Indiana Jones e il segreto dell’immortalità
Alla fine Indiana Jones ci è riuscito, a trovare il segreto dell’immortalità. Ma non era il Santo Graal, che pure era arrivato a toccare in L’ultima crociata. E neppure, che so, la “pianta della giovinezza” svelata da Utanapištim, l’uomo sopravvissuto al grande Diluvio, al re Gilgamesh, e da questi disperatamente inseguita nella sua vana ricerca di un modo per sconfiggere la morte. O neppure un’altra delle infinite fantasie escapiste partorite dall’uomo nella sua millenaria ambizione di esorcizzare l’ultimo tabù.
Macché: a garantire al vecchio Indiana Jones il frutto proibito, a farlo diventare immortale, è stata la moderna tendenza alla serializzazione. Condita, certo, di quel ventaglio di nuove possibilità tecniche offerte dalle rapide falcate con cui l’IA sta ridisegnando gli orizzonti, e le frontiere, dello sforzo creativo.
Perché in questo nuovissimo Indiana Jones e il quadrante del destino, che conclude, si suppone, le avventure del celebre archeologo / avventuriero ben quarantadue anni dopo la sua “nascita” cinematografica (I predatori dell'arca perduta è datato 1981), il vero e definitivo trionfo non è del personaggio all’interno alla storia, e neppure del personaggio all’esterno della storia, ma del personaggio attraverso la Storia. Cioè di Indiana Jones (ormai e per sempre tutt’uno con il proprio interprete principale, Harrison Ford) attraverso la storia del nostro tempo, del rapporto tra i media, del costume, delle nuove forme di intrattenimento, delle opportunità tecnologiche. Di noi come spettatori, come pubblico riscopertosi appassionato del racconto lungo, come in fondo eravamo all’alba della nostra letteratura narrativa: quando ascoltavamo il canto a puntate delle avventure degli eroi, dei loro momentanei successi, delle infinite disgrazie, una sera dopo l’altra, e a furia di amarlo lo facevamo diventare canone. Un piacere che, a ben guardare, non abbiamo mai dismesso.
C’è, in questo Indiana Jones e il quadrante del destino (2023), quinto capitolo cinematografico della saga divenuta ormai da tempo vero e proprio franchise, quasi una sfida all’idea del Tempo come usualmente la concepiamo. Una freccia lineare, che conduce da un punto all’altro, dall’inizio alla fine, da un prima a un dopo.
Ecco: nel diventare pienamente – e a questo punto per sempre – nei fatti una serie, la saga dell’archeologo che ha ispirato Alberto Angela affronta a mani nude, e con un notevole sprezzo del pericolo, proprio questa logica lineare del tempo. Per rivendicare un diritto che è sempre stato del mito: proiettarsi oltre i confini stabiliti, al di là del limite umano, oltre la dimensione dell'effimero. In quella, cioè, dell’eterno.
Curioso destino, o forse perfetta “conclusione”, per una figura che nasceva come grandiosa ripresa popolaresca negli anni ‘80 della proto-serialità d’avventura degli anni ‘30 e ‘40 del secolo scorso.
Anche Indiana Jones e il quadrante del destino mantiene la dimensione di super linearità sequenziale che ha fatto della saga una perfetta, e immediata, fonte di ispirazione per l’allora nascente industria dei videogame. Indy muove sempre in una dimensione totalmente videoludica, concentrata ed ellittica, fatta di quadri che sono le singole scene, e ciascuna scena è sempre perfettamente costruita per avere un inizio e una fine: una prova da superare, un intoppo, una scoperta. Non esistono altri eventi altrove, altre causalità che debbano interessarci: tutto è sempre nel momento presente, nel cattivo che sembra poter vincere, nel traguardo che sfuma, nell’improvvisa e ingegnosa rivelazione, nella soluzione d’azione, ovviamente nel coraggio dell’eroe.
Come appunto in un videogame di genere, le prove da superare si alternano a momenti d’azione: scazzottate assai coreografate, burroni da saltare, e soprattutto infiniti inseguimenti con ogni mezzo. A piedi, a cavallo, in moto, in auto, in camion, per barca, in aereo. Inseguimenti dappertutto, costantemente. Corse a perdifiato verso la prossima prova da superare. E così via.
