Fare pace con Asimov
Non l’avrei deciso di mia volontà: mi è stato proposto, e ho fatto bene ad accettare. Intendiamoci, sono sempre stata consapevole, da studiosa e da scrittrice, della genialità di Isaac Asimov, ma il maschilismo carsico a rischio costante di emersione, il sessismo rampante (condito da accuse di condotta inappropriata) e una cospicua tendenza al narcisismo mi hanno impedito fin qui di contrarre la passione vicina all’idolatria che riconosco in molti appassionati. Tuttavia, la persona quasi mai coincide con l’opera, come credo abbia dimostrato il caso recente di Alice Munro. Dopo aver affrontato la monumentale autobiografia Io, Asimov, appena pubblicata da Il Saggiatore con la traduzione di Chiara Beltrami e una Postfazione della seconda, amatissima moglie di Asimov, devo ricredermi: più o meno a pagina 10 delle 700 pagine circa del volume, ero già perduta: conquistata al genio discorsivo di quest’uomo insopportabile e straordinario.
Per la cronaca, questa non è la prima autobiografia del maestro riconosciuto della fantascienza classica. La prima era uscita nel 1970, quando Asimov aveva appena 50 anni (In Memory Yet Green) e la seconda 10 anni dopo (In Joy Still Felt, 1980). Tecnicamente, ce n’è anche un’altra, pubblicata postuma da Janet O. Jeppson Asimov nel 2002 (It’s Been a Good Life). A detta di molti critici e lettori, tuttavia, quest’ultimo sforzo autobiografico riassume e compendia i precedenti, scegliendo una scansione grosso modo cronologica ma mantenendo la tendenza asimoviana a corpose digressioni. Esse sono sempre interessanti e capaci di costruire un mondo credibile intorno a chi si racconta, mantenendosi sempre al centro della scena, ma con uno sguardo attento a quel che gli sta intorno. Anche la struttura del volume somiglia al protagonista: è radicalmente “maschile”, almeno secondo la codifica corrente del termine “maschio”, che corrisponde, nella vulgata occidentale, a razionale e ordinato. Infine, il volume ha alcuni aspetti curiosamente autoreferenziali, tanto da includere nell’autobiografia un capitolo intitolato “Autobiografia” (cap. 133), dove l’autore precisa tra parentesi che questo è il suo duecentesimo libro.
Anche volendo, è impossibile dubitare della centralità che Asimov stesso si attribuisce. Nell’incipit del primo tra i 166 brevi capitoli che compongono il volume, Asimov dichiara serenamente di aver sempre saputo di essere un bambino prodigio, ovvero, secondo l’Oxford English Dictionary (da lui medesimo citato, sempre a pagina 1) “un bambino dotato di genio precoce”. Poi subito dopo precisa che bisognerebbe intendersi su che cosa significhi “genio” e che cosa si intenda per “precoce”. Nonostante questi dubbi definitori, lo scrittore dichiara poco dopo: “[…] ho sempre pensato a me stesso come un tipo eccezionale fin dall’infanzia, e la mia opinione non ha mai vacillato”. La certezza esce intatta dalle prevedibili angherie dei compagni di scuola, più forti e meno goffi, e molto divertiti da questa autocoscienza sperticata. Essa sopravvive anche quando, ad appena 15 anni e avendo finito in anticipo le scuole superiori, Asimov cerca di iscriversi al Columbia College, ovvero la scuola d’élite della Columbia University. Gli rifiutano l’accesso, per poi ridirezionarlo al Seth Low College, dove c’erano sì studenti brillanti già pronti all’università a 16 anni, ma erano tutti ebrei e italoamericani. In qualche misura, questo è il suo primo incontro con l’antisemitismo degli anni che precedono la II Guerra Mondiale: carsico e non espresso, ma del tutto evidente. Asimov è molto lucido nel rilevare che l’esclusione dal Columbia College era stata ufficialmente motivata dal fatto che lui avesse 15 anni appena e non 16, come previsto dalle norme di accesso all’istituzione; peccato che il Seth Low College ponesse lo stesso vincolo, a quanto pare del tutto superabile.
