Sistemi alimentari resilenti / Food First! e la giustizia alimentare

19 Aprile 2016

Un sano rigetto da saturazione mediatica ci ha indotto ad aspettare la fine dell’Expo prima di tornare a parlare di cibo. E ora, a dispetto di feste passate e santi gabbati, proponiamo una riflessione su un tema che non ha fatto certo bella mostra sui tappeti rossi dell’esposizione universale. Una riflessione diversa perché proviene dalla California, dallo stato del consumo e dello spreco per antonomasia, che pure, in merito a iniziative comunitarie e resilienze urbane, ha parecchio da insegnare. Siamo sulla baia di San Francisco, a Oakland, una città che si specchia davanti alla sfavillante “City by the Bay”, mostrandone un’immagine quasi complementare quanto a povertà e disagio sociale. È qui, non a caso, che si sono sviluppati movimenti e iniziative che, dal basso, provano a cambiare il sistema produttivo e distributivo di città che paiono dominate da inestricabili logiche neoliberiste. 

 

Una di queste associazioni è Food First!, l’Istituto per le politiche alimentari e dello sviluppo, un think-tank del popolo che dal 1975 si occupa di ricerca, educazione e attivismo. Una mobilitazione lunga quarant’anni, che ha contribuito a spostare all’interno del dibattito pubblico statunitense temi un tempo relegati ai margini, come le gravi ripercussioni ambientali e sociali prodotte dall’industria alimentare. Le analisi delle politiche pubbliche condotte da Food First! in varie parti del mondo – integrate a ricerche sul campo di agronomi, economisti ed etnografi – mostrano gli effetti deleteri causati dalle sempre più invasive speculazioni finanziarie che, oltre a compromettere irreversibilmente gli ecosistemi, riducono a schiavi i coltivatori dal sud del globo fino all’uscio delle nostre case. Ma la missione dell’Istituto, in qualità di “Centro di educazione per l’azione”, è formare, oltreché informare, dal momento che promuove e diffonde l’agroecologia per realizzare sistemi alimentari resilienti, in grado di rispondere ai danni prodotti dalla cosiddetta “rivoluzione verde” e dagli interessi dell’agribusiness. Le attività di formazione nei vari paesi riguardano tecniche di agricoltura sostenibile, elaborate dalla tradizione locale, e trasmissibili in modo orizzontale, da contadino a contadino. In questo modo, la stretta interazione fra ricerca, formazione e attivismo, di cui Food First! si fa veicolo, mette a punto strumenti volti a influenzare pratiche e politiche legate alla giustizia alimentare, all’accesso alle risorse e al cambiamento climatico. 

 

Questioni sempre più pressanti che sono diventate oggetto di mobilitazione da parte di un numero crescente di movimenti sociali internazionali. Basti ricordare il Forum mondiale della società civile e dei movimenti contadini, che lo scorso giugno a Milano ha visto l’entusiasta partecipazione di associazioni provenienti da oltre 50 paesi del mondo. In quell’occasione, l’“Expo dei Popoli” – che intendeva rappresentare un’alternativa all’esposizione universale, colmandone i clamorosi vuoti tematici – ha redatto un memorabile manifesto sulla sovranità alimentare, frutto del confronto di centinaia di delegati internazionali. 

 

Il summit ha portato in superficie il decennale lavoro svolto sotto traccia da una fitta rete di soggetti, primo fra tutti proprio Food First!. Nella sua sede di Oakland, in una villetta circondata da un orto a disposizione della comunità, abbiamo incontrato il direttore dell’Istituto. Eric Holt-Giménez, agroecologo ed economista politico, si è speso a lungo per il diritto all’accesso alle risorse in Africa e in America Latina, dove ha contribuito alla formazione del Movimento “Campesino a Campesino”. È stato uno dei coordinatori del Bank Information Center, l’istituto che informa le politiche della World Bank e di altre istituzioni finanziarie per promuovere giustizia sociale ed economica. Attualmente è impegnato contro la repressione dei movimenti ambientalisti nel sud del mondo e contro l’espropriazione dei terreni di indigeni da parte delle corporation, appoggiate dalle immancabili, silenti complicità governative. 

 

Ci confrontiamo con Eric Holt-Giménez su questo e altri temi. 

 

La “sovranità alimentare”, teorizzata nel 1996 dal movimento “La Vía Campesina”, è un impegno politico nato dal basso che propugna pratiche alternative a quanto propongono le agenzie internazionali sulla sicurezza alimentare. Negli ultimi anni la società civile, a tutte le latitudini, ha mostrato segni sempre più forti della volontà di partecipare alla governance dei sistemi agro-alimentari. La “sovranità del popolo” sembra dunque esigere una nuova forma di democrazia... 