La dimensione videoludica si sublima nel sempre simpatico, e pure paradossalmente accurato, lavoro di re-immaginazione storica tipica del franchise. Dato per scontato che non ci possa aspettare l’accuratezza storica come criterio fondativo delle scelte narrative di Indiana Jones, è persino sorprendente notare la serietà del lavoro profuso in quella che non è affatto pura invenzione. È piuttosto storia re-immaginata, drammatizzata, radicalizzata, piegata alle esigenze del racconto, ma non del tutto priva di una sua qualche sostanza o, che gli storici non si alterino, verosimiglianza. Indiana Jones e il quadrante del destino porta un passo più in là quanto era stato fatto in Indiana Jones e l’ultima crociata: edificare un castello fantastico appoggiato su fondamenta che non sono inventate. Un tratto, se ci pensiamo, distintivo della saga rispetto ad altre assai più farlocche. In L’ultima crociata era la ricerca del Santo Graal. Qui, un elemento ancora più sostanzioso: la macchina di Anticitera. Un congegno ritrovato nel 1900 a qualche decina di metri di profondità, datato II secolo a.C., attributo nel film ma anche da Cicerone all’invenzione nientemeno che di Archimede, fatto di numerosi dischi e ingranaggi, che è stato un vero rompicapo storico e antropologico per decenni, tanto da alimentare le speculazioni più disparate e complottistiche. Ma che, nella lettura che parrebbe oggi consolidata, era in realtà una sorta di proto-calcolatore: progettato per prevedere il ciclo degli astri, e la data dei giochi olimpici.
Il nuovo film non fa eccezione anche rispetto all’altra grande e ancora più presente costante dei film dal punto di vista del rapporto col Tempo, segnatamente il passato: il piacere perverso e molto americano nella distruzione della Storia. Che è sempre aliena, cioè europea, o asiatica, o mediorientale, o persino – Dio non voglia – precolombiana. Distruzione della Storia, distruzione costante dei suoi artefatti, monumenti, lasciti: anche se il quinto capitolo sembra voler ridurre il furore iconoclasta rispetto ai precedenti. D’altra parte, nel frattempo abbiamo fatto i conti nella realtà con certe forme di iconoclastia monumentale religiosa radicale… Meglio limitare i danni.
Va qui notata una curiosa parabola nelle avventure di Indiana Jones (contando solo i film maggiori, che poi come vedremo ci sono pure i videogame, i fumetti, i libri, le serie tv…). Pensiamoci: il primo e il terzo film (il secondo, Indiana Jones e il tempio maledetto, fa per certi aspetti storia a sé, e non a caso è un poco amato prequel rispetto al primo capitolo, e ambientato altrove, nella lontanissima India di cui poco o nulla sappiamo…) si basano sostanzialmente su una forma di “misticismo cristiano” corretto in sala fantastica. Ci sono oggetti di enorme potenza perché direttamente infusi della volontà divina – l’Arca dell’Alleanza in I predatori dell'arca perduta, il Santo Graal in Indiana Jones e l’ultima crociata – che soggetti diversi si contendono, animati da intenzioni divergenti: i nazisti come arma, Indy e i suoi alleati come reliquia del passato da salvare.
Nel quarto micidiale capitolo, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, il focus si sposta: dal Dio veterotestamentario agli alieni, che poi si capisce essere stati dei super-archeologi spaziali, forse anche ispiratori di tanti prodigi culturali.
In questo quinto e conclusivo Indiana Jones l’oggetto bramato, come detto, è l’eponimo “quadrante del destino”, la macchina – vera, esistente, studiata, musealizzata – di Anticitera. Un manufatto reale, non mistico, il cui potere non è divino – e neppure alieno – ma terreno, umano. Un congegno che funziona, come ossessivamente ripete l’antagonista del film, l’ex nazista nostalgico interpretato da Mads Mikkelsen, solo grazie alla “matematica”. È, certo, una matematica quasi magica, una meta-matematica le cui formule consentono la piena manipolazione della realtà: financo quella del tempo. E cioè la più ineludibile delle dimensioni a cui siamo, noi umani, assoggettati. Ma è innegabile, nella riproposizione dell’archeologo avventuriero al pubblico del nostro tempo, uno sforzo di secolarizzazione.
