Il tempo dello scandalo: Joanna Russ e le altre
Joanna Russ è un nome che per me ha il sapore nostalgico delle lotte femministe di quando avevo vent’anni. E The Female Man – uscito negli USA nel 1975 – viene in effetti pubblicato la prima volta in Italia 10 anni dopo, in coincidenza con la mia “fase combattente” e fortemente voluto da Oriana Palusci, la medesima studiosa che ne cura oggi l’edizione fresca di stampa per i tipi di Mondadori. Non so se lo scandalo invocato da questo romanzo venga rievocato ora per volontà o per caso. Conoscendo Palusci, credo che si tratti di una precisa volontà: l’intenzione di mostrare come già negli anni ’70 questa autrice radicale, provocatoria, sempre ostinatamente politica, mettesse in parole – narrative e saggistiche – una rivolta ancora tristemente necessaria.
Tra le donne che scelgono di scrivere fantascienza e/o speculative fiction (sui problemi definitori ho già detto altrove, ma continuerò a tornare), questa tendenza a scegliere un impegno preciso tende a replicarsi. Per molti versi, il recupero di un’agentività riconoscibile e irriducibile corrisponde alla consapevolezza che in altri tempi aveva messo in parole Audre Lorde, quando sussurrava all’orecchio di tutte le donne: “Il tuo silenzio non ti proteggerà”. E proprio a Audre Lorde fa riferimento Nalo Hopkinson, quando riprende una sua frase famosa, rimodellandola lievemente. È vero che “non si può distruggere la casa del padrone con gli strumenti del padrone” (A. Lorde, The Master’s Tools Will Never Dismantle the Master’s House), però essi si possono usare per ricostruire la casa delle storie (Nalo Hopkinson, So Long Been Dreaming). Per ricostruirla, un ragionamento sulla questione di genere è necessario. Stupisce, per chi ancora osserva il mandato tradizionale di questo genere letterario, che di donne e rivoluzione si parli già dagli anni Settanta, con voci diverse e al tempo stesso coese. Russ è forse la voce più energica e radicale di quegli anni. Nelle prime pagine di The Female Man – coraggiosamente rititolato in italiano La female man, con una scelta rivendicata nell’introduzione di Palusci – viene introdotto il personaggio di Janet. È per molti versi la figura chiave del romanzo, e si presenta così: “Amo mia figlia, amo la mia famiglia (siamo in diciannove), e amo mia moglie (Vittoria). Ho combattuto quattro duelli. Per quattro volte ho ucciso” (cap. 1).
Russ entra a gamba tesa nella palestra tutta maschile della fantascienza, dove le regole sono chiare e chiaramente patriarcali. Lo fa mettendo in scena una donna, temporaneamente dislocata nel mondo che conosciamo ma arrivata da Whileaway: un luogo dove appunto gli uomini non esistono e quel che resta del genere umano si è rivelato del tutto in grado di cavarsela. Pur introdotto qualche anno prima nel racconto “Quando cambiò” (“When it changed”, 1972), il mondo di Whileaway ha una sua articolazione completa in La female man, e dunque precede di un anno un’ipotesi analoga proposta da Alice Sheldon, aka James Tiptree Jr, nello straordinario, istruttivo ed esilarante “Houston, Houston ci sentite?” (“Houston, Houston, Do You Read?”, 1976). In esso, un equipaggio di soli astronauti, in modi diversi tutti maschi alfa, attraversa inconsapevolmente una smagliatura spaziotemporale e si trova in un mondo felicemente popolato solo da donne. Pacifiche e autosufficienti, del tutto capaci di gestire una tecnologia sofisticata e una vita familiare felice, esse sono dotate di una equilibrata agentività che spiazza gli uomini fino a ridurli all’isteria e a indurre le donne che li hanno raccolti a liberarsi di loro. “Semplicemente” dichiara serena la comandante “non abbiamo strutture adeguate a ospitare persone con i vostri problemi emotivi”.