 

Può essere inteso così. Di fatto la sovranità alimentare è il diritto dei popoli ad avere accesso ad alimenti nutritivi e culturalmente adeguati, prodotti in forma sostenibile ed ecologica. Questo tipo di sovranità implica anche il diritto di tutti i popoli di controllare il proprio sistema alimentare e produttivo, traendone beneficio economico. Il che è completamente antitetico ai programmi governativi di sussidio o di sviluppo agricolo. La sovranità alimentare sta diventando parte delle costituzioni di alcuni paesi nel sud del mondo, però questo non basta, perché va bene spostare la lotta per il controllo del cibo dall’arena internazionale a quella nazionale, ma poi bisogna vedere chi all’interno di quella nazione finisce per esercitare il controllo sul cibo: i contadini, la borghesia terriera, un’enclave rurale, chi è che lo controlla? La sovranità alimentare è dunque un progetto politico di tipo storico che si basa, non sulla concentrazione di terra e cibo nelle mani di pochi, ma su un approccio ridistributivo e democratico delle risorse alimentari. 

 

Credo che ora ci troviamo sulla strada giusta, finalmente si sta capendo che il problema è il capitalismo. E il sistema alimentare capitalista si comporta come fa il capitalismo, cioè sposta le conseguenze sociali e ambientali della produzione sulla società, concentrando la ricchezza in monopoli e oligopoli. Ciò ha portato al riscaldamento globale, a un inquinamento devastante, a malattie epidemiche legate all’alimentazione e – nonostante i livelli altissimi di produttività – ci ha portato perfino alla fame. Credo che si stia finalmente capendo che la questione centrale non è tanto “votare con la forchetta” o comprare prodotti con l’etichetta biologica o di commercio equo, ma che è il sistema del capitalismo in sé a dover essere affrontato, un sistema che fallisce nell’allocare le risorse basilari, come cibo, acqua e terra, in modo equo e sostenibile. Stiamo anche capendo che in nome dell’efficienza di mercato, intesa in chiave capitalistica, si stanno provocando danni serissimi. 

 

 

 

Se il problema dunque è “sistemico”, non ci sarà nessuna giustizia alimentare finché non si cambia radicalmente l’accesso alle risorse… 

 

Sì, nel momento in cui realizzi che il problema non è la scarsità ma la concentrazione di potere nel sistema alimentare, che è stato costruito su un sistema di sovrapproduzione, quando capisci questo, allora ti chiedi chi è che soffre la fame? Chi è questo miliardo di persone affamate? Scoprirai che la maggior parte sono contadini, molti dei quali donne. E scoprirai pure che essi producono più della metà del cibo mondiale, eppure soffrono la fame. Perché succede, se producono tanto cibo? Il capitalista risponde “perché sono produttori inefficienti”, ma quando guardi a queste fattorie, vedi che non è vero che sono inefficienti, anzi. Vedi che sono stati spinti via dagli appezzamenti migliori e relegati in porzioni di terra molto piccole e fragili e che in realtà fanno un grande lavoro, date le risorse a cui hanno accesso. Non hanno accesso all’assistenza sanitaria, alla scuola, ai servizi minimi necessari alla sopravvivenza, quindi è un problema di allocazione di risorse, che inizia proprio con l’accesso alla terra. A questo punto bisognerebbe investire in un salario sociale minimo per fare in modo che i contadini abbiano una vita migliore. Ora però succede proprio il contrario, ora sono i contadini poveri a sovvenzionare il sistema alimentare tramite il proprio sfruttamento. I coltivatori, pescatori e allevatori di piccola scala producono il 70% degli alimenti consumati al mondo. Chi sono i più grandi investitori nell’agricoltura oggi? I coltivatori poveri. Messi tutti insieme, sono quelli che investono di più, più della Banca mondiale, più di qualsiasi altra industria. Investono la minuscola parte di soldi che hanno e un’enorme quantità di lavoro e fatica. Investono ottenendo un bassissimo prezzo per i loro prodotti. E proprio perché sono poveri sono costretti a vendere subito il raccolto, una cosa deleteria, perché sei mesi dopo si ritrovano a dover comprare il cibo, ma, non avendo soldi, finiscono per fare la fame.