Anche in questo Indiana Jones e il quadrante del destino mostra un’accorta abilità nel sintonizzarsi su uno dei temi più fascinosi del nostro tempo, e cioè appunto l’esplorazione del Tempo: come nuova, forse ultima, certo estrema frontiera del viaggio. Un elemento, dicevo, molto attuale: sono innumerevoli ormai le serie, ma anche i film, che al centro hanno proprio ed esattamente l’espediente narrativo di un tempo manipolabile, piegabile. Da Dark al Ritorno di Lynch al mondo di Twin Peaks, da Travellers a Caleidoscopio, da Loki a The Umbrella Academy, per citare letteralmente i primi show che mi vengono in mente.
È come se, esaurite le possibilità di esplorazione dello spazio fisico, a parte gli ancora lontani pianeti dell’outer space tipici della fantascienza, ci sia solo una e una sola alternativa all’esplorazione degli spazi interni con cui il Novecento letterario (ma anche cinematografico, pittorico, musicale…) ha tradotto e popolarizzato il trionfo della psicologia: appunto, l’esplorazione del tempo.
Una bella evoluzione per una saga che era nata per omaggiare, e rilanciare, tutto un rassicurante (perché passato, stilizzato, sedimentato) universo estetico, sentimentale, narrativo degli anni '30 e '40. George Lucas, il creatore di Indiana Jones, ha spesso dichiarato di aver voluto omaggiare i protagonisti dei vecchi film d’avventura a episodi, che si trovavano sempre in situazioni pericolose, risolte con colpi di scena magistrali. Parliamo di quei film a puntate che venivano proiettati prima dei film principali nelle sale. Serial ante litteram caratterizzati da una trama semplice ma avvincente, in cui il protagonista doveva affrontare una serie di ostacoli e situazioni pericolose per raggiungere il suo obiettivo. Ogni episodio terminava con un cliffhanger, ovvero un colpo di scena che lasciava il pubblico in sospeso (meglio: appeso, come l’eroe al bordo del precipizio) fino al prossimo episodio. Tra i serial più famosi possiamo ricordare i diversi Tarzan degli anni 1920, The Perils of Pauline (1933, a sua volta ispirato all’omonimo serial del 1914), La maschera di Zorro (1937) che inaugura il fortunato filone dedicato al giustiziere mascherato, The Shadow con il suo iper sviluppo tra gli anni ‘30 e ‘40 a cavallo tra radio e cinema, fino all’alba dei supereroi come anche oggi li conosciamo, negli anni ‘40.
I film di Indiana Jones riprendono questa struttura narrativa episodica e la adattano al formato cinematografico, creando una serie di scene d’azione spettacolari e mozzafiato che si susseguono, come già dicevo, a ritmo serrato. I film di Indiana Jones hanno anche costanti cliffhanger interni, ovvero quei momenti in cui sembra che il protagonista sia in trappola o in pericolo mortale, ma poi riesce a salvarsi con l’astuzia o la fortuna: era così che si concludeva ogni puntata di quei vecchi film a episodi, dando appuntamento alla volta dopo a un pubblico abitudinario e fedele, che poi si sarebbe reincarnato in quelle della serialità televisiva orizzontale, tanti decenni dopo.
Volendo aprire un’ulteriore piccola parentesi “storica”, visto che comunque di Tempo parliamo e del suo superamento nella ricerca dell’eternità, possiamo ricordare altre fonti di ispirazione per Lucas e Spielberg, i padri del vecchio Indiana Jones. In primis, le figure vere di archeologi reali, per quanto ammantate di inevitabile leggenda. In particolare quelle dei primi decenni del Novecento: Hiram Bingham, che scoprì Machu Picchu nel 1911; Roy Chapman Andrews, che condusse spedizioni in Mongolia e Cina negli anni '20 e '30; e Sir Leonard Woolley, che scavò la città sumera di Ur negli anni '20 e '30. Alcuni di questi archeologi indossavano persino un cappello simile a quello di Indy.
