Un racconto della strage di Srebrenica

11 Luglio 2015

In questi giorni è mancato un amico, il grande giornalista e scrittore Luca Rastello. Non gli sarà concesso di vedere l'uso politico, ideologico e identitario che verrà fatto in occasione del ventennale della strage di Srebrenica dell'11 luglio 1995, un atto genocidario nel quale persero la vita circa ottomila uomini e ragazzi musulmani per mano delle milizie serbe di Ratko Mladić, i “cetnici”. Un episodio recente della storia europea che ci parla anche e soprattutto delle responsabilità delle potenze occidentali in quella guerra, dell'Unione Europea e delle missioni di pace dell'Onu. Degli “angeli”, i Caschi blu canadesi e olandesi che Luca ha raccontato ne La guerra in casa (Einaudi 1998), pubblicato a tre anni dalla fine del conflitto. Quasi vent'anni dopo, le sue parole sono ancora di sorprendente attualità.

 

Per ricordare Luca pubblichiamo alcuni stralci del libro, che ci restituiscono almeno in parte il suo sguardo lucido, lontano dalla retorica passe-partout e sempre accompagnato dai fatti: Luca riuscì a tirare fuori da quella guerra decine di persone, e ad aiutarle a costruirsi una nuova vita.

 

Eric Gobetti, Carlo Greppi

 

 

Dalla Premessa

 

A distanza di anni capita ancora che qualcuno ti chieda perché devi occuparti di questa gente e di quella guerra, e tu non sai trovare una risposta convincente: «Sono così vicini, sette o otto ore di viaggio da qui...». L'interlocutore tace perplesso e speri – con molta voglia di scappare – che non tiri fuori la solita frase imbarazzante che suona sempre più o meno così: «Siete da ammirare». «Ammirare», nel suo senso letterale, significa «guardare con meraviglia». E la meraviglia è riservata a ciò che si allontana da quel che è familiare, quotidiano. Come mostro capace di suscitare meraviglia ti senti a disagio.

 

Dal capitolo settimo

Gli angeli

 

A fine dicembre del '92 scattò la prima grande offensiva del corpo d'armata serbo che stringeva Srebrenica. Sotto attacco erano anche le due énclaves minori di Čerska e Konjević Polje. È qui che entra in scena l'eroe di Srebrenica, la leggenda del mondo occidentale, il generale Philippe Morillon. E incomincia l'epopea degli angeli dal casco blu.

 

Irfan la racconta così: «La prima volta, Morillon entra in città a fine febbraio, con dieci Caschi blu. È il primo che arriva dal mondo. Visita Srebrenica, parla con la gente. Poi se ne va a Čerska. Dice “Siete salvi”, mentre intorno cadono le granate dei serbi. Incita i civili di Čerska a trasferirsi a Srebrenica, si sgola, promette che là saranno protetti dalle Nazioni Unite. I serbi sono troppo forti. La gente ha già deciso di non combattere, quello se ne arriva e dice: “Andate a Srebrenica”. Un angelo. Chi è che non crede agli angeli?»

 

[…]

 

«Eravamo nelle mani del mondo, al cento per cento». Irfan usa sempre quella parola, «mondo», come un'ossessione: «Il primo incontro con questo mondo civilizzato è stato così: tutti piangevano, eravamo felici che qualcuno si fosse accorto di quello che accadeva a Srebrenica. Ma fuori non è uscito nulla: quel che accadeva da noi lo sapevano quei Caschi blu, ma le notizie se le tenevano». Se ne stavano per conto loro, i soldati di pace. Irfan dice che dal primo giorno, per strada si sentì la loro frase preferita: «You, muslim shit», merda musulmana. «Li vedevi tornare ubriachi dalle postazioni dei serbi, il loro colonnello pieno di grappa si divertiva a fare il saluto con le tre dita [dei miliziani serbi]. Dopo un po' erano i padroni della città, prendevano a calci chi chiedeva qualcosa, anche i bambini». Però erano bravi commercianti, e la città aveva bisogno di commercianti. Vendevano benzina, sigarette, cibo. A prezzi altissimi, l'unica cosa a buon mercato era l'immondizia: chiudevano la loro spazzatura in sacchi e vendevano i sacchi a dieci marchi l'uno. «La gente là dentro – dice Irfan – crepava di fame, i sacchi se li compravano eccome. Quelli che vendevano l'immondizia si toglievano la striscia di velcro con il nome dalla divisa. Se qualcuno chiedeva come si chiamassero rispondevano “Comandante Mark, Popeye, Capitan Miki”». Mentre Irfan parla, io penso che qualcuno, in quei giorni, avrà pensato «Maledetto capitan Miki, prima o poi ci incontreremo di nuovo...».