Nel ’77, il racconto di Tiptree vince il Premio Nebula, ed è forse ragionevole pensare che la strada era in parte stata aperta da “Quando cambiò” – pubblicato peraltro nella prestigiosa antologia Again, Dangerous Visions di Harlan Ellison – e successivamente dal ben più articolato La Female Man. Se scandalo è forse una parola forte per definire la reazione dell’ambiente fantascientifico a queste narrazioni, è pur vero che esse mettono in evidenza la caffettiera collocandola in camera da letto: attuano cioè uno straniamento molto intenso per rendere esplicite le modalità di rapporto tra uomo e donna in quella che si ritiene, assurdamente, una equilibrata società occidentale. Sulla Gloria, la navicella totalmente abitata da donne, uno degli astronauti salvati cerca di mettere in atto uno stupro. La presunta vittima reagisce in modo in parte curioso e in parte divertito, ovviamente sottraendosi e mettendo in ridicolo l’imprevidente arroganza dell’aggressore.
Lo stesso accade in una scena di La female man. A una festa, Janet viene energicamente corteggiata da un uomo, che non si rassegna alle sue resistenze, risolvendo alla fine di essere ridotto all’inoffensività da una Janet del tutto capace di difendersi. La situazione è talmente spiazzante da indurre l’uomo, mandato al tappeto da Janet con pochissimo sforzo, a sfogliare il libretto di istruzioni in dotazione ai maschi del pianeta (azzurro, naturalmente) nel quale è indicata la lista delle cose giuste da fare. Il libretto corrispettivo per le femmine è naturalmente rosa, e non prevede che, in caso di molestie, una donna reagisca. La voce “Brutalità”, nel manuale di comportamento per le signore, è definita così: “Il malumore dell’uomo è sempre causato dalla donna. È anche responsabilità della donna sistemare le cose, dopo”.
È interessante come, in entrambi i casi citati, agency e sessualità siano legate: nella fantascienza tradizionale, idealmente le donne entrano solo come oggetti di desiderio, oppure non entrano affatto, come per molti sarebbe preferibile. Impugnare proprio questo aspetto è, appunto, la pietra dello scandalo. Ancora più astuto è farlo non in modo assertivo (ovvero ipotizzando una società di donne perfetta e scevra di ogni problema), ma mantenendo un margine di indeterminatezza: lo spazio di significazione nel quale, come vuole Julia Kristeva, diverse soluzioni sono possibili. E su questa nozione della scelta si basa l’impianto concettuale di La female man, poiché “Ogni scelta genera almeno due mondi possibili, ovvero quello in cui compi un’azione e quello in cui non la compi; o probabilmente molti di più, uno in cui la compi velocemente, uno in cui la compi lentamente, uno in cui non la compi ma esiti, un altro in cui esiti e aggrotti le ciglia, uno in cui esiti e cominci a starnutire, e così via”.
Sfiorando ma anche aggirando la nozione contemporanea di multiverso, Russ introduce una specifica attenzione al concetto di scelta e, dunque, di responsabilità politica. La modella nel tempo, in un percorso biografico che dal Bronx newyorkese e da una famiglia di insegnanti la porta alla Cornell University in anni di grande mobilità politica e culturale e poi alla Yale School of Drama, dove si laurea nel ’60. Un anno prima aveva esordito nella narrativa di fantascienza con “Nor Custom Stale”, pubblicato sul Magazine of Fantasy and Science Fiction, rivista popolare molto accreditata. Un anno dopo, invece, consuma un matrimonio brevissimo e improbabile, forse anch’esso un tassello necessario per identificare i territori di lotta, nella ricerca accademica come nella scrittura narrativa. Questo è un dato interessante: non mi viene in mente una delle donne che scrivono fantascienza in questi anni – e includerei Margaret Atwood e le sue opere speculative – che non abbia preso una posizione esplicita e trasformato la scrittura in un gesto politico. Qualunque cosa se ne possa dire ora, c’è voluto coraggio per trasformare un orgoglioso bastione dello spirito maschile americano (e non solo) in uno degli spazi di dibattito più interessanti per la riflessione utopica e culturale.