E poi ci sono i personaggi dei romanzi d’avventura: Lucas e Spielberg hanno attinto a popolarissime figure letterarie, eroi di avventure esotiche e misteriose in luoghi lontani. Allan Quatermain, il protagonista – già alla fine dell’800 – dei romanzi di H. Rider Haggard ambientati in Africa, a partire dal celebre Le miniere di re Salomone; e poi, per dire, Doc Savage, al centro di una serie infinita di romanzi pulp degli anni '30 e '40, un genio poliedrico e un maestro delle arti marziali. E ancora Harry Steele, protagonista del romanzo Secret of the Incas (1952) di James Ramsey Ullman, che cerca un tesoro inca in Perù… Quella a cui attingono i due registi e co-creatori di Indiana Jones è una lunga tradizione letteraria che ha avuto origine nel XIX secolo, quando l’Europa si apre alla scoperta di altre culture e altri continenti. Il romanzo d’avventura d’epoca, così, racconta le gesta di eroi audaci e intraprendenti che esplorano terre sconosciute e affrontano pericoli di ogni tipo. Possiamo non citare, tra gli altri autori, figure troneggianti come Jules Verne, Robert Louis Stevenson, Arthur Conan Doyle, Edgar Rice Burroughs?
Ma poiché chi supera le contingenze del Tempo impara a muoversi in ogni direzione, non vi stupirà considerare l’influenza che il nostro modello ha avuto su tanti epigoni successivi: Lara Croft e Nathan Drake, archeologi avventurieri da videogame poi passati al cinema, traducono il desiderio di attualizzare il vecchio Indy per un pubblico giovane. Illusi! Come se si potesse attualizzare un classico, che vive la dimensione dell’eterno!
Continuiamo sul filone che ci siamo dati, quello della sfida (vinta) di Indiana Jones contro le costrizioni del Tempo. Eccoci al punto più discusso, e controverso, di questo nuovo film. Indiana Jones e il quadrante del destino si apre con una lunga prima parte che mostra Indy nel 1944, quasi alla fine della seconda guerra mondiale. Sono ben 25 minuti in cui vediamo il nostro eroe, seppur con generose dosi di ombre ad aiutare, combattere su un treno in corsa da cui cerca di sottrarre ai soliti cattivi nazisti alcuni artefatti di grande potere, bramati da Hitler nella speranza di invertire il segno della guerra. Indy zompa, fa a pugni, le dà e le piglia: d’altra parte non è mica strano, visto che è nel fiore dei suoi anni, nel pieno della maturità, quella della trilogia originale. O no? Perché in realtà l’avventuroso archeologo è interpretato, anche in questo prologo per così dire d’epoca, dal settantanovenne Harrison Ford. Come? Lo dicevo all’inizio: la dimensione seriale, ormai, del personaggio, e i prodigi della tecnologia.
Lo rivela lo stesso regista, l’ottimo James Mangold che sostituisce per la prima volta Spielberg (il che, dopo gli orrori del Teschio di cristallo, non ci impressiona tantissimo) su Variety: “Avevamo centinaia di ore di girato (di Harrison Ford, filmati di decenni prima, ndr), in primi piani, in mezzi piani, in piani larghi, con ogni tipo di illuminazione, di notte e di giorno. Potevo girare Harrison un lunedì come un uomo di 79 anni che interpreta un 35enne e potevo vedere i ciak già mercoledì con la sua testa sostituita. Non ci sono voluti anni di sforzi. È una tecnologia incredibile. Mi sono concentrato solo nel girare quello che è un inizio di circa 25 minuti di puro spettacolo, la mia occasione per dare libero sfogo alla creatività. L'obiettivo era dare al pubblico un assaggio completo di quello che avevano perso, e che mancava loro”.
In altre parole, Mangold voleva fare – e ha fatto – un “vero” Indiana Jones, con un “falso” interprete. O no? Perché è chiaro che Ford è il vero interprete di Indy… ma, al contempo, è oggi un altro uomo. Eppure: 40 anni dopo, sarebbe stato più falso usare un altro attore – con effetto stridente, visto che di quell’Indy più o meno quarantenne abbiamo chiaro il ricordo visivo – o appunto manipolare, falsare, il suo vero e storico interprete?
