Fascismo repubblicano e comunità nel torinese

22 Agosto 2014

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto dall’introduzione del libro di Nicola Adduci, Gli Altri. Fascismo repubblicano e comunità nel torinese, uscito nell’ambito delle attività di ricerca dell’Istoreto per il 70° anniversario della Liberazione

 

 

In questo libro è scritta una pagina della storia di Torino che non era stata finora ricostruita se non per parti, né mai con indagini così accurate e scrupolose: dunque è, per gli storici, un libro necessario. Il che non vuol dire che sia un libro facile, nonostante la linearità della trattazione e la finezza delle maglie cronologiche, che raggiungono, nell'analisi di nodi particolarmente intricati, il livello delle ore e dei minuti.

 

Può infatti sorprendere fin dall’inizio i lettori, e sollecita da parte loro una partecipazione attenta, il fatto che, in un'opera dedicata alla fase più dura della guerra tra il 1943 e il 1945, non appaia in primo piano la Torino di quegli anni, la metropoli industriale che è divenuta uno dei grandi centri della produzione bellica e nelle cui fabbriche lavorano innumerevoli operai tra i più esperti e qualificati d’Italia.

 

La città della Fiat anche, il gruppo industriale che occupa direttamente circa un decimo della popolazione attiva maschile e che, negli anni della mobilitazione prebellica e poi dei conflitti in Europa e Africa, ha attirato da centri vicini e lontani, sia per sostituire i giovani mobilitati sia per fare fronte ai crescenti impegni produttivi, moltissimi nuovi occupati, forse la metà di quelli che risultano impiegati al momento della crisi del regime fascista nel 1943.

 

Conviene tenere sempre presente questa città nuova, dal popolamento recente e fragile, che ha disperso al primo bombardamento del 1940 più di centomila fuggiaschi in ogni parte d'Italia, ma che si ricompatta poi, resiste ai terribili bombardamenti cominciati nell'autunno – inverno del 1942, e si adatta infine alla guerra aerea angloamericana con il cosiddetto "sfollamento" (il rifugio nelle valli prealpine, sulle colline e nelle campagne della pianura, alle quali si richiedono case e pane) accompagnato da un pendolarismo quotidiano che riporta durante il giorno nelle fabbriche e in tutte le attività urbane coloro che non possono passare la notte a Torino, divenuta in parte inabitabile per le distruzioni, per i vetri infranti e per il freddo, ed esposta ai bombardamenti notturni, come quello che uccide più di settecento persone il 13 luglio 1943.

 

Lo straordinario movimento di flusso e riflusso verso il territorio provinciale e verso l'Astigiano, il Vercellese e il Cuneese, di gente che usa soprattutto le poche corse dei mezzi ancora disponibili sulla rete ferroviaria e tranviaria, fa del capoluogo subalpino in questo periodo quasi una città-regione, attraversata continuamente da voci false o incontrollabili ma anche da notizie precise e tempestive su ciò che accade in Piemonte, e pronta a scambi di popolazione con il territorio impensabili in altri momenti.

 

 

Basti qui sottolineare un dato, che per il fascismo repubblicano avrà importanza capitale, cioè che, fra i circa ottantamila giovani che nel 1945 chiederanno il riconoscimento del proprio impegno nella Resistenza armata fuori di Torino (escluse Novara e la sua provincia) più di uno su otto ha la residenza nella città, donde provengono quasi un quinto dei caduti partigiani e quasi un settimo dei caduti civili, più di mille in tutto, ai quali si aggiungono duecento mutilati e feriti.

 

Questo insieme di persone che combattono e talora muoiono, o anche solo lottano per lavorare, vivere e sopravvivere, forma il contesto drammatico entro il quale si svolge la storia eminentemente politica dei fascisti repubblicani, un contesto che Nicola Adduci chiama spesso "comunità", per accogliere in un solo termine tutti i fattori di solidarietà e tutte le interazioni sociali operanti in un arco cronologico e in un ambito spaziale nel quale Torino e il Piemonte tutto appaiono, sul finire della guerra europea, quasi imprigionati ai margini delle grandi direttrici strategiche, tenuti in ostaggio entro l'anello alpino dalle soverchianti forze tedesche che dall'estate 1944 occupano il nuovo fronte occidentale italiano, con l'appoggio crescente delle truppe fasciste addestrate in Germania. […]


