Braidotti. L’altra Rosi

30 Dicembre 2024

Un romanzo che ho amato moltissimo – Chiedi perdono (1996), di Ann-Marie MacDonald – prende avvio con un capitolo intitolato “Fotografie mute” e declina un catalogo familiare di immagini che radunano il campionario di affetti intorno ai quali si dipanerà la storia. La sorprendente autobiografia di Rosi Braidotti mi ha ricordato quell’incipit, disseminata com’è di foto salvate nell’Archivio Braidotti e ora consegnate, dopo una lunghissima e accurata ricostruzione, al pubblico dei lettori per il tramite dell’editore Rizzoli.

Entro in punta di piedi in questa stanza affollata che la studiosa sui cui libri mi sono formata apre con generosità nutrita di affetti, mostrando un lato della sua personalità molto intimo e intriso di storie personali e collettive. Il volume è intitolato Il ricordo di un sogno: l’autrice designa così il tentativo di conservare il legame che abbiamo con le persone che amiamo e dunque il desiderio di ricostruirne la memoria. Questa memoria ha radici profonde in un territorio come quello friulano, e dunque non può che essere, come recita il sottotitolo, Una storia di radici e di confini. La prima fotografia introduce il prologo (“Scrivere di cuore, di testa e di piedi”) e raffigura Braidotti bambina e sua madre Bruna, che la tiene in braccio, nel 1955, a Tolmezzo. A osservarla, viene in mente quel che scrive John Berger, nel suo Sul guardare (1972) quando spiega che ogni immagine è la riproduzione di uno sguardo che viene scardinato dal tempo e dallo spazio e reso permanente, e può durare un attimo o alcuni secoli. L’impressione che questa sia l’intenzione di Braidotti persiste nelle pagine successive, quando il capitoletto “Andiamo verso il buio” ci appare incorniciato da due foto che formano quasi un dittico: il ritratto della madre, a Latisana nel 1958, e Rosi bambina, di spalle e affacciata a una finestra. Quest’ultima immagine è per certi versi la chiave dell’intero volume, la spiegazione visiva dell’atteggiamento che Braidotti svilupperà come persona e come studiosa (e i due aspetti coincidono alla perfezione, come accade con le persone risolte). “Io voglio restituire a questa famiglia la leggerezza, l’umorismo e la dignità” scrive Braidotti, “pur rispettando il suo innegabile bagaglio di dolore. Sono qui anche per guardare in faccia il timore che io stessa provo ogni volta che mi affaccio a questa finestra intima e interiore, che si apre però sul mondo intero. Io la chiamo la mia finestra cosmica”. Sembra che molto poco sfugga alla ricostruzione di Braidotti e al suo paziente chiedere la collaborazione di ogni singolo pezzo della famiglia allargata cui appartiene. Le fotografie sono gli ami e i soggetti. Agganciano il passato squadernandolo, non sempre in ordine sequenziale, sfruttando il privilegio delle ricostruzioni che affiancano cuore e cervello. Tra la quinta e la sesta parte del volume, è inserito un interludio intitolato “L’album di foto di famiglia”. È come se l’autrice avesse sentito il bisogno di spiegare il processo insieme al motivo della raccolta. Come se, quasi a metà della storia, abbia sentito la necessità di fornire qualche dettaglio sul modo in cui questa impresa ambiziosissima di ricreare l’album della genealogia Braidotti (e non solo) avesse bisogno di essere presentata come una procedura “scientifica”: una testimonianza, non un’invenzione. Nel volume, poi, le foto sono dappertutto e sono però solo una parte della superficie frastagliata di questo testo, che include documenti, pezzi di storia collettiva, dolorose rievocazioni dei tempi difficili in cui questa democrazia italiana, che oggi percepiamo come potentemente a rischio, veniva modellandosi. Riflessioni personalissime, lettere, trascrizioni di dialoghi e insomma una quantità di materiali eterogenei compongono un puzzle storicamente significativo e privatamente generoso.