Non mi dilungo sul rovello filosofico. Segnalo piuttosto che la tecnica, già sperimentata autorialmente da Scorsese solo pochi anni fa in The Irishman (2019), e forse meglio ancora dal Will Smith pre-schiaffo di Gemini Man nello stesso anno, e poi affinata con i ringiovanimenti di Mark Hamill / Luke Skywalker in The Mandalorian e The Book of Boba Fett, ha fatto passi da gigante. Nella pubblicazione dedicata all’immaginario seriale che dirigo, Mondoserie , abbiamo dedicato una riflessione approfondita proprio a miracoli e miserie del rapporto tra IA e cinema nel film con i vecchi De Niro, Pacino, Pesci ringiovaniti artificialmente, ma solo fino a un certo punto in modo credibile. Con la surreale ed istruttiva vicenda dei miliardi di Hollywood umiliati dalla capacità a buon mercato degli smanettoni digitali di ottenere risultati ben migliori.
Ma appunto, come si diceva, c’è qui forse per Indiana Jones una differenza che non è solo di tecnica, anche se la tecnica c’entra.
Un po’ dipenderà dalla forma, eccellente, del buon Ford. Che emerge anche quando il film fa, dopo l’introduzione storica, il suo già famoso e un po’ disorientante – ma fascinoso – balzo nel tempo: mostrandoci cioè il prof. Jones al suo ultimo giorno di università, prima della pensione. Dalla quale verrà strappato, invero prima ancora che inizi, dalla macchinazione ordita dai vecchi nemici nazisti, che vogliono mettere le mani sul prezioso artefatto greco che dà il titolo al film, e con cui pensano di poter cambiare le sorti del mondo. Anche da vecchio, cioè quando – più o meno – il personaggio raggiunge l’età del suo interprete, Indy / Ford resta un bel fusto, arzillo e insieme sbruffone come lo ricordavamo, solo temperato dallo scavo incessante degli anni, e da più di un dolore dell’anima.
Ma, lo accennavo all’inizio, molto dipende, di questa maggior fortuna nel giocare con successo la carta pericolosa del “viaggio nel tempo di un personaggio con lo stesso attore”, e non avanti nel tempo che col trucco è più facile, ma indietro, e così tanto a ritroso, molto dipende dicevo dalla dimensione appunto compiutamente seriale che questo prodotto aveva già.
Indiana Jones era, anche prima di questo film e del suo baricentro narrativo incentrato su un congegno che può permettere di viaggiare nel passato, un personaggio che sfida il tempo. In più di un senso. Innanzitutto, perché le sue avventure sono ambientate in epoche diverse, spaziando dagli anni '10 ai '60 del XX secolo. Il primo film della saga, I predatori dell'arca perduta (1981), è ambientato nel 1936 e vede Indy alle prese con i nazisti che vogliono impadronirsi dell'Arca dell'Alleanza, la sacra reliquia biblica che contiene le Tavole della Legge. Il secondo film, Indiana Jones e il tempio maledetto (1984), è invece un prequel che si svolge nel 1935 e porta Indy in India, dove deve affrontare una setta di adoratori di Kalì che rapisce bambini per farli lavorare nelle miniere. Il terzo film, Indiana Jones e l'ultima crociata (1989), torna nel 1938 e coinvolge Indy nella ricerca del Santo Graal, il calice usato da Gesù nell'Ultima Cena, insieme a suo padre Henry Jones Sr., interpretato da Sean Connery – ma il suo prologo è ambientato addirittura vent’anni prima, e il giovane Indy ha il volto morituro del giovane River Phoenix. Il quarto film, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (2008), fa un salto temporale fino al 1957 e vede Indy alle prese con gli agenti sovietici guidati da Irina Spalko (Cate Blanchett), interessati a un misterioso teschio di cristallo che nasconde un segreto alieno. Il quinto film, il nostro Indiana Jones e il quadrante del destino (2023), si svolge come abbiamo detto in parte negli anni ‘40 e in parte nel ‘69.
