, nelle parentesi aperte dai sonnellini delle bambine. E in questo modo mette insieme la prima raccolta di racconti – per me anche la più amata – che esce in originale nel 1968, e in Italia nel 1994). La danza delle ombre felici è un’ottima partenza, solo in parte offuscata dal desiderio, allora fortissimo in Munro, di passare dal racconto al romanzo, una misura di maggiore respiro (e certamente più vendibile). Il racconto che conclude la raccolta e che dà il titolo al volume folgora e commuove allo stesso modo Margaret Atwood e, qualche anno dopo, Laura Lepetit, che accoglie la traduzione nella sua casa editrice. Einaudi diventerà poi l’editore preferito, e la traduttrice sarà sempre Susanna Basso, la stessa che ha tradotto, McEwan, Amis, Ishiguro e molti altri.

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La vita delle ragazze e delle donne, pubblicato nel ’71 (Lives of Girls and Women; ed. italiana 2018), va in questa direzione, ma è un escamotage: non un romanzo, ma una teoria di storie collegate. (Ancora oggi, qualcuno lo definisce un “romanzo” ma non lo è). E i temi sono i suoi, ora definitivamente integrati in quello che qualcuno ha timidamente definito il Rinascimento canadese. Esso copre gli anni ’60 e include moltissime voci di donne che abbiamo imparato ad amare: oltre a Margaret Atwood, amica e grandissima estimatrice di Munro, ci sono, tra le altre, Marian Engel, di soli due anni più giovane e poi fondatrice del sindacato canadese degli scrittori, e Margaret Laurence, classe 1926 e anche lei proveniente da un territorio difficile (il Manitoba). Sembrerà stupefacente che nel movimento così definito vi siano soprattutto donne, e per qualcuno si tratta di un’anticipazione delle mobilitazioni politiche degli anni ’70. Invece è forse più attendibile la spiegazione che Atwood e Munro si trovano d’accordo nel dare: in un paese così duro e difficile, gli uomini canadesi avevano altro a cui pensare, e semplicemente si disinteressavano della letteratura. Non era previsto dal modello maschile dell’epoca. Dunque le donne potevano anche scrivere, purché non dessero troppo fastidio. Era uno spazio di libertà non trascurabile: potevano fare più o meno quello che volevano, perché tanto gli uomini non le avrebbero mai lette.

E in questa cornice, succede che arrivano gli anni ’70: il momento ideale per le donne e per altre identità marginali di uscire dallo stanzino e salire sulla scena mondo. Per quanto marginale e ancora intensamente legata allo spirito della nazione, anche la cultura canadese è investita dall’ondata di cambiamento. Munro non resta immune. La nuova visione del mondo delle donne che sta prendendo piede sembra dar senso ai temi che lei stessa ha affrontato fin lì, legittimandoli non più come idiosincrasie private, ma come una deliberata, autentica rivendicazione di identità. La fine del matrimonio con Jim, nel 1973, determina la necessità di mantenersi da sola. Per quanto l’insegnamento sembri una possibilità, Alice resiste pochi mesi e poi ne conclude che quel mestiere non è proprio fatto per lei. Ed è a questo punto che l’apparentemente fragile e in realtà inamovibile casalinga di serie B che, stando ai titoli dei quotidiani locali, aveva trovato il tempo di scrivere racconti tra una lavatrice e uno spolvero, decide di tornare in Ontario per ritrovarsi nel paesaggio che le appartiene e che di fatto, nelle sue storie, non ha mai abbandonato.