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Tra la dedica – a Bruna e a Anneke, due ancoraggi fondamentali nella storia personale e collettiva – il libro si articola in 9 parti. Non ce n’è una decima, come se si volesse lasciare il discorso aperto ancora un po’. La nona parte, intitolata “Rispecchi e risonanze”, è di fatto un epilogo articolato e riarticolato, che non si rassegna a chiudersi. C’è persino un “Allora io vado”, che è quel che diciamo sempre quando in realtà non vogliamo andarcene. La divisione in parti rappresenta un argine più che una regolamentazione del ricordo, che come tale non può essere disciplinato: solo contenuto perché non tracimi nell’indicibile. Esiste comunque una fedeltà necessaria a quel che realmente è accaduto, e saperlo richiede un’inchiesta, lo studio della storia collettiva e l’indagine sulla storia personale. Braidotti affronta queste imprese gemelle scegliendo di “Scrivere con i piedi”, cioè “muovendomi, viaggiando”. E siccome il viaggio implica tappe impreviste, il percorso dei ricordi di Braidotti non è lineare. Le radici vengono rincorse nel tempo, imbrogliando e sbrogliando geografie e inseguendo i personaggi – la sua famiglia del cuore, cioè – “Dalla profondità delle pampas alla sabbia rossa del deserto australiano, passando per la Bassa friulana e i Delta Works alle foci del Reno, la Florida e la Cecoslovacchia”. È un’invasione di visi, storie e persino linguaggi, che Braidotti ben sintetizza verso la fine del volume quando rievoca “la saga di Pasqua, detta Emilie, in tedesco e ceco; o quella di Gianna, ‘che non era una di noi’, le storie del nonno in Argentina un po’ in italiano e un po’ in spagnolo […] Perché – conclude Braidotti – in questa famiglia di lingue ce n’è così tante da creare un effetto di dialetto multiculturale che parliamo solo noi. Un lessico famigliare ibrido e creolizzato, dove l’italiano è solo uno degli elementi, e a volte neanche il più importante”.

Ci ho provato, in preda alla mia ansia di riordino, a scindere le storie personali dalla storia collettiva, ma è impossibile. In questi passi indietro nella ricostruzione di una genealogia familiare molto intrecciata, Braidotti non perde mai il filo di un assunto che si incontra anche nel suo lavoro di studiosa: siamo fatti di relazioni, e sono proprio le relazioni che innescano, completano, ricostruiscono o interrompono l’evoluzione storica. Questo è tanto più vero per il Friuli dagli ultimi anni dell’800 a ora. Nei momenti in cui comincia e si sviluppa questa storia, la regione di confine che gli antenati di Braidotti abitano si costruisce pagina dopo pagina in una mappa in costante movimento: è “Il Friuli: terra di guerre immani, di città trasformate in sterminate caserme, uffici e postriboli; terra d’invasioni sanguinolente, di emigrazioni forzate, di violenze innominate, ma mai e poi mai scordate dalle sue donne”. Tra Resia – comune montano ancora oggi piuttosto isolato – e Latisana – nella Bassa Friulana abbastanza vicina a Udine da sentirsi città – si srotola la storia di una famiglia incredibilmente multiculturale. Una delle prime foto a inizio del volume risale al 1914 ed è scattata a Resia, ma la famiglia che vi è raffigurata è in parte austriaca, o per meglio dire originaria di quell’impero austroungarico la cui esistenza sarebbe sfumata pochi anni dopo. Pasqua Copetti e Giovanni Di Battista sono il primo matrimonio infelice, minacciato dall’alcolismo e dalla violenza di lui, che a un certo punto viene dato per morto in guerra, e dalla presunta frivolezza di lei, che lavora e aspira a una precoce indipendenza femminile.