Proprio dalla consapevolezza di quanto complessa sia la storia della città in guerra scaturisce, crediamo, la proposta interpretativa che fin dal titolo Nicola Adduci suggerisce, ravvisando una costante, idonea a caratterizzare l'azione politica dei protagonisti dell'ultima stagione fascista a Torino, nell'alterità, estraneità, infine ostilità dichiarata, rispetto ai problemi reali, ai bisogni, e soprattutto al desiderio di pace, di coloro che vivono all’esterno delle piccole fortezze dentro le quali si rinchiudono il Partito fascista repubblicano e le sue organizzazioni militari. Questa estraneità, che possiamo anche intendere, al limite, come un difetto d'intelligenza propriamente politica, è dall'Autore constatata nelle fonti, un dato di fatto verificato in molte circostanze, e più evidente a mano a mano che l'andamento generale della guerra rende caduche e vane le formule della propaganda collaborazionista.

 

Ma rilevare una cecità non basta, anzi pone un problema storiografico che l'Autore risolve esplorando minutamente i diversi punti di vista e le motivazioni degli attori che costruirono e gestirono l'organizzazione partitica e quella armata, e giunsero comunque a esercitare un potere reale. Emergono così alcuni tra i principali apporti conoscitivi di questo libro, per la luce che esso getta sulle discussioni e sui processi interni all'universo vario e rissoso che tuttavia si riconosce a Torino come "fascista", processi che sono seguiti puntualmente dal primo aggregarsi di gruppi informali, l'indomani del 25 luglio 1943, fino all'epilogo della primavera 1945.

 

Spesso si tratta di declinazioni locali di fenomeni generali, com'è evidente già nelle prime affabulazioni che in qualche modo compensano, per gli sparsi naufraghi del colossale apparato del Partito nazionale fascista (circa centoventimila iscritti nella sola Torino del 1943, oggetto anch'essi, per molti anni, di minuziosi rilevamenti dell'Autore), lo scarto tra la loro realtà – modesti per numero, per rappresentatività sociale, per cultura politica e spesso per cultura tout court – e l'ambizione smisurata di ergersi a vera élite dirigente del Paese.

 

Tra queste affabulazioni, la leggenda largamente diffusa del tradimento, di un insieme di trame oscure e di poteri occulti operanti contro Mussolini e i suoi seguaci, leggenda che sembra gettare, per i fedelissimi, un ponte al di là del crollo miserando del 26 e del 27 luglio 1943, viene raccordata da Adduci al caso torinese in pagine tra le più godibili.

 


Di qui si dipana poi la storia del tentativo fascista di occupare uno spazio nella nuova rete di poteri che in qualche modo si forma sotto l'occupazione. Spazio modesto e marginale, diciamo subito, rispetto agli interventi diretti dei Tedeschi non solo nello smantellamento delle strutture militari, che viene condotto immediatamente e brutalmente, ma nella successiva gestione delle relazioni con industriali e operai, e perfino nello stabilimento di accordi diretti con le prime bande di partigiani, o di disertori organizzati, accordi che vedono protagonisti i comandi insediati alle porte di Torino, a Venaria Reale.

 

Eppure lentamente, nonostante gli episodi di conflitto interno, anche pubblici, e i contrasti con le forze organizzate dell'apparato statale amministrativo, poliziesco, giudiziario, il Partito fascista repubblicano riesce a darsi un'organizzazione e ad essere presente nella città e nella provincia. Ma, come spesso avviene nelle cerchie ristrette, il ruolo delle personalità attive nel capoluogo è di gran lunga più visibile, e gran parte dei dibattiti, che conosciamo grazie a una documentazione molto ineguale, si svolgono all'interno di gruppi relativamente esigui. […]

 

Metodologicamente interessante è perciò l'attenzione che Nicola Adduci dedica al ricorrere, soprattutto nei documenti prodotti da Giuseppe Solaro, di tematiche e retorica attinte alla scuola della cosiddetta "mistica" fascista. Nelle mani di uomini come Solaro l'armamentario di formule e di principi diventa una strumentazione idonea in primo luogo ad asserire la coesione interna di un partito soggetto a tensioni così forti da rischiare, nell'estate 1944, il collasso e il totale assorbimento nelle Brigate nere.