 

Quindi in primo luogo abbiamo bisogno di una politica ridistributiva della terra e delle risorse produttive alimentari. Una politica di parità che permetta ai contadini di avere la giusta retribuzione per vivere una vita decente e dignitosa. E abbiamo bisogno di reinvestire nella campagna, nel salario minimo sociale della campagna. Tutto ciò, ovvio, richiede volontà politica, che al momento non c’è. Per questo è importante costruire movimenti sociali forti per creare pressione sociale, che a sua volta produce volontà politica per questo tipo di riforme, per cambiare le strutture finanziarie, governative e di mercato – strutture che attualmente vanno contro qualsiasi principio di sostenibilità sociale e ambientale.

 

Principi e pratiche di sostenibilità che sono incluse nell’agroecologia, una gestione che, a parità di prestazioni rispetto all’agricoltura convenzionale, riesce a “raffreddare il pianeta”, riducendo l’impatto del cambiamento climatico. Come avviene?

 

Premesso che raffreddare il pianeta e riuscire a sfamare tutti non è solo un problema di forme di produzione, ma anche di distribuzione delle risorse, dobbiamo riconoscere che ci sono pure problemi con il modello industriale di produzione, dal momento che genera fino al 20% di tutti i gas dell’effetto serra mondiali. Così, per risolvere questo problema, coltivatori e scienziati hanno sviluppato insieme la scienza e la pratica dell’agroecologia, che ora è diventata anche un movimento. Si basa sull’analisi ecologica dei sistemi agricoli tradizionali, volta a capire come una coltivazione di tipo tradizionale gestisce le funzioni dell’ecosistema per creare un surplus da consumare e vendere in modo sostenibile, nel tempo, affidandosi alle risorse naturali. L’agroecologia si basa su nuovi metodi sviluppati dalle pratiche ecologiche contadine del passato e si è diffusa rapidamente nell’agricoltura di piccola scala perché tende ad abbassare i costi e a immettere resilienza nel sistema. La maggior parte di questi contadini vive in frazioni di terra ecologicamente deboli, in zone collinose o ai margini delle foreste, sono stati cacciati dalle terre migliori, occupate dall’agricoltura industriale e dalla cosiddetta “rivoluzione verde”, i cui fertilizzanti e pesticidi hanno finito per distruggere il suolo, condannando a morte chi lavorava la terra. Di fatto l’agroecologia è anche una risposta dei contadini e degli scienziati al fallimento della rivoluzione verde. Cattura anidride carbonica, gestisce i nutrienti nella biomassa oppure li mantiene nel suolo. Si elimina il bisogno di fertilizzanti al nitrato, molto inquinanti, e si reincorpora e immagazzina anidride carbonica nel suolo; questa a sua volta viene assorbita dalle piante, che producono ossigeno... viene così ridotto il bisogno di prodotti chimici o di input esterni che causano i gas serra. In questo senso l’agroecologia è in grado di raffreddare il pianeta, non lo surriscalda come fanno altre pratiche agricole. 

 

 

Un metodo naturale perfetto…

 

In sé lo è. Ma i coltivatori hanno ben presto capito che non è abbastanza essere un buon contadino oppure aumentare la produttività del 100, 200 o 300%, non è abbastanza catturare anidride carbonica, se poi ci sono i trattati di libero commercio che ti fanno perdere tutto quello che hai raggiunto all’interno del tuo mercato. I monopoli hanno la forza di mercato e di fatto sono in grado di determinare e distruggere tutto. Se il governo non ha la volontà politica di proteggere i propri coltivatori di piccola scala, non importa quanto questi siano sostenibili, perché non saranno mai sostenibili sul mercato, soprattutto se devono competere con grano proveniente dall’Europa o dagli Stati Uniti o dal Canada, che gode di forti sussidi e che quindi può essere venduto sotto i costi di produzione. 

 

In questo senso dico che l’agroecologia è diventata anche un movimento: un movimento che cerca di cambiare alcune di queste decisioni politiche, non solo nei mercati ma anche nelle nostre università, nei centri di ricerca. L’agroecologia e l’agricoltura biologica negli Stati Uniti ricevono meno dell’1% dei finanziamenti per la ricerca agraria, tutto il resto va all’agricoltura convenzionale e all’agricoltura industriale. I finanziamenti vanno a quel tipo di agricoltura che ci rende malati, che inquina l’ambiente, che surriscalda il pianeta e che concentra il potere nelle mani di pochissimi. È lo stesso tipo di agricoltura che ha ridotto drammaticamente il numero di contadini al mondo, che usa fino all’80% dell’acqua del globo, che distrugge il 75% dell’agro-biodiversità mondiale. L’altra agricoltura invece – quella che aumenta la biodiversità, che conserva l’acqua, che raffredda il pianeta, che tutela i coltivatori di piccola scala, che porterebbe vantaggi enormi in tutti i campi –, viene trascurata. Invertire questo trend è una decisione politica, che va cambiata dal basso, tramite movimenti che costringano i politici a prendere questo tipo di decisioni, nonostante le pressioni delle lobby e gli interessi delle multinazionali. 