È per questa strada e seguendo questa linea di pensiero che si arriva a quello che ritengo sia l’aspetto più importante di quegli anni: la dimensione collettiva. Russ ha rapporti profondi con altre due scrittrici fondamentali di questi anni. Una è appunto Alice Sheldon, della quale Russ cita, in un breve articolo intitolato “Amor Vincit Foeminam” e pubblicato su Science Fiction Studies, anche un altro racconto oltre a “Houston Houston ci sentite?”. Si tratta di “Torna a casa, mamma” (“Mamma Come Home”, 1968), che esce peraltro in italiano in un’antologia, sempre curata da Palusci e pubblicata da Mondadori col titolo Aliene, amazzoni, astronaute (1990) e con una imbarazzante copertina che sfrutta tutti gli stereotipi del genere. Nel racconto, le donne di Capella arrivano sulla terra e sono non solo fisicamente molto più forti e attrezzate degli uomini, ma hanno anche la capacità di stuprarli, se vogliono, e di solito subito dopo, trovandoli inutili, li uccidono. L’idea, nella sua versione maschile (dunque impregnata di terrore) compare anche in un romanzo del 1973 di Thomas Berger, The Regiment of Women: naturalmente, le donne di questo mondo sono semplici parodie degli uomini, una sorta di boy scout con le tette – come Robert Heinlein le definiva – anche se qui anche l’aspetto fisico viene alterato in modo da sembrare più maschile attraverso una deliberata mastectomia. Anche in questo caso, la copertina è stereotipica all’estremo, e fa persino sorridere.
In tempi molto recenti, ovvero nel 2016, Naomi Alderman raccoglie questo testimone e pubblica Ragazze elettriche. Il titolo originale del romanzo è più riuscito di quello italiano: The Power designa in modo esplicito la questione centrale del romanzo: il talento femminile che riesce a soggiogare e spaventare – la capacità di emettere scariche elettriche – diventa utile ma pericoloso, e rovescia il mondo rendendolo non più equo ma uguale a prima, solo con posizioni invertite. Il che non è bello. Molto diverse, come si sa, sono le soluzioni progettuali proposte da Le Guin nelle sue ipotesi societarie alternative, da I reietti dell’altro pianeta a La mano sinistra del buio. E in effetti Russ – che pure con Le Guin ha una lunga, argomentativa amicizia – esprime un serio disaccordo rispetto a quelle che definisce come “affermazioni deliberatamente irritanti” espresse da Le Guin nel corso del Khatru Symposium del 1993. Russ si riferisce all’idea che la scelta di una strategia di lotta aggressiva da parte delle donne le metterebbe sullo stesso piano degli uomini. A questa convinzione, Russ risponde affermando che le persone non si convincono col ragionamento a modificare le loro idee: lo fanno piuttosto quando temono di perdere soldi, libertà, potere contrattuale ed effettivo. Le due restano amiche e continuano a rimbalzarsi questioni fondamentali rimanendo molto diverse. E scrivono storie differenti, nelle quali tuttavia esiste la medesima consapevolezza su quanto sia decisivo lavorare sul contesto per ipotizzare una identità femminile più consapevole di se stessa. Per rendere esplicita questa intuizione, Russ sviluppa il suo romanzo intorno a quattro donne, che sono in realtà una sola: lo stesso genotipo modellato da storie e appartenenze differenti. “Abbiamo tutte la pelle bianca, eh? – dice Joanna – Scommetto che non ci avete pensato. Siamo tutte donne. Siamo alte, con una differenza di pochi centimetri l’una dall’altra. All’interno di una ragionevole variazione, apparteniamo alla stessa razza, anche allo stesso tipo fisico: niente capelli rossi o pelle olivastra, giusto? Non prendete me come esempio […] Guardate i vostri volti. Quello che vedete è essenzialmente lo stesso genotipo, modificato dall’età, dalle circostanze, dall’educazione, dalla dieta, dall’apprendimento e sa Dio da cosa”.
Così Janet è la donna adulta e padrona di se stessa, cresciuta serenamente in un mondo senza uomini (ma non privo di conflitti e contraddizioni) e autenticamente stupita della condizione di deliberata schiavitù in cui vive Jeannine, in un’America in cui la Grande Depressione è ancora un dato di fatto e non c’è stata nessuna Seconda Guerra Mondiale. Nel tempo immobile di un paese sempre uguale a se stesso, Jeannine è la preda confusamente lieta di essere tale. Ben diversa è Jael – la guerriera e il mio personaggio preferito – che abita un mondo in cui tra i sessi vi è guerra aperta e il territorio è diviso tra lo spazio delle donne (Womanland) e quello degli uomini (Manland). Il corpo postmoderno potenziato da innesti e adatto alla battaglia cruenta che la aspetta ospita una identità fratturata e per sempre incapace di riconoscersi. Joanna è la tessitrice e la chiave, il profilo in cui l’autrice si rispecchia e che connette e medica/media la relazione tra donne diverse, spaesate da un viaggio attraverso il confine dei mondi che non viene affatto spiegato.