Di fatto, passando da una teoria dell'isolamento contro tutti, nella primavera del 1944, all'accettazione della militarizzazione del partito e del connesso programma di repressione con la forza, nell'estate, per finire con il sostegno entusiasta al programma della "socializzazione", all'inizio del 1945, Solaro e il suo gruppo riescono ad argomentare anche la legittimazione, sia rispetto alle autorità centrali della Repubblica sociale, sia nei confronti dei loro seguaci locali, del proprio ruolo di direzione, che più volte è criticato e messo in discussione da una non trascurabile minoranza riottosa.

 

A riassorbire il cui malcontento servono bene anche le punte più intransigenti e fanatiche, che tengono conto, strumentalmente, dell'esigenza psicologica di ribadire quella maggiore coesione organizzativa su cui l'apparato partitico e quello militare delle brigate fondano una pretesa di primato rispetto alle altre articolazioni del sistema "repubblicano" in Piemonte, che sembrano sfaldarsi con il passare dei mesi. […]

 

© Archivio Storico della Città di Torino/Archivio Storico Vigili del Fuoco

© Archivio Storico della Città di Torino/Archivio Storico Vigili del Fuoco

 

Assai meno nobilmente, su un piano operativo, l'argomentare di Solaro e dei suoi non si limita a ribadire radicate convinzioni elitarie e autoritarie, ma legittima anche comportamenti, nei confronti della popolazione civile, tipici delle guarnigioni in paese occupato e straniero. Vengono ad essere giustificati i saccheggi, le repressioni, le rappresaglie. Ancora più importante e grave è che, passando da una teoria congeniale agli “irriducibili” alle sue applicazioni postreme, nel contesto della disfatta del 1945, da discorso la “mistica” si faccia disperato progetto militare.

 

 

Non nuovo, per altro, perché Adduci segue con chiarezza il filo che, dai primi episodi di “cecchinaggio” fascista del settembre – ottobre 1943, nella Napoli insorta e poi liberata, passando per la rete di fanatici tiratori organizzata, nell'agosto 1944, nella Firenze al di qua dell'Arno, conduce ai colloqui di Solaro e dell'ex commissario federale fiorentino, Fortunato Polvani, con il quale viene discussa (auspice lo stesso segretario del Partito fascista repubblicano Alessandro Pavolini) la strategia dell'ultima battaglia dei fascisti in una Torino occupata dai partigiani.


Per quanto coerente e, per assurdo, logico a chi lo guardi dall'interno delle brigate “nere” e del loro partito, questo esito è però anche l'ultimo documento di una incapacità di capire non solo la società torinese, ma lo stesso svolgimento della guerra nei suoi termini propriamente militari. Altrimenti detto, i piani di battaglia degli ultimi mesi sono staccati da una realtà, la quale s'impone invece duramente.

 

Perciò la sconfitta della Brigata Capelli nei combattimenti di Cisterna d'Asti e delle borgate vicine contro i partigiani “matteottini” e “autonomi”, con la perdita di una trentina fra morti e feriti, dal 6 all'8 marzo 1945, è per i fascisti una sconvolgente rivelazione, perché discende da un insieme di presupposti tecnici sconcertanti: in particolare l'armamento leggero, inadeguato, e la dotazione risibile di munizioni sono la conseguenza evidente del fatto che i comandi fascisti sembrano ignorare la profonda trasformazione della Resistenza alla fine dell'inverno. Questa, specialmente ma non solo nell'Astigiano, aveva infatti beneficiato della svolta imposta dagli Americani, decisi ad usare i partigiani armandoli bene. […]

 

I cenni ai preparativi tedeschi ci portano alla seconda prova dell'inadeguatezza dell'apparato militare fascista nel suo insieme, cioè la sua esclusione dalle decisioni strategiche e tattiche dell'ultima ora : cruciale fra tutte quella del lxxv Armeekorps di non attraversare Torino, ma di girare attorno ad essa, dal sud ovest al nord est. Il che lascia il dispositivo di difesa a oltranza nell'abitato, messo a punto da Solaro e dai suoi, completamente isolato e strategicamente irrilevante.
La descrizione che Adduci fa di quel che ne segue, e dell'insurrezione urbana della fine di aprile, una narrazione che occupa quasi un sesto del libro, è di capitale importanza per diverse ragioni.

