Fare storia collettivamente
Presentare i libri è un modo di conoscerli di nuovo. Dopo cinque anni di studio, domande, riflessioni, cambi di direzione, l’uscita di La morte, la fanciulla e l’orco rosso. Il caso Ghersi: come si inventa una leggenda antipartigiana (Alegre, 2022) non ha concluso i ragionamenti, che continuano a essere stimolati dalle presentazioni pubbliche e dalle recensioni. Per noi sono state altrettante occasioni per guardare il libro da altre prospettive, allargare la visuale e approfondire alcuni aspetti che nel libro non abbiamo trattato distesamente.
Le due questioni principali toccano l’ambito storiografico (la violenza insurrezionale della primavera 1945) e l’ambito sociologico (il sapere collettivo). Sono questioni che riguardano entrambe un modo diffuso di fare uso pubblico della storia, in cui il movimento di Liberazione è costantemente delegittimato e domina una narrazione anti-antifascista che ha a che fare con gli interessi del presente più che con la conoscenza del passato. In questo clima culturale saturo di miti e narrative ideologicamente orientate, il nostro lavoro intende promuovere un approccio critico e attivo alla storia pubblica.
Violenza insurrezionale e giustizia
La prima questione riguarda il rapporto tra la violenza insurrezionale del 25 aprile, per sua natura esplosiva, e lo sforzo del Comitato di liberazione nazionale (CLN) di imprimerle un ordine, quindi una forma di legalità (se ne occupa Marco Meotto nella sua recensione al nostro libro).
Sappiamo (il tema è stato studiato ancora di recente) che i crimini di guerra fascisti sono stati giudicati in prima battuta da una giustizia chiamata “di transizione”, esercitata nel periodo compreso tra l’insurrezione generale dell’aprile 1945 e il consolidamento del nuovo regime repubblicano. Prima dell’insurrezione è esistita anche una giustizia partigiana solitamente detta “di banda”, esercitata nel contesto della guerra di guerriglia, dunque per lo più decentrata al livello della singola formazione: le bande tenevano traccia scritta, per quanto possibile, dei processi che istruivano, ma proprio la fisionomia della guerra di guerriglia, e dunque l’esigenza di spostare spesso basi e sedi, rendeva difficile conservare integri questi verbali. A mezza via tra la giustizia di banda e quella di transizione, ma in vero già dentro quest’ultima, sta la giustizia “dell’insurrezione”, cioè la potestà repressiva esercitata mentre le articolazioni territoriali del CLN, di pari passo con la riuscita delle insurrezioni urbane, insediavano le amministrazioni temporanee. Il problema che si pone è allora questo: per studiare la legalità della “resa dei conti”, quali fonti usiamo, e come? Prendiamo il caso della morte di Giuseppina Ghersi (che trattiamo nel nostro libro) come esempio concreto, e quindi come paradigma.
Che la vox populi spiegasse l’uccisione di Ghersi con il suo ruolo di delatrice è sicuro. Ce lo dice in particolare un documento che pubblichiamo nel libro, e che a quanto ci è dato sapere era rimasto finora inedito: un’annotazione apposta nel registro della parrocchia di Santa Maria della Neve in Savona, in cui si legge, accanto al riquadro dell’atto di battesimo di Ghersi: «essa stessa si gloriava di averne [sic] fatti uccidere sette antifascisti».
Qui però bisogna fare una precisazione, per evitare fraintendimenti. L’omicidio della tredicenne savonese non è stato né ordinato né ratificato dal locale CLN. Dagli atti del processo risulta che un ordine della questura di Savona, emanato nei giorni della gerenza ciellenista, aveva deciso la liberazione della ragazza dal campo di raccolta e prigionia di Legino, dov’era detenuta insieme ai genitori, a causa dei legami con il fascismo locale. Poi, più nulla. A meno che si dimostri l’inattendibilità del dato, dunque, questo fatto di sangue non può essere ricondotto alla legalità insurrezionale che le articolazioni del CLN tentavano di garantire. Bisogna dunque tenere ferma la premessa che l’omicidio Ghersi è estraneo all’attività documentata del CLN e non si può che inserire in un clima di violenza extra-legale e sistemica che l’occupazione e la guerra anche civile avevano inoculato nella società. E si deve dire qualcosa in più.
