Verso la fine del mondo / Leggerezza e catastrofe degli anni ’80

11 Dicembre 2019

Gli Ottanta sono l’ultima decade che siamo riusciti a caratterizzare in modo preciso. A confronto, i Novanta e i primi vent’anni di questo secolo ci appaiono nebulosi, non hanno ancora un profilo stabile. Gli Ottanta, invece, li ricordiamo con chiarezza: è il tempo del reaganismo rampante e degli yuppies, del fashion e della musica pop. La cocaina prende il posto dell’eroina e, oltre alla televisione, molti si procurano un personal computer. Con il suo libro, Filosofia degli anni ’80. Verso la fine del mondo (il melangolo, Genova 2019), Tommaso Ariemma attraversa i paradossi di quegli anni e ci aiuta a cogliere l’anima degli Ottanta dietro il molteplice dei fenomeni. È un’anima mobile e vibrante, perché l’esperienza fondamentale degli Ottanta è la leggerezza: ciò che ha potuto «scandalizzare, se non addirittura ferire» le coscienze dei contemporanei è stata la perdita di peso delle cose, il loro cominciare a fluttuare e volare attraverso lo spazio.

 

Da sempre le cose circolano, fluttuano e volano, ma non tutte le epoche sono pronte a celebrarne gli spostamenti e il dinamismo con la stessa convinzione. Negli Ottanta è lo statuto della “cosa” a cambiare: le cose diventano dispositivi capaci di far accedere qui e ora a una realtà nuova. La pubblicità investe la merce di un potere cosmogonico, l’acquisto di un bene rende possibili i viaggi da fermo di cui fino a quel momento avevano fatto esperienza i lettori, i drogati e gl’innamorati, «ogni cosa – una scarpa, uno zaino, un orologio – era pronta a trasportarti in un altro mondo». Le cose sono scatole magiche, «niente era quello che diceva di essere: la sua potenza era lì, pronta a manifestarsi. Bisognava solo sprigionarla, proprio quando tutto sembrava perduto o irrealizzabile». Le merci e le icone più seducenti aprono su mondi ibridi che non conoscono i divieti e i vincoli della tradizione: United colors of Benetton fa indossare un maglione per togliere di mezzo le barriere razziali e generazionali, Michael Jackson inventa una umanità che non vuole essere bianca oppure nera, maschile oppure femminile, adulta oppure bambina. 

 

Le cose rendono accessibili mondi lontani e le informazioni diventano i flussi che insieme tessono il World Wide Web, la rete globale del contatto che, nata per scopi militari qualche anno prima, comincia a diventare di accesso pubblico grazie al modem per la linea telefonica. L’immediata disponibilità dello spazio, la sua contrazione prodotta dai nuovi dispositivi tecnologici viene fatta subire anche al tempo, se non altro in modo fantastico: i viaggi nel tempo – uno dei soggetti preferiti dal cinema degli Ottanta – permettono di intervenire sul proprio passato o sul futuro, soddisfano immediatamente il desiderio di immischiarsi nella vita degli antenati o dei discendenti, quelli che abbiamo ma anche quelli che avremmo potuto avere, «come se l’immaginario avesse la stessa consistenza della Storia». 

 

 

Far incontrare i mondi più distanti, scombinare l’ordine del tempo per creare passati, presenti e futuri alternativi, dare all’immaginazione lo spessore della realtà e alla realtà l’inconsistenza dell’immaginazione, fa pensare a un’esistenza dongiovannesca e spensierata: «No hate, no fight, just excitation / All through the night it's a celebration» cantava Freddie Mercury e non è un caso se oggi quegli anni si impongono come ambientazione preferita dei film che devono suggerire un’atmosfera di party permanente. Gli Ottanta, però, conoscono una loro malinconia: il mondo si fa più interessante ma insieme più piccolo. È come se l’imprevista ressa di cose, menti e immagini soffocasse lo spazio e concentrasse il tempo in un punto. Al piacere della vicinanza e della contaminazione si accompagna l’angoscia per uno spazio troppo pieno e un tempo troppo breve, le cose e le immagini si accumulano e fanno massa negli schermi, nelle strade, nella testa. Serve qualche cosa che dilati nuovamente lo spazio e il tempo, ed è per questo che spesso il contenuto dell’immaginario anni Ottanta è la deflagrazione di una bomba, una catastrofe militare o (più raramente) un disastro naturale.

 

La leggerezza che aveva convocato assieme le parti più eterogenee della realtà deve lasciare il posto a un’esplosione, una dissipazione, una polverizzazione del mondo. Forse perché troppe cose si sono incontrate e si sono scambiate, adesso «ogni cosa sembra sfuggire al controllo». Ci si accorge che con i flussi non viaggiano solo merci e informazioni ma anche «elementi radioattivi e in generale tossici, virus». La contaminazione può avere un aspetto distruttivo. L’esplosione e la disgregazione compensano in un attimo la contrazione delle distanze nel nuovo mondo. Gli Ottanta si lasciano ipnotizzare dalla paura che l’unico modo per riaprire lo spazio è lacerarlo. Perché la realtà riguadagni spessore sembra necessario passare attraverso una apocalisse. La rete del contatto tessuta di giorno, quando si mette a sognare sogna la propria distruzione.

 

Ariemma cita le Lezioni americane preparate da Calvino nel 1985. Una delle domande che animano le lezioni è in che modo la produzione e la distruzione si combinano assieme. Per Calvino la distruzione accompagna sempre la produzione: i corpi finiscono per incontrarsi e allearsi nel “caso” cosmico che coinvolge la materia, ogni cosa «precipita senza scampo in un vortice d’entropia, ma all’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva». La leggerezza guida le combinazioni tra elementi disparati, dà vita a patchworks, fa comunicare parti della realtà che prima si ignoravano, ma la ressa delle cose si sfalda con la stessa facilità con la quale si è formata. Gli Ottanta riscoprono una antica potenza della materia: la solitudine e il distacco di cui sono fatti gli atomi. I «bits senza peso» sui quali parole e immagini scorrono assomigliano agli atomi della filosofia greca. Gli atomi si aggregano e in questo modo formano le cose ma non aderiscono così strettamente gli uni agli altri da non riuscire a staccarsi. Gli atomi possono sempre deviare, prima o dopo essersi incontrati, prima o dopo aver formato un aggregato. Il clinamen determina l’intera esistenza dell’atomo ed è la deviazione a «garantire la libertà tanto alla materia quanto agli esseri umani».

 

La stessa forza che ha avvicinato le parti, le può anche allontanare. L’immaginario letterario e cinematografico degli Ottanta, infatti, non celebra soltanto l’ibridazione ma anche il distacco: la solitudine della vita metropolitana è al centro dei romanzi di Bret Easton Ellis e Jay McInerney, Il raggio verde di Rohmer racconta il rifiuto di appassionarsi per le stesse cose per le quali si interessano gli altri, Paris, Texas di Wenders racconta l’amore che può nascere soltanto dalla distruzione dell’amore. Piccole catastrofi e solitudini quotidiane che rendono possibile al mondo di respirare, dilatarsi, scomporsi. Il mondo nel quale l’attrazione si rovescia in repulsione e il vincolo in libertà, non ha bisogno di conflagrazioni o bombe per aprire il proprio spazio e disperdere gli elementi che si sono raccolti insieme. 

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