RuPaul’s Drag Race in chiaro / Lettera alla nazione drag

26 Gennaio 2022

«Signori, accendete i motori e possa la migliore drag queen vincere»: come dai megafoni di una gara automobilistica, la voce di RuPaul Charles sprona le concorrenti del proprio show a mostrare la loro arte – e la versione migliore di loro stesse – davanti alle telecamere. 

RuPaul’s Drag Race è un reality, nato nel 2009 e divenuto cult negli Stati Uniti, in cui diverse drag queen (cioè artiste che invertono e parodizzano l’idea di genere) si sfidano a colpi di recitazione, ballo e altre performance cucite nel tessuto della sottocultura drag.

 

Dopo dodici anni, anche l’Italia ha visto sbarcare la competizione drag più famosa al mondo sui propri schermi; prima in maniera esclusiva, solo per il fandom che era disposto ad abbonarsi a Discovery Plus, e, dal 9 gennaio, aperta al grande pubblico su Realtime: la vita del programma sembra quasi ripercorrere la storia della sottocultura drag, inizialmente amore proibito per pochi e lentamente fagocitato da una certa corrente mainstream progressista, ma pur sempre capitalista. Pensiamo anche solo all’idea di competizione: “vincente” e “perdente” sono parole vuote quando diventano timbri su delle performance come quelle drag, dalle implicazioni filosofiche e sociologiche. Come si misura quanto bene si sta ironizzando sul genere? O l’impatto profondo di questa ironia sul singolo o sulla collettività?

 

Il reality è stato esportato in diverse nazioni che, a parte alcuni casi, hanno assistito a un impoverimento della propria identità performativa specifica in favore di una standardizzazione di matrice statunitense. 

Il discorso vale parzialmente per l’Italia: l’edizione ha rispettato il gusto nazionale -e la parafilia televisiva- per la spettacolarizzazione del dolore e del privato. Impossibile non notare i suoi grossi blocchi narrativi, slegati dalla competizione e accompagnati dal pianoforte, dal sapore melodrammatico (non che gli Stati Uniti abbiano un rapporto sano col pietismo mediatico, ma forse la tradizione D’Urso ci ha segnati più di quanto riusciamo a percepire dall’interno, o magari la spettacolarizzazione dell’intimità statunitense ci risulta più ricercata e coesa con il resto della narrazione). La versione italiana è stata per questo ampiamente criticata, o peggio ignorata, dal nutrito fandom internazionale dello show di RuPaul, abituato a seguire tutte le edizioni: l’ha giudicata raffazzonata, noiosa, cheap

 

Una delle concorrenti dello spettacolo, l’artista e circense Ava Hangar, ha letto una propria lettera su Instagram, a mo’ di discorso alla Nazione, in risposta al boicottaggio dell’edizione italiana da parte del fandom estero. «Forse vi aspettavate che fossimo tutti discendenti della House of Gucci o Versace»; sorretto dalla sensibilità camp, quindi dal fascino per l’ironia, il polimorfo e l’artificio, Ava gioca sul fatto che l’estero sia stato imbarazzato dalla povertà dell’Italia, come fossimo innamorati del cheap

Cosa ci ricorda? D’ora in poi, parlando degli spettatori del reality, li potremo immaginare in quei cinema underground di quarant’anni fa, davanti un double feature: due film, considerati cheap ma adorati anche per questo, proiettati al prezzo di uno. L’audience di cui Ava è portavoce si riflette in un valore altro del prodotto rispetto a quello economico. Il camp d’altronde è costruire un valore esagerato attorno a ciò che naturalmente non ne ha, un diamante, come dice il comico Kenneth Williams. E la Race italiana è, in quest’ottica, camp e vicina a double feature come il Rocky Horror Picture Show in cui si prendeva parte a un rito collettivo, una liturgia.

 

Come un cult non è “soltanto” un film ma un oggetto di venerazione e amore oltre ogni razionalità, Drag Race Italia non è “soltanto” un nuovo patinato prodotto alla Realtime, è una rivoluzione camp che scoppia a partire dall’audience e di cui la lettera dipinge, per forma e materia, alcuni suoi livelli di profondità.

Innanzitutto, ci ritroviamo davanti alla demolizione delle gerarchie tra intrattenitrice e pubblico, vedere ed essere. «Cara famiglia queer internazionale», a torso nudo e un leggero trucco sul viso, esordisce così Ava. La lettera non è indirizzata ai suoi fan, non viene letta da lei in veste di concorrente dello show, ma come corpo queer e parte dell’audience del programma stesso.

 

Ava è Riccardo, persona e personaggio, spettatore e regina. Questo scardinare i ruoli artistici, lontani dall’essere gabbie, è presente in diversi spazi legati alla Race italiana: pensiamo agli eventi milanesi di visione collettiva degli episodi in un “bar sport”, un luogo abitualmente frequentato da persone aliene alla comunità LGBTQIA+ a cui viene dato un nuovo significato.

 

 

Le serate venivano presentate da due drag performer (Fay Skifo e Trapezia Stroppia) che intervistavano le ospiti, partecipanti al programma, e amplificavano la voce del pubblico presente e anche i loro corpi: infatti una buona percentuale delle persone presenti si è mostrata in drag, attraversando fisicamente la membrana tra schermo e realtà. 