Difficile farsi un quadro delle donne che affollano il volume. Esse rappresentano un puzzle di piccole storie, i petits récits di cui parla Lyotard che molto fanno capire delle condizioni di vita in quegli anni. Della licenziosa Pasqua si conosce a malapena il dolore per non aver mai potuto riavere le figlie Elena e Maria, e però Braidotti riesce a ricostruire le vicende disseminate di Rico, che sposa Milada (in Cecoslovacchia) continuando a odiare sua madre per averlo sottratto alle amatissime sorelle. Il suo fratellastro Tonda sposa Grete, a Essen, negli anni in cui le acciaierie Krupp danno lavoro a tutti (e fabbricano le armi per la seconda guerra). Intanto Maria, la più remissiva delle sorelle perdute di Rico, si sposa anche lei, sottraendosi finalmente (ma troppo tardi per diventare una madre affettuosa) alle angherie dei nonni. Dei quattro figli (Romano, Benito, Bruna ed Edda), Bruna è la Sherazade – così la definisce Braidotti – dalla cui voce arrivano buona parte delle storie. E Bruna è dappertutto, da sola o in compagnia, spesso insieme a Rosi bambina. C’è una foto in particolare, scattata a Venezia nel 1953, che dice tutto il rapporto: Bruna sorride e tiene in braccio Rosi, che sorride anche lei guardando l’obiettivo. L’abbraccio non è troppo stretto ma sicuro; il mare sullo sfondo evoca involontariamente il viaggio.

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E ci sono in effetti molti mari attraversati in questa storia. Braidotti ricostruisce anche i percorsi sull’acqua scombinandone i tempi. Racconta per primo il viaggio della famiglia che Bruna ha costruito con Mario: una unione non proprio benedetta da tutti, date le caratteristiche molto diverse delle due famiglie. C’erano “da una parte […] i Braidotti, antifascisti, benestanti, socialisti e anticlericali, e dall’altra gli Onori, fascisti, poveri e legati così tanto alla Chiesa da avere un figlio seminarista e tutti gli altri militanti nell’Azione cattolica. Il problema principale di tutte queste differenze non era neanche economico o sociale, quanto morale. Mio nonno Augusto era un socialista molto in vista e un antifascista conosciuto e perseguitato per le sue convinzioni. L’opposto dei valori della famiglia di Bruna”. Nonno Augusto Braidotti, socialista convinto che abbandonò la scena politica solo nei tardi anni ’40, si studiò per tutta la vita di ignorare i parenti di sua nuora. Del resto persino quando si era dovuto scegliere tra monarchia e repubblica, manco a dirlo, nonno Tita aveva votato per la monarchia.

Mario e Bruna amavano la Bassa Friulana. Sarebbero rimasti se avessero potuto, ma ancora una volta fu la storia a spingerli via. Nello specifico furono le due alluvioni che si abbatterono su Latisana nel settembre del 1965 e poi nel novembre del 1966. È a questo punto che Mario e Bruna, con i figli Rosi, Giò (Giovanna) e Gus (Augusto) prendono la via del mare. Il resto della loro vita sarà in Australia, continente dal quale Mario si rifiuterà sempre di tornare, mentre Bruna, a lui sopravvissuta, continuerà a non perdere mai d’occhio i suoi figli, e in particolare Rosi, che in Europa è tornata a studiare e che poi avrà una cattedra a Utrecht. Molte responsabilità delle scelte di studio e di ricerca di Rosi sono da riconoscere a Romano, lo zio Manino che Braidotti definisce come il suo “acceleratore di particelle elementari: si è sempre impegnato ad aumentare l’intensità della mia vita intellettuale e a velocizzare la mia capacità di percezione e di comprensione, sempre con premura e umiltà. Per mio zio, pensare era in fondo un progetto morale che ci impegna a esserci per e con gli altri”.