 

Almeno i caschi blu non ammazzavano la gente, come i cetnici: «Però quel poco che c'era da rubare lo hanno preso, prima le armi, poi i soldi... La gente vendeva qualsiasi cosa per la loro merda, oro, gioielli, tutto».

 

Un giorno i canadesi comunicarono ufficialmente che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva proclamato Srebrenica Zona Protetta (Zona Protetta, Consiglio di Sicurezza, Nazioni Unite: tutte maiuscole, come la Serbia di là dal fiume): «E quindi siamo salvi». Agli angeli blu erano assegnati compiti di interposizione: «Dicono proprio così, “interporsi”. Cioè prendono le nostre linee e poi si ritirano indietro di 500 metri, in certi punti un chilometro. Tutto intorno alla città. Linee che avevamo difeso con centinaia di morti».

 

[…]

 

A mano a mano che si avvicinava la scadenza del loro mandato, i Caschi blu si incarognivano. Insultavano le donne: «puttana» era la parola corrente, per donne di qualunque età. Un ufficiale aveva un dizionario e le sue proposte alle donne le faceva in un serbocroato da professore. Poi venne il giorno, finalmente, in cui i canadesi se ne andarono: «Il 50 per cento del territorio lo avevano regalato ai serbi». Nonostante l'assedio, la morte delle illusioni, qualcuno si aspettava ancora qualcosa dagli olandesi che subentravano. Ma quelli presentarono subito il loro biglietto da visita, arretrando le linee. Senza combattere gli uomini di Mladić arrivarono a 1500 metri dal centro della città. Al seguito dei nuovi angeli dalla testa blu arrivarono anche dei giornalisti, ma gli olandesi li tennero scrupolosamente lontani dai civili: «Dicevano loro che i musulmani sono fanatici pericolosi e impedivano di far foto o di girare nelle strade». Srebrenica continuava a essere nascosta.

 

[…]

 

A maggio del '95 in fretta e furia, e soprattutto in silenzio, gli olandesi fecero i preparativi per partire: caricarono materiali e alimenti, sgombrarono le postazioni, ultimarono le manutenzioni d'urgenza dei mezzi. Gli abitanti della cittadina se ne accorsero, li circondarono. Ci fu una trattativa con le autorità: «Non potete andarvene. Dove andate? Chi viene a sostituirvi? Non potete lasciarci soli. Li tenevamo lì all'aperto, gli angeli. Faceva ancora freddo di notte. Quasi un mese. Finché quelli cedono, smobilitano, scaricano dai mezzi e riprendono posto nelle loro basi».

 

Fu in quel periodo che giunse da Sarajevo l'ordine che sconvolge la mente di Irfan. Il comandante [dei musulmani bosniaci] Naser Orić doveva lasciare Srebrenica con ottanta uomini, quasi l'intero quadro ufficiali: «Io conosco solo la versione pubblica: Naser doveva uscire per organizzare un'offensiva alle spalle dei serbi». La difesa di Srebrenica, autorganizzata, non faceva capo a nessuno dei sei corpi d'armata dell'esercito bosniaco. L'autorità di Orić non rispondeva ad alcun comando centrale. Con l'ordine di Sarajevo, la direzione militare della difesa era decapitata. I militari lasciati a se stessi erano allo sbando, il clima si fece ancora più selvaggio. Si accendevano risse, soprattutto con gli olandesi, che giravano per la città a quattro a quattro, armati fino ai denti: «Se un civile si fa avanti, due picchiano e due tengono a bada la folla col mitra». È l'8 luglio, la tensione è alle stelle. Ma è finita.

 

A quella data, senza apparente ragione i soldati «di pace» abbandonano le postazioni in direzione di Zeleni Jadar. Alla mezzanotte e venti inizia il più intenso bombardamento di artiglieri nella storia dell'assedio. All'alba del 9 luglio, come tamburi, i megafoni dalle colline intimano la resa, annunciano l'arrivo delle «forze di liberazione». Lo stesso messaggio viene rilanciato ai civili dai Caschi blu olandesi. Il colonnello Ton Karremans, comandante dei «soldati di pace», convoca le autorità locali e i cittadini al Municipio per convincerli ad accettare la resa. In cambio gli olandesi si impegnano a portare i feriti nei territori controllati dal governo di Sarajevo. Alle 16 la resa viene rifiutata ed è avanzata la richiesta ufficiale alla missione Unprofor [United Nations Protection Force] di difendere la città. Alle 18 la richiesta è respinta. La resa è la sola soluzione, dicono gli angeli dalla testa azzurra. Perché i serbi stanno entrando in città. A mezzanotte la linea di difesa allestita dopo l'ultimo arretramento dei Caschi blu viene fatta smantellare: è annunciato un bombardamento della Nato sul settore di confronto. Ancora una volta la difesa bosniaca casca nel tranello: smantellata la prima linea è impossibile allestirne velocemente un'altra arretrata. Al sorgere del sole non c'è traccia degli aerei dell'Alleanza, i serbi sono in città. Entrano anche a bordo di blindati bianchi con le scritte blu UN, United Nations. Irfan dice: «Non sapevamo chi era che ci stava attaccando, non sapevamo neanche se difenderci o corrergli incontro». Si combatte tutto il giorno, casa per casa. Al sobborgo di Bibić l'offensiva di fanteria, supportata da tre battaglioni carri, si arresta. Sta scendendo la notte. L'artiglieria riprende a fare il suo lavoro. Davanti agli uomini di Mladić c'è la striscia deserta allestita dagli olandesi. La città è piena di morti, inondata di sangue.