Ma Indiana Jones sfida il tempo anche in un altro senso: quello della sua popolarità e della sua influenza culturale. Infatti, nonostante i lunghi intervalli tra i vari film (19 anni tra L'ultima crociata e Il teschio di cristallo, 15 tra quest'ultimo e Il quadrante del destino), Indy è rimasto sempre vivo nell'immaginario collettivo. Grazie anche ai numerosi prodotti derivati che hanno ampliato il suo universo narrativo: videogiochi, libri, fumetti, giocattoli, persino parchi tematici. Il successo di Indiana Jones non si limita al personaggio, ma si estende a tutto il franchise che lo ha reso famoso. Se la saga cinematografica ha incassato complessivamente oltre 2 miliardi di dollari in tutto il mondo, ricevendo anche numerosi premi e riconoscimenti, il franchise si estende ben oltre i film. C’è la serie televisiva intitolata Le avventure del giovane Indiana Jones (1992-1996), che racconta le vicende di Indy da bambino e da ragazzo. C’è la vasta produzione di romanzi basati sui film o su storie originali, oltre ad altri dodici storie ambientate prima dei film. Ci sono i fumetti, pubblicati fin dal 1983. E poi, tanto, tantissimo, ci sono stati i videogiochi, altro settore in cui il franchise di Indiana Jones ha avuto un grande successo: dal 1982 al 2009 sono stati distribuiti numerosi titoli basati sul personaggio, sia fedeli ai film che con trame originali. Videogame che hanno avuto il merito di mantenere ed espandere la fama del personaggio anche durante gli anni ‘90, decennio senza film della saga. Tra i più famosi, Indiana Jones and the Fate of Atlantis (1992), un'avventura grafica in stile LucasArts. Fino ai più recenti (2008 e 2009) due giochi in stile Lego che ripercorrono i film della saga. Un nuovo videogioco su Indiana Jones è attualmente in sviluppo.
Indiana Jones, insomma, è il perfetto esempio di quella propensione alla serializzazione spinta che segna così tanto della nostra cultura contemporanea. Con la sua dilatazione dei tempi (di nuovo, il tempo) che altro non è che una espansione smisurata dello spazio del racconto. Non serve, in effetti, essere una serie tv per partecipare della dimensione della serialità d’oggi, del super racconto orizzontale capace di proseguire per anni, a volte decenni; o persino di riprendere da dove si era interrotto, 10 o 15 o 25 anni prima (Twin Peaks, The Kingdom, Arrested Development, X-files…). Anche una saga cinematografica, o meglio ancora un franchise, partecipa della stessa logica, della stessa dimensione.
Ma che poi, diciamoci la verità – non è mica una storia nuova. Abbiamo citato i serial cinematografici. C’è tutto lo sconfinato universo del feuilleton, del romanzo d’appendice. Ci sono le saghe medievali di così tanti paesi e culture. E c’è, come indicavamo in apertura, quel corpus immenso di racconti, avventure, eroi che chiamiamo poemi omerici. Opere collettive, cresciute e canonizzatesi nel tempo, pensate per essere ascoltate in gruppo, una sera dopo l’altra, a puntate, con i loro colpi di scena, lo sviluppo lungo, lento, paziente. Al decimo ascolto consecutivo, l’ormai immortale tema musicale di Indiana Jones composto da John Williams può far venire l’orticaria – ma avete provate davvero a leggere l’Iliade, o l’Odissea, tutte assieme, con quelle formule che si ripetono infinite volte, gli epiteti, i fraseggi, retaggio della precedente struttura orale e, appunto, episodica di un’opera fluida?
Ah, certo, e poi c’è quell’altro piccolo aspetto legato al Tempo, e anche qui il trionfo di Indiana Jones e il quadrante del destino può dirsi infine completo: la sua traducibilità in amore. Altrimenti detto, il tempo è un fattore anche in termini di investimento, e quindi di legame, emotivo: più ne abbiamo speso attorno a qualcosa, più quel qualcosa ha valore per noi.
Come facciamo a non amare come un fratello, come un amico intimo, un personaggio con cui abbiamo passato tanto tempo, anni e anni della nostra vita, in avventure consequenziali e diacroniche, aperte, tendenti a un fine ma infinitamente capaci di differire la fine? Un personaggio che, mentre noi crescevamo, ha saputo sconfiggere il tempo e restare lo stesso?
È una promessa troppo grande, troppo riuscita, troppo felice di immortalità.