Un caposaldo della versione della storia approdata sui media nazionali è che l’omicidio sia stato insabbiato e il suo responsabile assolto in esito a un processo sommario, al limite della farsa. La documentazione del processo per l’omicidio Ghersi, svoltosi tra il 1950 e il 1951, in buona parte conservata, attesta che il processo si è concluso nell’allora fase istruttoria (che precedeva il dibattimento un po’ come oggi l’udienza preliminare). Al termine dell’istruttoria il pubblico ministero aveva richiesto di prosciogliere l’imputato, Luigi Rossi, dal momento che all’omicidio di Ghersi si doveva applicare l’Amnistia Togliatti. La conclusione da trarne è opposta a quella che per decenni ne ha tratto l’estrema destra, poi echeggiata in modo apparentemente acritico dalla grande stampa. È nell’ipotesi migliore un abbaglio marchiano, nella peggiore un motivo di propaganda contro l’antifascismo, interpretare il processo Ghersi nel senso che un assassino comunista sarebbe stato salvato proprio dall’amnistia che il segretario del Partito comunista aveva voluto.
L’applicazione dell’Amnistia Togliatti, lungi dall’aver condannato all’oblio gli indicibili orrori dei partigiani, è stata invece un colpo di spugna sui crimini fascisti. La magistratura chiamata ad applicare l’amnistia, infatti, era composta in larga parte da giudici e pubblici ministeri che si erano formati professionalmente durante il ventennio e avevano servito lo stato fascista; rimasti per lo più al loro posto dopo il 25 aprile 1945, sul finire degli anni ’40 hanno cominciato a sfruttare l’ambiguità di formulazione del provvedimento di amnistia per mandare assolti o condannare a brevi pene detentive i criminali di guerra fascisti, mentre negli stessi anni si accumulavano le condanne, anche durissime, inflitte agli ex partigiani: questa comparazione è un tema classico degli studi sulla continuità dello stato (se ne trova ora una messa a punto eccellente nel libro di Chiara Colombini, Anche i partigiani però…). Quindi, una lettura del caso Ghersi storiograficamente fondata deve partire dal presupposto che l’omicidio è stato amnistiato non grazie all’intervento amico del Partito comunista, ma nonostante l’orientamento condiviso dalla magistratura del tempo, e a dispetto del modo in cui si risolvevano i processi coevi contro i partigiani.
Oltre a questo argomento generale, contro la tesi dell’insabbiamento bisogna fare anche un rilievo più specifico. L’amnistia si applicava non automaticamente ma previa indagine, nel senso che occorreva verificare se nel caso concreto esistessero i presupposti dell’applicazione: uno di essi era che il delitto non fosse stato particolarmente efferato. Ora, è agli atti del processo Ghersi che il pubblico ministero ha richiesto per l’imputato Rossi l’applicazione dell’amnistia, per la ragione che il delitto non aveva motivazione diversa dalla guerra civile in corso. Se non si dimostra che il tribunale di Savona ha applicato indebitamente l’amnistia, bisogna attenersi a quello che le fonti dicono: e cioè che il pubblico ministero ha svolto le sue indagini, che le sue indagini lo hanno portato a concludere che Ghersi è stata uccisa perché ritenuta una spia del nemico repubblichino, e che il movente esclusivo dell’omicidio fosse la guerra. E si deve ipotizzare, anche, che un omicidio feroce e odioso, come quello di cui racconta la versione neofascista della storia di Giuseppina Ghersi, ben difficilmente avrebbe potuto essere ricondotto al movente esclusivo del compimento di un atto di guerra.
Per riassumere, l’esito di questo processo è rilevante perché è per molti versi un’eccezione rispetto alla politica giudiziaria di quegli anni, tutt’altro che favorevole al partigianato. Dal punto di vista del metodo, è difficile andare oltre: non per pudore nel trattare gli aspetti più problematici dell’esperienza resistenziale, né perché sia vietato andare oltre le fonti (il feticismo della fonte è atteggiamento dell’antiquaria più che della storiografia). Non è possibile andare oltre perché, in questo specifico caso, ulteriori inferenze apparterrebbero al dominio della finzione e non della veridizione, scivolando dalla ricostruzione storiografica alla fiction.
La qualità sovvertitrice del “lavoro collettivo”
Arriviamo così al secondo punto di queste riflessioni. “Fare storia collettivamente” è l’esperienza che fonda il nostro gruppo di lavoro. L’aggettivo che ci pare maggiormente adatto per indicare la qualità della forza di Nicoletta Bourbaki è sovvertitrice, perché di fatto offre materialmente un esempio di lavoro collettivo in ambito storiografico che mette in critica (e in crisi, turbandone profondamente l’ordine) una prassi, ossia quella di una ricerca storica (e, in generale, sociale) sempre più prigioniera della tirannide dell’io. Questa definizione, che riprende il titolo del recente libro di Enzo Traverso, dà conto di un modus operandi che solo in tempi piuttosto recenti si è imposto in maniera tanto diffusa da rendere innegabile la forza della sua presenza. Risalire al come e al quando si sia avviato il processo che ha reso egemonica questa tendenza sarebbe importante, dato che permetterebbe di non cadere nel tranello della nostalgia per una fase virtuosa della pratica accademica, partecipata, seminariale.