Prima di allora, Asimov racconta di essere stato sì subito consapevole di essere ebreo e figlio di ebrei poveri, in fuga dalla Russia e approdati negli Stati Uniti senza un soldo, ma la cosa non sembra creargli alcun problema. Sempre nelle prime pagine, dopo il curioso ragionamento sulla necessità di quantificare precocità e genio, Asimov offre una serie di riflessioni sul fatto che i suoi genitori, di madrelingua russa e mai del tutto capaci di esprimersi (e di leggere) in inglese, fossero molto occupati a procacciarsi una vita decente. In sostanza, a loro importava veramente poco di avere un figlio geniale, e questo, scrive l’autore stesso, è una salvezza: il piccolo Asimov può crescere in un contesto normale (e normalmente diffidente dei suoi proclami di genialità) e in relativa autonomia, coltivando le sue passioni con l’andamento erratico che esse avranno sempre.
Nei capitoli successivi, il quadro umano che emerge dalle descrizioni di eventi quotidiani e avventure e disavventure scolastiche e professionali ha il sapore confortante di una intensa normalità. Ci si innamora di questo soggetto geniale e tuttavia pieno di piccole incapacità. Claustrofilico costretto a una socialità e a una presenza pubblica negli anni sempre più richiesta, Asimov è anche studioso e scrittore delle meraviglie dell’universo, ma ha paura di volare e mai monterebbe su un aereo. Non è neanche un eroe, e lo ammette: dopo Pearl Harbor, dichiara candidamente che tutti si aspettavano che si arruolasse per salvare, ma “Se il mondo fosse ideale, e io perfetto, l’avrei fatto, ma non lo è e non lo sono io, e non lo feci”. Da giovane adulto, medico mancato e biochimico per formazione, non fatica a trovare lavoro, ma se ne annoia presto e non riesce mai ad andare d’accordo coi colleghi. Tutto sommato quando a 38 anni perde una posizione permanente alla scuola di medicina, il risentimento è temporaneo: ben più solida è la convinzione che di lì in avanti sarà libero di scrivere quel che vuole senza dover negoziare le sue competenze con colleghi del settore.
Qui, di nuovo, tocca citare l’inciampo della genialità di Asimov, che lui stesso non ha intenzione alcuna di nascondere. Già da bambino, Asimov tende alle letture onnivore, consumate fin dall’infanzia soprattutto nel corso delle incursioni nelle biblioteche di quartiere e poi continuate, da 9 anni in avanti, nel negozio di dolciumi del padre dove prende il posto di sua madre di nuovo incinta. Impara naturalmente a muoversi in territori diversi, umanistici e scientifici, seguendo il filo dei suoi interessi inesauribili, e al tempo stesso osservando con attenzione quel che gli accade intorno. Dal negozio di dolciumi in avanti la sua passione per i pulp diventa conclamata e autorizzata (il padre si era sempre opposto prima) e strumentale a una comprensione del reale, ovvero della cultura americana che gli si muove intorno. È da quelli per esempio che Asimov comprende il cambiamento prodotto dal nazismo sulla percezione della differenza etnica negli USA. Prima della II Guerra Mondiale, la narrativa pulp era piena di stereotipi e liberamente razzista: l’eroe era sempre maschio, bianco e occidentale: buono per definizione e coraggioso per antonomasia, così come l’eroe negativo ricordava molto la rappresentazione degli afroamericani in The Birth of a Nation (D. W. Griffith, 1915), o, se è per questo, la percezione corrente dello straniero in Italia in certe frange politiche e sociali. Il nazismo cambia tutto, ma solo in superficie. Infatti Asimov precisa: “Con ciò non intendo dire che il razzismo scomparve dopo la seconda guerra mondiale, ma che l’esempio di Hitler uccise la sua rispettabilità, a parte tra quei trogloditi che sono sempre tra noi”. E anche quest’ultima considerazione suona familiare pure oggi.
Le consapevolezze ben articolate sul suo posizionamento nel mondo complicato che precede e segue il conflitto bellico mondiale conducono molto presto Asimov a diventare una delle figure più interessanti della fantascienza del Golden Age, spesso costruita su stereotipi discutibili, ma che Asimov non riesce ad applicare come tali e ai quali aggiunge sempre un nodo vivo di consapevolezza, per esempio, delle implicazioni di una colonizzazione dell’universo – come accade nel Ciclo delle Fondazioni (a partire dal 1951) , oppure in modo per me ancora i più interessante sulle modalità di interazione con la macchina (Io, robot e le leggi della robotica).