 

Fotografia Sante Prevarin

Fotografia Sante Prevarin


In primo luogo, dal punto di vista della storia della Resistenza, viene introdotto con chiarezza il ruolo decisivo delle forze fasciste e del loro concetto d'insurrezione, come ultima pagina di una guerra civile. Finora gli storici avevano insistito soprattutto sul progetto, e sul concetto, d'insurrezione elaborato dai comandi partigiani: sottolineando però che lo scontro armato finale non era né certo né necessario, poiché era una variabile dipendente dalla volontà degli avversari, mentre lo scopo dell’occupazione delle città era essenzialmente politico, e consisteva nel trapasso dei poteri in mani italiane per il tramite dei Comitati di liberazione nazionale.

 

L'insurrezione come fatto militare poteva perciò essere simbolica, come fu nella Milano presidiata dalla Guardia di Finanza, o portare a duri scontri con i militari tedeschi più fanatici, come a Genova. A Torino essa restò in dubbio fino all'ultimo, tanto che la Resistenza impegnò tutte le sue forze nello sciopero dimostrativo preinsurrezionale del 18 aprile 1945, prevedendo una possibile resa tedesca, che in effetti si stava segretamente trattando a Caserta. Componente cruciale e decisiva dell'epilogo sanguinoso della guerra in città fu dunque l'azione fascista, e particolarmente grave in essa l'imperversare del “cecchinaggio”.

 

Poco importò infatti che i capi, catturati, consegnassero ai partigiani le informazioni sulla rete dei tiratori, perché la terribile miscela d'indottrinamento ideologico e di teoria della violenza, ormai innescata, esplose da sé, e non fu spenta se non con la forza delle armi (sicché, mentre le biografie dei protagonisti ci dicono che meno di una decina dei responsabili pagarono con la vita le loro scelte, ben diversa fu la sanguinosa resa dei conti postbellica che colpì moltissimi gregari: anche questa una pagina di storia che Adduci tratta con precisione e rigore).

 

“Nei giorni compresi tra il 26 e il 30 aprile, in Torino si registrano più di ottocento morti e circa mille feriti, di cui seicento ricoverati negli ospedali cittadini.” Sono cifre indiscutibili, a sostegno delle quali Adduci ha consultato sistematicamente gli archivi dell'Istituto di Medicina legale, i registri di accettazione degli ospedali, i fascicoli dei processi che vedono coinvolti i parenti delle vittime. Per la prima volta queste fonti sono utilizzate insieme e così compiutamente, e con così rilevante risultato. Giacché esse mostrano che quei pochi giorni vedono morire quasi altrettante persone ed essere ferite molte di più di quanti cittadini fossero stati uccisi o feriti durante tutta la Resistenza.


Molte di queste vittime sono civili. L'insurrezione fascista non si presenta dunque come l'epilogo scontato del confronto tra due parti in conflitto, accanto alle quali starebbero, come il coro di una tragedia classica, innumeri spettatori o vittime appartenenti a un'indefinita zona grigia. Si tratta invece di un processo di aggressione voluto, che coinvolge e travolge direttamente donne e uomini, mette in gioco e in pericolo le loro vite stesse, senza motivo e senza beneficio per alcuno, sicché la loro memoria ne rimane colpita e indelebilmente segnata, e connoterà di ferocia la rappresentazione retrospettiva del fascismo.

 

Insomma, ci sembra che questa ricostruzione metta il suggello dell'accertamento storiografico al trauma incancellabile che la città aveva subito e i memorialisti registrato da subito. Citeremo solo le parole di un acuto osservatore come Carlo Chevallard, il quale, registrati gli ultimi sussulti della violenza tedesca e fascista nella città e nei dintorni, e constatate con amarezza le dure, ineluttabili reazioni partigiane, alla data del 6 maggio 1945 traeva così le conclusioni morali del suo diario di tre anni di guerra a Torino: “E d'altra parte penso che se io, che – tutto sommato – non son stato mai leso né nella persona né negli affetti né nelle mie cose dai tedeschi o dai fascisti, sono arrivato ad odiare così implacabilmente tutto quanto anche lontanamente sa di fascismo o di tedescheria, quale dev'essere l'odio, il furore di chi ha avuto la casa distrutta, i proprii cari trucidati, di chi è stato lui stesso vittima più o meno martoriata?”

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