I ragazzi di Weird Tales

30 Gennaio 2025

Negli ultimi anni il genere weird ha guadagnato un sempre maggiore riconoscimento da parte della critica, ed è stato oggetto di continue riappropriazioni, per così dire, intellettuali. Parlare di weird oggi significa occuparsi non solo delle sue manifestazioni novecentesche, ma anche delle sue riprese più recenti, dal “new weird” di autori come China Miéville e Jeff VanderMeer a fenomeni editoriali come il cosiddetto “nuovo weird italiano”. Ancora, figure intellettuali come Donna Haraway e Graham Harman hanno fatto proprio l’apparato simbolico della narrativa weird riutilizzandolo all’interno dei loro sistemi concettuali.

Questo successo del weird nel ventunesimo secolo (che è stato non a caso definito “l’era di Lovecraft”) porta talvolta a dimenticare le radici di questa forma. Anche l’opera di Lovecraft stesso viene il più delle volte astratta dal suo tempo (come fa appunto Harman nella sua lettura fenomenologica), altre schiacciata sul culto della biografia del suo autore. Quello che passa in secondo piano insomma è che il weird come lo conosciamo noi, ossia come un’evoluzione in chiave cosmica e “altra” dei tropi tradizionali del racconto gotico e della ghost story vittoriana, è anche e forse soprattutto il frutto di un particolare milieu editoriale, quello delle riviste di settore, e principalmente di Weird Tales, fondata nel 1923. Come scrive John Rieder a proposito della fantascienza, l’emergere di un genere “non ha a che fare con la prima apparizione di un determinato tipo formale, non con il primo uso del termine ‘fantascienza’”, bensì “con la comparsa di un sistema di identità generiche che articola i vari termini che si assiepano intorno alla fantascienza”: se la fantascienza non “nasce” con l’uscita del primo numero di Amazing Stories nel 1926, “il milieu di pubblicazioni periodiche di massa è una delle condizioni storiche per l’emersione della fantascienza come genere distinto” (Science Fiction and the Mass Cultural Genre System).

Di questo milieu, in relazione al weird, si occupa Weird Tales Boys di Stephen Jones, da poco pubblicato per Agenzia Alcatraz, corredato anche da una “Bibliografia italiana essenziale” a cura di Andrea Vaccaro. Nel suo libro, Jones esplora la vita, ma soprattutto le relazioni, dei tre autori principali di Weird Tales: Howard Phillips Lovecraft, Clark Ashton Smith, e Robert E. Howard. Se la biografia di Lovecraft è ormai nota ai più, perlomeno nei suoi eventi principali (o nella loro assenza), quelle di Howard e Smith lo sono probabilmente meno, così come le loro opere – il che è senz’altro un peccato, soprattutto nel caso di Smith, uno scrittore la cui produzione weird e fantasy merita decisamente l’attenzione dell’appassionato. Il libro di Jones non riporta solo le biografie di questi autori e una succinta analisi delle loro opere, ma esplora le relazioni che intercorrevano tra loro, e a cui Weird Tales faceva da tramite.

In effetti, pochi generi come il weird devono così tanto al senso di comunità che si è creato intorno a chi ne scriveva. Se Lovecraft è diventato Lovecraft, ossia se dopo la sua morte ha potuto assurgere a una fama planetaria, questo non si deve certo al magro successo che il suo lavoro ha ottenuto finché era in vita, ma semmai allo sforzo incessante di una serie di amici, che si sono dati da fare per promuovere la sua narrativa e dare dignità editoriale alle sue opere. In effetti, il caso di Lovecraft è incredibilmente singolare, in questo contesto: già prima della sua morte, i suoi “miti” diventano una galassia narrativa partecipativa. Quando parliamo dei “miti di Cthulhu” (con tutti gli equivoci che questa definizione porta con sé), siamo davanti a un patrimonio narrativo che non viene espanso e continuato in virtù di uno schiacciante successo commerciale (come avviene oggi con innumerevoli franchise nella pratica della fanfiction), ma dell’azione di autori e collaboratori altrettanto sconosciuti, amici di penna o semplici lettori. Già nel 1935, a malapena maggiorenne, Robert Bloch scriveva una storia (“The Shambler from the Stars”) che annoverava Lovecraft tra i protagonisti, senza averlo mai incontrato in vita sua.

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Come mostra bene il libro di Jones, la storia del weird è la storia dei suoi supporti editoriali. Occuparsi di Weird Tales come rivista non è un vezzo da collezionisti, ma implica fare i conti col contesto economico e culturale in cui quegli autori che hanno contribuito a determinare le coordinate del genere si trovavano a operare. In effetti, a confronto con lo schiacciante successo di cui gode oggi Lovecraft, è abbastanza impressionante riflettere sulla dimensione precaria delle sedi con cui collaborava, e la scarsa affidabilità delle persone cui consegnava il proprio lavoro. L’orrore soprannaturale in letteratura, per esempio, oggi considerato uno dei capisaldi della teorizzazione del weird, non trova una collocazione in volume finché Lovecraft è in vita, ma esce solo su fogli semiamatoriali, dalla vita breve e dalla circolazione limitata. Il libro di Jones abbonda di immagini prese dai numeri dell’epoca di Weird Tales, che rendono bene la chiassosità assai poco intellettuale di queste riviste, ma riporta anche diversi aneddoti sul rapporto tra Lovecraft e chi lo pubblicava, con lo scrittore costretto a lamentarsi dei tagli ai suoi racconti, dei cambi di titolo, dei rifiuti… Tutte cose che, se pensiamo al culto odierno che ruota intorno a Lovecraft, non possono che lasciare sorpresi.

La cosa più affascinante che emerge in Weird Tales Boys sono però proprio i rapporti che intercorrevano tra gli autori che ruotavano intorno a queste riviste. Noi siamo abituati oggi ad avere continuamente legami immateriali: amicizie nate e sviluppatesi interamente su internet, ma che ci permettono comunque, tramite i social, di vedere la quotidianità delle persone che sentiamo, le loro case e i loro visi, di udire la loro voce e quella dei loro cari. Lovecraft, Smith e Howard, invece, nonostante una corrispondenza di molti anni, non si sono mai visti: pochissimi dei loro corrispondenti comuni, anzi, sono riusciti a incontrarli tutti e tre. C’è qualcosa di profondamente malinconico nelle vicende biografiche di questi tre uomini, che in fondo, secondo la maggior parte dei parametri con cui si giudicano le vicende umane, sono morti da falliti (solo Smith in vita ha ottenuto qualche riconoscimento letterario, ma in giovinezza, e il fatto di essere sopravvissuto agli altri due di quasi trent’anni ha fatto in tempo a farne sbiadire il ricordo). Per quanto ci piaccia figurarci Lovecraft come un visionario dell’orrore e un gentiluomo all’antica, o Howard come un eroe di avventure fantastiche, la verità è che si trattava di uomini soli, frustrati nel loro tentativo di ottenere un riconoscimento letterario, e con serie difficoltà economiche e personali. Lovecraft è andato incontro a una morte precoce e dolorosa, Howard si è tolto la vita, le fortune personali e professionali di Smith hanno continuato a declinare nei decenni successivi all’età d’oro del weird. Delle loro vite, in fondo, almeno per noi che quasi a un secolo di distanza continuiamo a leggerne, la cosa più stupefacente e preziosa resta questa rete di legami che hanno saputo costruire, e che è nata a partire dalle pagine abbaglianti e stupefacenti di Weird Tales: un rapporto di stima e affetto profondi che vengono dall’amore per la fantasia e la letteratura.

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