Negli anni di maggiore fioritura del genere letterario, Asimov non solo pubblica molto, ma intreccia relazioni praticamente con tutti gli scrittori più rappresentativi del Golden Age. Nel volume, ne percorre una corposa lista dedicando a ciascuno dei nomi un capitolo. Compaiono tra gli altri, Frederik Pohl, John W. Campbell, Robert A. Heinlein, Clifford D. Simak, e un Theodore Sturgeon quasi commovente nella sua costante ricerca di risorse economiche. Tutti sono descritti fisicamente ed entrano nei ricordi di Asimov col loro corpo e con le loro piccole manie. E un posto particolare spetta ad Arthur C. Clarke, a proposito del quale si evoca il cosiddetto teorema di Clarke-Asimov, secondo il quale Clarke sarebbe il migliore scrittore di fantascienza esistente, ma Asimov è il miglior scrittore di scienza.
Nella lista, non compare nessuna donna. È prevedibile, tanto nell’orizzonte collettivo quanto in quello individuale. Nella comunità fantascientifica, le donne come autrici cominciano a diventare visibili dalla metà degli anni ’60, proprio quando Asimov – pur restando un riferimento importante e premiatissimo – dice di non voler scrivere più fantascienza. Vi è però anche una misoginia specifica e asimoviana, spesso apertamente dichiarata. Pur amando perdutamente tanto la sua seconda moglie Janet, quanto la figlia Robyn (quella che tra i due figli avuti da Gertrude gli somiglia di più), Asimov è addirittura infastidito dalla presenza delle donne nelle storie della fantascienza, tanto che ancora ragazzino manifesta una vibrata protesta sulla legittimità di averle come personaggi: “Ricordo di aver scritto delle lettere alle riviste, lamentandomi dei personaggi femminili, proprio della loro esistenza”. Resta il fatto che uno dei suoi personaggi più amati è proprio una donna, Susan Calvin, qui qualificata come una “zitella normale”, robotpsicologa, molto intelligente e capace di combattere il mondo maschile. È possibile che, nella costruzione di questa figura riuscita, vi siano tracce delle donne della sua vita, delle quali negli ultimi capitoli ripete più volte che “molto controvoglia” dovrà a un certo punto lasciarle.
Lascia invece senza troppi rimorsi la fantascienza – anche perché non la lascia davvero – quando essa diventa non asimoviana, ovvero verso la fine degli anni ‘50 e nello stesso momento la sua centralità come autore e punto di riferimento si manifesta con pienezza. Questa condizione sollecita riflessioni sul genere letterario che si rivelano utili anche oggi. Resta vero per esempio, che la fantascienza è un genere “faticoso” per chi legge, proprio perché è fatto in buona parte di spazzatura, ma il lettore accorto non dovrà liquidarla per questo e piuttosto cercare le perle, che ci sono, e sono straordinariamente preziose. A questa riflessione, nel medesimo capitolo (cap. 14) se ne affianca un’altra di natura sociale e legata alla diffusione della televisione: “In parole povere, l’epoca delle riviste pulp è stata l’ultima nella quale i giovani per procurarsi il loro materiale primitivo, erano costretti a essere alfabetizzati”. Cambiando qualche elemento, è del tutto vero anche oggi.
E non sarebbe a disagio, nel mondo oggi, questo personaggio geniale infarcito di umanissime debolezze. Soprannominato da amici e colleghi “The great explainer” Asimov appare in questa monumentale autobiografia come l’“uomo Google” prima che ci fosse Google, la risorsa che la figlia Robyn ancora ragazzina invoca quando ha un quesito cui rispondere, il cervello enciclopedico del tutto consapevole delle sue doti ma anche pronto ad ammettere i suoi limiti. Se ne va, Asimov, relativamente giovane – 72 anni – poco dopo aver completato questa opera impegnativa come mole e densità. Essa ha però una dote innegabile, e innegabilmente asimoviana: riesce a raccontare cose profonde e interessanti in uno stile godibilissimo e con ironia (e autoironia) sapiente.
Io, Asimov va letto, e nel “bugiardino” di istruzioni che vorrei lo accompagnasse scriverei: leggetelo ovunque, anche sotto l’ombrellone e in treno. Vi piacerà.