Qui però va fatta una precisazione, altrimenti il localismo rischia di trasformarsi nell’improvvisa rivalutazione – oggi frequente nella letteratura italiana – di una provincia che avrebbe, si dice, tanti aspetti positivi. La visione di Munro non cambia. Ci sono piccoli slittamenti tematici, ma non troppi, e soprattutto un piglio molto più deciso nello sperimentare soluzioni stilistiche e costruttive nuove, destrutturanti eppure dotate di un equilibrio perfetto. Le storie di Munro – ormai pubblicate con regolarità su The New Yorker, The Atlantic Monthly e The Paris Review – prendono sempre di più la forma non di un viaggio ma di un puzzle, in cui il progresso non è mai lineare, ma un garbuglio in cui alla fine tutti i pezzi vanno al loro posto. La definitiva adesione alla forma del racconto non determina una diminuzione della complessità, ma semmai un incremento della passione costruttiva, mentre i temi restano potentemente agganciati alle esperienze invisibili ma epifaniche di una provincia che vive di formalismi e tradizione. In essa compaiono con sempre maggiore evidenza colpe innominabili e pulsioni sempre negate, quanto meno alle donne. Ha ragione Atwood quando dice che pochi hanno saputo raccontare l’amore nei termini dell’attrazione fisica e della sessualità femminile, con tutte le bugie e gli imbrogli connessi alla necessità maschile tanto quanto femminile di adempiere il desiderio. Non è un percorso lineare, quello di Munro, anche perché implica la necessità di venire a patti col suo passato familiare e con la legacy per metà scozzese e presbiteriana del padre e per l’altra metà, quella materna, irlandese e anglicana. In entrambe le tradizioni, i doveri della donna non includono la possibilità di soddisfare il proprio desiderio, soprattutto se di desiderio sessuale si tratta. Religione e senso di colpa restano potentemente agganciati, e tuttavia Munro è capace di una consapevolezza salvifica, che comprende anche una valutazione contradditoria delle potenzialità del perdono. In un’intervista realizzata da Lisa Allardice e pubblicata nel periodo dell’attribuzione del Nobel sul "Guardian", una Munro più che ottantenne, seduta al Bailey’s Fine Dining a Goderich, vicino a casa sua e al lago Ontario, racconta del suo rapporto con sua madre e ne conclude che diciamo sempre che certe cose non possono essere perdonate, ma poi comunque le perdoniamo. Lo facciamo di continuo. 

Perdoniamo il passato cui apparteniamo anche senza averlo condiviso: operazione dalla quale per Munro nasce La vista da Castle Rock , pubblicato in Italia solo un anno dopo l’uscita in originale (The View from Castle Rock, 2006), che contiene storie personalissime, ricapitolate da un passato remoto e poi confluite tutte in un atto d’amore verso l’Ontario di ieri e di oggi.

Poi gli anni passano. Per quanto felice e stabilizzata col nuovo marito, Gerald Flemin, e nella casa di Clinton (una trentina di chilometri da Wingham), Munro invecchia. Mantiene la stessa cifra lucida e inflessibile, e aggiunge temi che rispondono al suo esistere. Ragiona sull’approssimarsi della morte e sulla malattia, e in una storia inclusa in Troppa felicità, “Radicali liberi”, racconta di cancro, anticipando quel che accadrà anche a lei. Alla fine, nel 2013, quando le comunicano che ha vinto il Nobel, lei commenta che certo quel premio è una bella cosa per lei, ma soprattutto per la forma del racconto – così a lungo disprezzata in favore del romanzo – e per il Canada. Tredicesima donna a vincere il Nobel, Munro è solo la seconda canadese ad aggiudicarsi questo prestigioso riconoscimento: il primo era stato Saul Bellow, nel 1976, e però già non viveva più in Canada ed era emigrato quando Munro aveva 9 anni e ancora si occupava di sua madre e dell’allevamento di famiglia. 

Lei non se n’è mai andata. 

Adesso, nel mio immaginario, sta ancora lì, in piedi, poco più che trentenne nel Munro’s Book Store, a chiedersi che cosa farà di se stessa e se mai riuscirà a emulare qualcuno degli scrittori sugli scaffali. 

Ci è riuscita, e ha fatto anche di meglio, lasciandoci in eredità quotidianità luminose che resteranno con noi.

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