Masque Teatro / Amor vacui. L’attore e l’assenza
«Assomigliano a sordi coloro che, anche dopo aver ascoltato, non comprendono; di loro il proverbio testimonia: “Presenti, essi sono assenti”». Questo frammento di Eraclito – tramandato nel libro V degli Stromati di Clemente di Alessandria – descrive una forma di «assenza» negativa. Vi sono persone che, pur essendo fisicamente presenti di fronte a qualcuno che sta rivelando loro qualcosa di importante ed eccezionale, risultano del tutto estranee alle parole dette. Esse scivolano su di loro senza produrre alcun effetto, ad esempio un avanzamento di conoscenza. Se applicassimo ora tale discorso oltre Eraclito, potremmo annoverare tra i “presenti-assenti” anche certi attori. Mi riferisco a coloro che, sulla scena, non sono in autentico ascolto dei loro colleghi e con il pubblico che è li pronto ad ascoltare, oppure che “recitano” la loro parte in modo inerte e morto. La loro “presenza” scenica è in realtà appunto una forma di assenza: parlano e agiscono, ma senza avere consapevolezza, attenzione e cura di quanto vanno dicendo/agendo. Non sarebbe così peregrino descrivere il loro comportamento riscrivendo il frammento eracliteo: «Assomigliano a muti gli attori che, anche dopo aver parlato o agito, non hanno comunicato o stimolato nulla; di loro il proverbio testimonia: “Presenti, essi sono assenti”».
D’altro canto, questa concezione assai intuitiva del rapporto presenza-assenza può anche essere rovesciata in senso positivo. Vi sono infatti attori e attrici (o più in generale artisti di teatro) che intendono il loro lavoro in termini di sottrazione e pulizia del gesto artistico, ossia che mirano a eliminare tutto il superfluo e a lasciare che, sulla scena, si manifesti solo qualcosa di essenziale. Il palcoscenico si trasforma, così, da luogo fisico dove il cosiddetto “io” di chi recita si espone e si mette in mostra, in uno spazio dove prendono vita visioni poetiche, che spesso hanno poco a che fare con la personalità o la biografia dell’artista. Ora, questo tipo di attore o attrice cerca, in altre parole, di mettere in scena un’assenza di sé. Egli crea un vuoto per far sì che “appaia” qualcosa di diverso da quello che lui conosce ed è normalmente, almeno per qualche secondo, allo sguardo e all’udito del pubblico convenuto. Per tali attori o attrici, il proverbio menzionato da Eraclito per attaccare i presenti-assenti andrebbe a sua volta adattato, stavolta per sostenere che la loro ricerca di questa “assenza” è in realtà una segreta forma di “presenza”. Infatti, facendo il vuoto intorno a sé e al proprio povero “io”, evocano visioni interessanti e profonde, che trattengono la nostra attenzione sulla scena. Di loro si dovrebbe insomma dire: «Assenti, essi sono presenti».
Entro questa seconda categoria di artisti “minimalisti” ed essenziali, che certo andrebbero studiati meglio, perché questa manciata di considerazioni astratte non rispecchia adeguatamente il loro lavoro, annovererei anche il collettivo artistico di Masque Teatro. Tra i loro più recenti spettacoli rientra, infatti, Just Intonation, ideato da Lorenzo Bazzocchi e andato di recente in scena al festival Crisalide XXIV: Il sole imprigionato. Esso va esattamente nella direzione di quell’“assenza” positiva che ho finora molto vagamente e impropriamente delineato. Con il seguito di questo articolo, spero di poter dare qualche utile elemento di spiegazione in più e, a partire appunto da Just Intonation, di elaborare delle considerazioni più generali sul senso profondo della poetica dell’attore “assente-presente”.
Vi sono due fonti di ispirazione di questo spettacolo. Il primo è il racconto La tana di Kafka, che in estrema sintesi racconta di un non specificato animale solitario che si costruisce, in alcune gallerie sotterranee, un luogo da cui proteggersi dagli attacchi di bestie predatrici più giovani e forti di lui. Esso è interpretato dall’attrice Eleonora Sedioli, che lungo tutto lo spettacolo non pronuncia una singola parola e, entro una scena fiocamente illuminata in cui si sente echeggiare senza sosta il vento, si impegna unicamente a compiere dei micro-movimenti sopra una grande arpa rotta, abbandonata sul pavimento.