 

All'alba del 10 luglio un reparto bosniaco armato di fucili leggeri si lancia contro le posizioni di Bibić. Dai posti di blocco olandesi escono i blindati dell'Unprofor che si gettano contro i difensori spingendoli in direzione di Potočari. Non sparano, ma travolgono. Secondo le cifre ufficiali le vittime civili, sotto i cingoli olandesi, saranno quindici. I civili ammassati vengono sospinti in direzione della strada per Bratunac, la maggior parte è ammassata al posto di Potočari. «Andavamo addosso ai serbi a mani nude», dice Irfan, il mio giustiziere: «A quel tempo ne avevo ancora due, di mani». I difensori non credono più ai Caschi blu, sanno che non ci sarà evacuazione, ma strage. La giornata prosegue fra scontri e ammassamenti di civili ad opera degli olandesi. Una colonna di cittadini di Srebrenica si prepara alla fuga. Alle quattro del mattino del 10 luglio qualche migliaia di persone si lancia per i boschi in direzione Tuzla. Il cerchio è spezzato verso Konjevic Polje, ma la colonna è bombardata e poi intercettata a Kamenica da un reparto corazzato forte di ventinove carri. Viene intimata la resa, tra i profughi si sparge il panico: «Ho visto con i miei occhi i gas, la gente impazzita dal terrore e loro con le maschere che si facevano avanti e li tagliavano a pezzi. Uno lo prendono e gli puntano il coltello alla gola: “Dov'è tuo padre?”, gli chiedono, “Non lo so”. “Chiamalo”. Lui grida: “Papà, papà”. “Vedi – gli dicono – com'è un padre musulmano? Se ne frega di te”. Gli tagliano la gola. Aveva nove anni. Cantavano, gridavano che non sarebbero vissuti in una jamahyria». A Tuzla arrivano seimila persone. Molti feriti gravemente. Nel viaggio Irfan perde il fratello e rimane mutilato del braccio destro. Dice: «Tutta la mia famiglia è morta, i miei amici, il mio paese, io. Non so se mi hanno ammazzato i serbi o il mondo civile – dice proprio così: “mondo civile” –. Per me è lo stesso».

 

[…]

 

Non è possibile ovviamente attribuire l'esplosione della guerra in Bosnia alle sole influenze straniere, ma è certo che senza la decisa volontà anglofrancese di contrastare l'espansione dell'interesse tedesco nei Balcani, la crisi jugoslava si sarebbe sviluppata in maniera ben diversa.

 

Il sangue versato a Srebrenica porta fra l'altro il marchio dell'Unione Europea. Ma porta anche la firma dei governanti di Sarajevo, poco interessati a Srebrenica, ma impossibilitati (per la rivolta popolare che ne sarebbe conseguita) a consegnare la città al tavolo delle trattative.

 

Non solo. I «piani di pace» occidentali, come si è detto, dal primo all'ultimo, prevedono un'omogeneizzazione etnica della Bosnia orientale, un processo che garantisce sì stabilità alla regione ma che non è realizzabile pacificamente. Anche solo per realismo politico, dunque, in vista della stabilizzazione di un'area di crisi, si tratta allora di «lasciar fare», di favorire in maniera invisibile «l'inevitabile corso degli eventi». È sufficiente dare una mano al più forte, legare un poco le mani al più debole e si realizza con le armi ciò che non può essere conseguito con la trattativa: la creazione di un confine stabile lontano, verso ovest, dalla Drina [fiume sul confine tra Bosnia e Serbia]. È in questa logica che l'istituzione delle aree protette acquista il senso di un congelamento di ogni iniziativa militare in difesa della convivenza multietnica. Creare sacche omogenee e poi scambiarle è anche un modo per realizzare la «stabilità» desiderata da coloro che gestiranno in futuro i mercati dell'area balcanica.

 

Da Luca Rastello, La guerra in casa, Einaudi 1998.

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