Ho l’impressione che in tutta questa storia Braidotti non solo si riconosca e metta insieme incerottandoli – come scrive in una gran bella metafora verso la fine del volume – i pezzi della sua identità. In un modo molto scoperto e toccante, riconosce anche i suoi debiti. Con Romano ne ha molti e imprevedibili, compreso il consiglio di studiare Foucault e l’accettazione, in anni non proprio facili, delle scelte d’amore della sua nipote più ingovernabile. Ingovernabile lo era da piccola, Rosi, anche per il nonno Augusto, il primo a salire su una nave per attraversare l’oceano e andarsene in Argentina per restarci dal 1912 al il 1918. Si imbarca prima ancora di sposarsi e soprattutto prima della guerra che lo costringerà a tornare. L’epopea argentina, ricostruita da una Rosi adulta e già docente e studiosa di successo, è incredibile. Augusto parte geometra, si integra nella comunità italiana, si sposta a Lobos, e vi costruisce un teatro che ancora oggi esiste. Sui documenti, si firma come architetto e nei fatti è un grande costruttore, del quale tutta la comunità conserva il ricordo. Il tempo italiano gli resta dentro e vicino, anche attraverso le lettere di una innamorata misteriosa, che poi sparisce dalla sua vita, non prima di aver lasciato tracce copiose di una intelligenza viva e indipendente, soprattutto per una donna di quegli anni. Il ritorno in Italia vuol dire matrimonio e un intenso impegno politico, lo si diceva. Bruna racconta che dopo le delusioni che lo allontanano dalle scelte dei giovani di sinistra di quegli anni, il nonno si affeziona molto a questa nipotina ribelle, capace di infuriarsi ogni volta che lui maltrattava Bruna. Rosi, a sua volta, riconosce nell’immagine ricostruita di Augusto Braidotti una eredità precisa, politica e culturale: “Da lui ho ereditato non solo la visione di una società libera e solidale, equa e femminista, giusta e basata sull’uguaglianza e il rispetto dei diritti umani. Mi ha lasciato in dote anche il sogno di veder sorgere una grande Unione Europea. Augusto credeva in una federazione di Stati europei antiautoritari e antifascisti, in un’Europa forte della sua vecchia cultura, economicamente di primo piano, ma impegnata a costruire un avvenire di pace, progresso scientifico e giustizia sociale. Io ci credo ancora”.

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Ci crede ancora in effetti la Rosi Braidotti di oggi, che è stata Rosinetta, Rosinûta, Rosinchen e persino Rosita de Lobos e che non è lontana dalla “bimba affacciata eternamente alla finestra, nel momento fissato dallo scatto di una macchina fotografica”. In un tempo lungo e con azione paziente, la studiosa che abbiamo imparato a conoscere per i suoi soggetti nomadi (Nomadic Subjects, 1994) e per le intuizioni felici sul postumano (The Posthuman, 2013) si volta verso il passato, indicando tangenzialmente quello di cui avremmo molto bisogno ora: capire da dove veniamo, e non dimenticarcelo.

Non mi pare esatto, come Braidotti afferma, che in questo libro e nella ricerca che lo precede e lo prepara, il suo ruolo è quello di un dispositivo di scrittura. C’è una voce autoriale molto chiara, non diversa da quella riconoscibile nella produzione saggistica. Ci sono i nomi delle scritture frequentate, soprattutto quelle di donne, da Virginia Woolf a Tina Modotti. Ci sono le tappe storiche della politica di quegli anni. Insomma, nel viso della donna di oggi, c’è ancora la monella di allora. E poi c’è dell’altro, un capitale simbolico raccontato entrandoci dentro e lasciandosi attraversare, spezzare, rimodellare, confortare, commuovere, rinnovare. Al principio di questa recensione usavo l’aggettivo “sorprendente”. Torno a usarlo qui: è sorprendente come una studiosa che ha saputo spingersi così tanto avanti rispetto al presente e sia stata capace di aprire tante porte agli immaginari futuri ne apra adesso una sul passato, suo personale e collettivo, forse ricordando qualcosa che rischiamo ormai di dimenticare: “Famiglia si diventa, e non solo si nasce”.

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