Il secondo motivo ispiratore è la macchina, inteso da Bazzocchi in senso niente affatto deteriore. Siamo abituati ad associare questo termine a qualunque marchingegno tecnico dalle procedure ripetibili, automatizzate e prevedibili, dunque che non può generare nulla di diverso da quello che è stato preventivamente programmato a fare. (L’esempio più semplice è la catena di montaggio, che dà sempre luogo alla produzione di un oggetto in serie, a meno che non intervenga un errore o un inceppamento nella dinamica produttiva). Ma forse questa nostra abitudine linguistica andrebbe rivista: un processo ripetibile, automatico e prevedibile si attaglia di più a parole come “macchinario” o “meccanismo”. La macchina in sé può indicare, invece, qualunque strumento artificiale creato dall’uomo che ha, al contrario, la capacità di affinare ai massimi livelli una determinata facoltà naturale umana, facendole raggiungere una precisione e una cura altrimenti impensabili, se non persino irraggiungibili. (Per chiarire anche qui con alcuni esempi, si pensi al microfono che riesce ad amplificare la voce del cantante, o agli strumenti di igiene dentale, che arrivano a curare i punti delle gengive che le nostre dita toccherebbero a fatica). Nel caso di Just Intonation, la macchina è rappresentata da un pianoforte posto sulla scena. La sua tastiera è pilotabile a distanza e in remoto, dunque suonata in “assenza” di un pianista.
A unire queste due figure (= la bestia di Kafka e il pianoforte) interviene un “terzo” protagonista, che media le loro solitudini: la musica. Come infatti nell’originale racconto kafkiano l’unico elemento di contatto tra l’animale e il mondo esterno è costituito dai rumori / suoni che provengono al di fuori delle sue gallerie, che al tempo stesso gli impediscono di abbandonarsi al piacevole silenzio della sua tana, così nello spettacolo Just Intonation il corpo dell’attrice entra in relazione con la materia sonora, deformando sulla sua scia i suoi micro-movimenti abituali. Volendo supporre un rapporto biunivoco, potremmo aggiungere che anche il pianoforte, emettendo musica, entra in rapporto indiretto con la bestia. Esso a un certo punto suona per qualcuno e per accompagnarlo nella sua difficile ricerca di un movimento espressivo: prima era un pezzo di materia inerte, che accumulava su di sé marciume e polvere di anni.
Ora, questa relazione tra la solitudine della bestia con quella del pianoforte non va intesa sotto il segno della “presenza”. I due non cercano attivamente un’intesa reciproca, né tentano di imporsi all’attenzione dell’altro. Al contrario, bestia e pianoforte si trovano in due sistemi chiusi, perché sono unicamente concentrati sul loro compito di generare movimento e musica. Essi creano intorno a sé un vuoto e uno spazio privato, dove una qualunque invasione fisica improvvisa da parte dell’altro non farebbe che rompere l’incanto di quanto ha luogo sulla scena. Il loro incontro avviene, semmai, per puro caso. Non c’è intenzionalità nel loro trovarsi uniti o in contatto: semplicemente, questo contatto accade senza essere stato preparato. E in questo istante privilegiato, i due corpi riescono temporaneamente a sfuggire alla loro prigione e solitudine, seppure per ricadervi subito dopo. I corpi dell’attrice e del pianoforte perdono, grazie alla musica, il loro contorno e le loro forme, diventando a loro volta eterei come le note musicali. Da gravi e ingombranti enti imprigionati e isolati che erano, essi diventano per qualche attimo in tal modo sottili/leggeri, come un’ombra senza peso.
