Here, il luogo del cinema

30 Gennaio 2025

Dimenticare è più facile che ricordare, perché è spontaneo e spesso anche utile alla vita, questa gaglioffa. Ricordare è un esercizio faticoso e artificiale, come nuotare controcorrente o trattenere le cose che cadono e che, nonostante gli sforzi, cadranno comunque. Dimenticare, però, non succede in un colpo solo. La vita sparisce un po’ alla volta. Prima di essere annientata, va in pezzi e, se ne approfittiamo, può darsi che alcuni frammenti del passato restino impigliati nella rete. Dove? Qual è il posto in cui il tempo, invece di scorrere impietosamente, torna su se stesso in modo che le sue parti si presentino insieme?

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Robert Zemeckis (a sinistra) con Tom Hanks e Robin Wright.

Qui, Here, che è il titolo del film di Zemeckis in cui rivediamo le principali situazioni del suo cinema: il passare degli anni che dà forma alle persone e ai luoghi (Ritorno al futuro, Forrest Gump), i legami che superano le distanze (Contact), la volontà di dare un senso al destino cinico e baro (Flight, Cast Away). Se Chi ha incastrato Roger Rabbit e The Walk sfruttavano tecnologie per l’epoca avveniristiche come disegni animati che interagiscono con attori in carne e ossa oppure il 3D, Here – che il regista, con l’aiuto dello sceneggiatore Eric Roth, ha tratto dall’omonimo graphic novel di Richard McGuire – fa segno alle origini della settima arte, quando la macchina da presa veniva montata su un treppiede e lasciata immobile. “Qui” è il soggiorno della casa nel New Jersey dentro cui si svolge l’intero film che consiste di un’unica inquadratura attraverso la quale sfilano le vite di quattro famiglie, dall’inizio del Novecento fino ai giorni nostri. Alle volte facciamo fatica a riconoscere la stanza perché l’arredo cambia completamente, restano uguali soltanto il caminetto e la grande vetrata che dà sulla strada. Forse c’è anche un’altra cosa che cambia poco o nulla: la vita degli abitanti. Per quanto appartengano a generazioni diverse, hanno più o meno le stesse speranze, ambizioni, sogni, e quello gli sembra il posto giusto per realizzarli. Ma è davvero così, o si stanno sbagliando? Tutti dovranno ricredersi e andarsene.

Il marito della prima coppia è un fanatico del volo e ha scelto l’appartamento perché è vicino al nuovo aeroporto. Morirà abbastanza presto, non schiantandosi eroicamente al comando del suo apparecchio – come aveva sempre temuto la moglie, una petulante suffragetta – ma per una prosaicissima spagnola, l’epidemia influenzale del 1919. Poi arriva una coppia bizzarra, lei è una pin-up da calendario, lui un inventore gioviale e ciccione: faranno armi e bagagli verso la più promettente California. Gli ultimi ad abitarci sono una famiglia di neri ricchi che decidono di traslocare dopo che la domestica messicana muore di Covid. Nel mezzo, tra il 1945 e l’inizio del 2000, ci sono due generazioni della famiglia Young, quella a cui lo spettatore si affeziona di più: i genitori sono Rose (Kelly Reilly) e il marito Al (Paul Bettany), veterano di guerra che fa il venditore e deve viaggiare molto ma meno di quanto gli piacerebbe. E quando è in ballo una promozione viene sistematicamente scavalcato dai colleghi. Non perché sia troppo mite, anzi, si capisce che è un tipo volitivo e, da vecchio, un gran rompiscatole. Ma la vita spesso è ingiusta, e lui non ci può fare niente. Poi c’è il loro primogenito, Richard (Tom Hanks), che ha il talento del disegno ma, purtroppo o per fortuna, a diciotto anni mette incinta la fidanzata Margaret (Robin Wright) ed è costretto a trovarsi un lavoro serio e abbandonare i sogni di gloria, come il George Bailey de La vita è meravigliosa. Però, mentre George ha carisma e tanti amici e riesce a mettere da parte i soldi per farsi il nido d’amore, Richard è abbastanza scialbo, inoltre guadagna poco, per cui gli tocca di abitare con i genitori fino a quando è maturotto, con una moglie che all’inizio gli dice: “vorrei vivere qui tutta la vita!” ma è meno convinta ogni anno che passa. Cosa succede alla famiglia allargata degli Young? Le cose che capitano agli altri: l’amore, che all’inizio è di un colore rosso fuoco, si trasforma in un rosa pallido e diventa prima sopportazione, poi insofferenza. Il lavoro che non ci è mai piaciuto diventa abitudine. È un bene o un male? È così, e basta.