La struttura di La female man segue le anomalie dell’intreccio, costruendosi su una superficie frastagliata, che combina tipologie narrative diverse e naviga tra setting che cambiano bruscamente come cambia la focalizzazione dei personaggi. È una scelta di stile che ricorre in molta narrativa postmoderna – e molto bene ne dice Palusci nella sua introduzione – ma che è molto rara in un genere ancora ritenuto popolare come la fantascienza. Ho l’impressione, per nulla scientifica ma molto sostenuta dalla mia consuetudine col profilo di Russ, che anche questa scelta di stile corrisponda alla volontà di mettere in scena soggettività composite e in costante cambiamento: scandalose per questo proprio perché non conformi. “Stories are weapons”, scrive Annalee Newitz (2024), che è un altro modo di riproporre la tesi di Le Guin, in La teoria narrativa della sacca (The carrier bag theory of fiction, 1986): quando gli uomini tornano dalla caccia di mammuth, non è la carne che conta, ma le storie.
Esse modellano il mondo.
E lo modellano meglio se la dimensione dello sforzo è collettiva. Russ tenta di guadagnare questa coesione quando mette in scena questo gioco postmoderno tra voci narranti e tipologie di narratori. Un po’ dea e un po’ Tristram Shandy, si autodenuncia come autrice, nel personaggio di Joanna, ma allo stesso tempo ritiene irrinunciabile la relazione con le altre donne. L’invocazione di una dimensione collettiva assume una forma articolata ed esplicita nel 1984, quando pubblica un pamphlet intitolato How to Suppress Women Writing. Uscito in Italia solo in anni molto recenti e grazie all’ostinazione di Enciclopedia delle donne (2021), Vietato scrivere mette in fila le proibizioni imposte alle donne che scrivono – tutte, da Emily Dickinson a Virginia Woolf, dalle sorelle Bronte a Jane Austen e George Eliot – soprattutto per richiamare il senso di una battaglia comune. È a tutti gli effetti la medesima kinship che più avanti invocherà Donna Haraway, con una simpoiesi che qui, tra donne, si è già fatta prassi di creazione di mondi, sviluppati a partire dall’analisi critica delle dinamiche di potere nel mondo reale. Per quanto non mi piacciano la terminologia e la pratica bellica, trovo straordinario questo modo di identificare una tensione comune, una volontà che è anche desiderio e che ha da essere condiviso. Russ conclude il suo prezioso libretto con una convocazione: “Ora finitelo voi”.
Le “donne dello scandalo” nella fantascienza, in modo carsico o esplicito, rispondono a questa convocazione anche quando non ne sono consapevoli. Lo fa Ninni Ulqvist, per esempio, che in L’unità (2024) evoca un mondo di maternità coatta ma anche forme diverse di resistenza da parte delle protagoniste. Lo fanno Lindsay Drager, Nalo Hopkinson, Rivers Solomon e molte altre. Tornerò su queste strade. Per ora mi sembra più che interessante il fatto che la stessa aria “scandalosa” cominci a respirarsi, nella fantascienza, in lingue e nazioni diverse. E un po’ anche in Italia, dove la saggista e ricercatrice Laura Coci sta tessendo pazientemente un ripiglino tra scrittrici differenti ma ugualmente fastidiose, ormai spesso in scena nelle convention di settore. “La fantascienza è donna”, scrive Eleonora Federici (Quando la fantascienza è donna, 2015), e lo stesso concetto ribadisce Laura Coci in Fantascienza, un genere femminile (2023), un volume omonimo che si è appena aggiudicato il Premio Italia. Intanto Giuliana Misserville propone la prima monografia italiana su Le Guin intitolandola Ursula K. Le Guin e le sovversioni del genere e Giulia Abbate costruisce con abilità e pazienza certosina una genealogia femminile che includa anche (ma non solo) le preoccupazioni ambientali. Tornerò su tutto questo, ma per ora mi interessa notare che anche qui da noi ci son scandali a bizzeffe, ed è solo una buona notizia.
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