Se le notazioni elaborate sinora in merito a Just Intonation hanno un senso, esse ci dicono qualcosa di generale su cosa potrebbe essere la ricerca di una “assenza” positiva a teatro. Anzitutto, ciò potrebbe significare, in termini operativi, che l’attore o l’attrice non si costringono a far sì che l’incontro tra lui/lei e gli altri artisti, il pubblico, gli oggetti di scena abbiano per forza luogo. Egli o ella si impegna all’unica cosa che è in suo potere: creare una condizione di vuoto dove potrebbero aver luogo concentrazione e ascolto. Il resto è lasciato succedere spontaneamente, nella consapevolezza che costringere l’accadimento della relazione porta, spesso, all’impedimento del suo nascere. Inoltre, il confronto con Just Intonation apre la via per una possibile definizione del concetto di “assenza” a teatro. “Assentarsi” non significa affatto, per un attore e un’attrice, non essere calmo, attento e vigile sulla scena. Significa invece tentare di fare qualcosa che libera dai gravami dell’“io” cosciente, il quale è in genere una barriera fatta di pregiudizi, abitudini cognitive e resistenze, che precludono alle persone di incontrarsi e comunicare per davvero. Distruggendo questa scorza, sia pure per brevi attimi, il teatro si riverbera positivamente sulle nostre vite, aiutando gli artisti che si sono svuotati e il pubblico che ha potuto assistere al generarsi di questo vuoto a costruire meglio le loro relazioni, in un clima di maggiore condivisione e ascolto reciproco.
Ci sono tuttavia almeno due modi di intendere lo svuotamento che, se ho ragione, ha luogo a teatro in spettacoli come Just Intonation. Il primo è che gli artisti che attraversano la scena subiscono una trasformazione fisica. Se nella quotidianità quelli hanno necessariamente un “io” e alcune inevitabili opinioni pregiudizievoli, resistenze, ecc., nello spazio poetico del teatro riescono sul momento a perderli. La consueta debolezza della loro umanità viene per un po’ di tempo fuggita e obliata. Il secondo modo di intendere lo svuotamento riguarda, invece, l’atto conoscitivo dello spettatore. Quando diciamo che gli attori o le attrici hanno affatto attorno a sé un vuoto, forse si intende dire che la percezione dei membri del pubblico è stata affinata a tal punto dal processo artistico che questi riescono a concentrarsi sui ritmi e i movimenti che hanno luogo sulla scena, dunque a percepire tempo e spazio in modo “puro”. Mi pare, però, che questi due lati dello svuotamento non si contraddicano, anzi si implichino a vicenda. Gli attori e le attrici che svuotano fisicamente la scena di ciò che è ordinario o superfluo consentono al pubblico di concentrarsi. Viceversa, il pubblico – adottando la giusta concentrazione – accompagna e agevola il lavoro degli artisti, i quali riescono così temporaneamente a liberarsi della loro fragile umanità e di diventare espressione pura di visioni poetiche pure.
Da questa modesta e imperfetta analisi, potremmo derivare un ultimo spunto teorico. Siamo normalmente propensi a considerare il silenzio, la solitudine e il vuoto come realtà negative, ovvero a considerarle come condizioni di debolezza ed assenza di vitalità. Chi sta in silenzio è perché non è capace di parlare, il solitario consiste in chi non ha saputo procurarsi amori e amicizie, chi si è svuotato è colui che ha rinunciato all’incessante soddisfazione dei propri desideri. Il corrispettivo emotivo di questo atteggiamento mentale è condensato nella dicitura “orrore del vuoto”, horror vacui: la paura di trovarsi improvvisamente circondato dal nulla. L’artista minimale ed essenziale che lavora a teatro ci suggerisce, però, che può esistere anche una sorta di positivo amor vacui. Silenzio, solitudine, vuoto sono concetti-limite che indicano spazi o condizioni poetiche in cui, proprio perché non c’è o non accade “nulla”, allora si può dare manifestazione e movimento a qualunque cosa. Nella pienezza, può accadere solo quello che già c’è. Nel vuoto, può aver luogo l’inedito e l’imprevisto.
Si è detto (ammantandosi di una presunta autorità divina) che in principio il mondo cominciò con il verbo. Si è trattato di un grave errore, di cui paghiamo ancora le conseguenze. La ricerca più vitale va ora forse alla cessazione del verbo, con tutti i suoi rumori molesti e le sue menzogne perverse.