Time flies, il tempo vola, dicono i personaggi, e potrebbe essere il sottotitolo del film. Girando lo sguardo all’indietro, vedono che la vita è passata in un lampo. Difficile dargli torto. La colpa non è solo del tempo ma anche nostra. Siamo così poco attenti a quel che succede adesso, e così intenti a quello che verrà dopo, che le cose durano meno di quanto potrebbero. “Scusami se non ho fatto altro che preoccuparmi” dice Richard a Margaret. Ma è troppo tardi, infatti lei lo ha già lasciato. D’altra parte, le cose le capiamo dopo che sono finite, oppure quando diventano impossibili. Arrivata al cinquantesimo compleanno, Margaret abbozza un sorriso di circostanza e poi, tra le lacrime, dice quello che tutti abbiamo pensato almeno una volta: quando ero giovane… quando ero giovane volevo fare tante cose, e invece non ho studiato, non ho mai visto Parigi in primavera, non ho mai fatto questo e quest’altro, perché credevo che avrei avuto tempo.

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La storia non viene raccontata in modo lineare ma facendo dei salti, rimescolando le carte: dagli Young si torna indietro verso la coppia con l’inventore, poi si va avanti per vedere cosa succede alla famiglia dei neri, poi di nuovo a ritroso verso l’aviatore che morirà d’influenza, e poi la giostra ricomincia. Le transizioni sono fatte usando una cornice mobile che ritaglia parte dello schermo, nella quale vediamo il passato oppure il futuro. Ogni volta la cornice incastona dentro il presente le persone e le cose che sono state oppure saranno. L’effetto è che, appartenendo per qualche istante alla stessa immagine, situazioni molto diverse finiscono per equivalersi. A un certo punto il padre, Al, cerca la complicità del figlio, Richard, nell’unico modo in cui i padri sanno fare queste cose, il più maldestro e controproducente, confessandogli una sua avventura. “Papà, perché lo vieni a raccontare proprio a me?” Gli danno il cambio l’inventore e la pin-up che ascoltano un tango alla radio e usano il soggiorno come pista da ballo, innamoratissimi. Che differenza c’è tra un ménage e l’altro? La passione travolgente dei neosposi è poi così diversa dal trantran quotidiano con il suo corredo di scappatelle? Siamo molto convinti che certe cose valgono la pena, altre no: esistono il grano e il loglio, ci sentiamo obbligati a scegliere, e così l’esistenza si separa da se stessa e diventa una condanna ai lavori forzati. Invece, al cinema tutte le cose sono uguali e ugualmente belle. Le nostre vite senza capo né coda, il cinema le prende e ricompone dentro un grande mosaico che fa la felicità dello spettatore, cioè uno che, almeno per un paio d’ore, può permettersi il lusso di non vivere.

In Here non c’è un presente assiale, un punto fermo attorno al quale ruotano il passato e il futuro, perché ogni momento è un flashback e un flash-forward. In realtà questo significa che c’è un unico, grande, presente esteso che comprende tutto. Il passato smette di scivolare sul piano inclinato del nulla, il futuro non aspetta al varco per terrorizzarci, e il presente si dilata in avanti e all’indietro per dare un posto a ogni cosa. “Qui” è uno spazio totale, che non è nemmeno il soggiorno della casa, perché ci viene mostrata anche la radura dove Benjamin Franklin e suo figlio si aggiravano in carrozza quando la casa ancora non c’era, e poi due pellerossa che amoreggiano molto prima che sbarchino i Padri Pellegrini, e vediamo anche i dinosauri che si rincorrevano sulla pianura quando gli esseri umani non esistevano, e la tempesta di fuoco che quei dinosauri ha sterminato, e la distesa di ghiaccio che quel fuoco ha spento. “Qui” è l’inquadratura del film, lo spazio del cinema che, nonostante tutto, trattiene e ricorda tutto, anche il dolore, il fallimento, l’impazienza, ma privati del peso che ci schiaccia a terra, diventati un racconto fatto di luce e di indistruttibilità: “l’unica cosa che valga la pena, Miss Rossella O’Hara! L’unica cosa che duri”.

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