 

«Ora che la prima stagione è finita», recita Ava/Riccardo, pur sapendo che la maggioranza degli italiani non l’ha ancora vista perché a pagamento: si sta rivolgendo al fandom, al cultista, all’amante, al membro di una comunità di cui sposa linguaggio, usi e rituali. La Race ha unito come un segreto collettivo e una pratica condivisa.

Le puntate non si guardano a casa da sole e, se non vengono viste durante gli eventi sociali nominati, diventano una scusa per aprire le porte della propria casa all’altro e creare comunque uno spazio comunitario e ritualistico di cui sentirsi fondamenta. 

 

A casa di amici, in un bar o in videochiamata, il fandom ripete le frasi tormentone del programma, come il “nun facit’ strunzat” della presentatrice Priscilla, quasi seguendo un copione, una preghiera; indossa i panni del giudice dei vari abiti presentati dalle performer in passerella e spesso ne discute sui social; in maniera spontanea costruisce un’analisi intermediale e transnazionale del drag e la condivide con chi gli sta a fianco. Chi ha guardato Drag Race Italia ha coltivato il gusto per l’ipercitazionismo, alimentato anche dai molti riferimenti pop riconoscibili del programma e dell’arte drag in generale, non è un caso che l’appropriation art a cui si lega la performance drag venga tradotta in italiano con “citazionismo”. Il senso estetico drag è stato una bandiera di identificazione e appartenenza nonché un solvente della moralità. La spettatrice non è soltanto collaborativa ma perversa, si allontana quindi dalle norme socio-cinematografiche precostituite e non rispetta la divisione tra arte e società.

 

Ma la liturgia camp è anche gestualità, corporeità, esserci nel presente; gli amanti della Race sono reali, immersi nell’Italia del  2021. «Dovete considerare che il drag in Italia non ha ancora goduto della notorietà che ha raggiunto in altri Paesi più attenti a questi linguaggi artistici», la performer/spettatrice Ava situa il proprio discorso nella realtà. Come la sensibilità camp suggerisce, vi è un forte contrasto, nato sotto il segno dell’ironia, che intercorre tra l’individuo, che s’identifica nel gruppo di cultisti, e il contesto in cui è gettato; lo stridere tra questi due microcosmi costituisce una critica fattuale al mondo così com’è. Il singolo spettatore/performer è pubblico intero, il pubblico è società e la proiezione collettiva è un evento che va oltre l’intrattenimento: prosegue infatti la tradizione camp dei riti di intensificazione, cioè, a livello antropologico, una cerimonia inscenata da un’intera comunità in un momento critico e che chiama in causa la comunità nella sua interezza.Qual è il momento di crisi che stiamo vivendo?

 

«Drag Race Italia è stato confezionato così perché il target più importante sono gli italiani stessi.» Una tra le prime pubblicità del programma profetizzava l’arrivo di un’Italia «di tutt’altro genere» grazie al drag; è comparsa sui quotidiani in reazione all’affossamento del DDL Zan al Senato, giorno in cui diversi politici hanno applaudito con la convinzione di aver vinto contro un’ideologia gender (invece hanno festeggiato solo la paura quotidiana di alcune persone). Nonostante non si debba dimenticare dei vantaggi del prendere posizione da parte del network, tale narrazione ha reso coesa la famiglia dei cultisti di Drag Race Italia ancora prima che iniziasse.

 

La famiglia non ha accolto soltanto gli amanti del drag e del reality e la comunità omosessuale e trans a cui si lega a doppio filo la storia di quest’arte, ma anche chi è inorridito davanti alla scena in Parlamento e avrebbe voluto posare un mattone per edificare questa “Italia diversa”. Chiunque può farlo. Infatti, se da un lato il drag è una sottocultura connessa a persone discriminate per motivi di genere e, in quanto tale, risulta un fenomeno politico; dall’altro la necessità di essere Altro e di parodizzare le apparenze preconfezionate dalla cultura è aspaziale e atemporale, dunque universale e impolitica. Creare una comunità attorno al drag in Italia significa far convivere la polarizzazione politico/impolitico e situarsi in questa contraddizione; i corpi del pubblico non vengono abbracciati solo se parte della comunità LGBTQIA+, l’importante è non prendere troppo sul serio le definizioni, i dogmi sociali, la fissità delle identità.

 

«Siamo queer e siamo qui», termina la lettera di Ava; la frase è un noi, al presente, ironica e camp con la sua assonanza.

Senza dimenticare le lacune del prodotto e, certo, senza dimenticare che Drag Race sia un prodotto, proviamo a partire dall’unicità di questo programma: non risiede in esso ma nei rituali, nello sguardo e nei corpi – spesso in drag – di chi l’ha guardato, performato e l’ha reso uno spazio comunitario.

 

Per approfondire

Armando Rotondi, The rocky horror (picture) show: parodia camp del gotico tra Mary Shelley, J. B. Priestley e James Whale, in Chi ride ultimo. Parodia satira umorismi, Eds. E. Abignente, F. Cattani, F. de Cristofaro, G. Maffei, U.M. Olivieri, in “Between”, volume VI, n. 12 2016

J. P. Telotte, The cult film experience, University of Texas Press, 1991.

Andrew Sarris, Confessions of a cultist: in the cinema 1955/1959, Simon and Schuster, 1970.

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