Non può essere questo articolo lo spazio per risalire ai fondamenti di questa pratica individualistica della ricerca, vogliamo però provare a cominciare la risalita. Certamente un fattore determinante di questa deriva è da rintracciare nelle condizioni sociali strutturali delle società ad alta complessità e nel progressivo esaurirsi dei modelli elaborati dalla modernità per parlare della società. Possiamo qui, un po’ brutalmente, affermare che l’accademia fa l’accademia, come ha sempre fatto: l’età dell’oro dei seminari collettivi non è un bel tempo andato. È semplicemente un tempo diverso, in cui il lavoro collettivo era possibile perché l’università aveva una base sociale tendenzialmente più elitaria, era meno standardizzata dell’attuale e non era schiacciata su dinamiche competitive neoliberiste e, citando David Graeber, di «burocratizzazione totale». Che ci siano state punte avanzate non si deve dunque a un’università illuminata che ora non è più: si deve a persone che in università – corpo docente o studentesco che fosse – stavano in un certo modo, e con una certa libertà d’agire.
Nicoletta Bourbaki è anche questo: un tempo e uno spazio di lavoro altri – risultanti da uno sforzo continuo e mai definitivo nel nostro lavoro ormai decennale – rispetto a quelli che prendono forma sotto la pressione degli imperativi sociali del nostro tempo. Lo facciamo innanzitutto «prendendoci il tempo per capire, leggere, conoscere», come scriviamo nelle conclusioni di La morte, la fanciulla e l’orco rosso. E, come scrive Meotto nella sua recensione, praticando la ricerca storica come «militanza, accentuando la dimensione emancipante, pluralistica, soggettivante». Quello che possiamo dire sul tema, dopo più di dieci anni di attività, è dunque che, con fatica e continui aggiustamenti di rotta, fuori dall’accademia (e dagli altri ambiti istituzionali di ricerca, necessariamente più strutturati formalmente rispetto a un gruppo come il nostro) è ancora possibile “fare storia collettivamente”. Di più, fare lavoro collettivo per produrre sapere. E va almeno aggiunto – per non appiattire la dinamica di interazione tra esperienza personale e azione sociale – che a reggere il lavoro collettivo sono di fondamentale importanza fiducia e riconoscimento reciproco tra le singole persone che animano il gruppo, ma soprattutto è necessario sapere relativizzare la funzione di sé (e della propria conoscenza specifica) all’interno della dimensione collettiva.
Non è l’approccio interdisciplinare quello che meglio definisce il campo di confronto in cui sono stati prodotti i migliori contributi di Nicoletta Bourbaki, ma quello transdisciplinare: al contempo superamento delle singole discipline e definizione di un inedito e dinamico sguardo collettivo (che modifica, retroagendo, anche quello delle singole individualità che danno forma alla dimensione collettiva). È la postura intellettuale che ci ha, ad esempio, consentito di fare le precedenti considerazioni sulla violenza insurrezionale e sull’uso delle fonti giuridiche in una ricerca storiografica, considerazioni che difficilmente avrebbero potuto prendere forma a partire da una riflessione individuale o dal mero confronto interdisciplinare.
Anche di metodo ragioniamo, dunque, dentro Nicoletta Bourbaki. Nelle discussioni interne al nostro gruppo di lavoro c’è stato un momento in cui abbiamo tentato di dare “a uso interno” una definizione, per quanto idealtipica, di lavoro collettivo:
«Il lavoro collettivo non è solo la produzione collettiva di una ricerca, un’inchiesta o un testo, ma anche (e soprattutto) l’attività di un organismo pensante complesso, che non è la somma delle sue parti, ma piuttosto la totalità delle interazioni tra le sue parti – quindi qualcosa che sta a un livello discorsivo superiore. Il lavoro collettivo modella l’ambiente, il discorso, in cui la ricerca, l’inchiesta o il testo pian piano prende forma.»
È una definizione vicina a quella che Henry Jenkins dà di intelligenza collettiva in Cultura convergente (Apogeo, 2007), dove l’accento viene posto sul «processo sociale di acquisizione della conoscenza in quanto dinamico e partecipativo», sulla capacità di far leva sulla competenza: «Quel che non possiamo sapere o fare da soli, possiamo essere in grado di farlo collettivamente». Letto attraverso questa lente, il lavoro collettivo è un saper fare pratico più che approccio teorico o programmatico. E questo è un punto a favore della possibilità che altre Nicoletta Bourbaki prendano forma e prosperino nei campi di conflitto del sapere. Ce ne sarà sempre (più) bisogno.