 

 

Prima citava i trattati di libero commercio: dal NAFTA fra USA, Canada e Messico, che ha pure finito per espropriare terre ai piccoli agricoltori indigeni, al TPP fra dodici paesi del Pacifico, firmato lo scorso febbraio e in attesa di ratificazione, fino al contestatissimo accordo di liberalizzazione commerciale TTIP fra UE e USA, attualmente in fase di negoziazione. Qualora vigente, il Trattato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, sarebbe particolarmente nefasto per il settore agricolo perché metterebbe a rischio la qualità dei prodotti, la tutela degli agricoltori locali, la capacità dei cittadini di controllare la propria alimentazione. Questi accordi sembrano legittimare la subordinazione dei popoli agli interessi delle multinazionali (solo sette corporation della chimica e delle sementi si dividono il 90% del mercato), in questo modo anche il cibo diventa una funzione diretta dei mercati finanziari... ci sono vie di fuga? 

 

I trattati di libero commercio, spinti dalle multinazionali, sono patti altamente tossici sia per il pianeta che per le nostre società. Se firmiamo un accordo di libero commercio – come quello pacifico o atlantico – vedremo monoculture, come piantagioni di olio di palma o di soia espandersi in scala mastodontica. Non solo: trattati del genere costringono alla migrazione gli agricoltori, abbattono foreste, spingono all’espansione i “feed lot”, i terreni di ingrasso di bestiame, dove la terra viene utilizzata solo per produrre in massa carne da allevamento, a discapito dell’agricoltura – cosa terribilmente inefficiente e terribilmente inquinante. I patti di libero commercio rendono prioritario questo tipo di industria. Il diritto alla concorrenza si imporrebbe sui diritti dei lavoratori, così come si affermerebbero i diritti di proprietà intellettuale anche su prodotti di derivazione naturale: ad esempio, privilegiando le multinazionali delle sementi, che impedirebbero il naturale scambio di semi fra agricoltori, facendo scomparire varietà locali e riducendo la biodiversità. Di conseguenza, modi sostenibili di produzione agricola verrebbero disincentivati. Si arriva al punto che le multinazionali potrebbero perfino citare in giudizio un governo nazionale o locale che, approvando leggi di tutela dell’ambiente o dei diritti dei cittadini, minacci le prospettive di profitto. 

 

Con questi trattati assisteremmo al fallimento di un numero crescente di piccoli agricoltori, che li indurrà a migrare. Vi sarà molta più migrazione, gente in cerca di lavoro, cosa che avrà ogni tipo di danno economico e sociale [Nel 2015 oltre 36 milioni di persone al mondo si sono spostate a causa del cambiamento climatico e, secondo l’UNHCR, i prossimi trent’anni vedranno la migrazione di oltre 150 milioni di “rifugiati per motivi ambientali”, ndr]. Quindi i patti di libero commercio non ci aiuteranno affatto a risolvere i problemi pressanti dell’umanità e del pianeta, anzi sono stati progettati per risolvere la crisi di accumulo di alcuni oligopoli all’interno del sistema economico capitalistico. In altri termini, queste corporation hanno così tanti soldi che non sanno che farci: vivono una crisi di accumulazione che le costringe ad aprire nuove aree d’investimento per abbattere le barriere al commercio, hanno bisogno di rimpiazzare i mercati esistenti con nuovi mercati che sono in grado di controllare. Tutto questo è chiamato “libero commercio”. 

 

 

È uno scenario a dir poco inquietante. Quindi non si sbagliava Kissinger quando diceva: “Se controllate il petrolio, controllerete le nazioni; se controllate il cibo, controllerete i popoli”... Food First! identifica nelle iniziative comunitarie lo strumento principale per immettere resilienza in sistemi rurali e urbani vulnerabili, innescando un reale cambiamento... Può citare alcune delle vostre attività che hanno “normalizzato” l’uso dell’azione diretta, rendendola pratica quotidiana? 

 

Food First! ha sempre cercato di studiare i motivi reali che causano la fame, amplificando la voce di quei movimenti sociali intenzionati a sradicare quelle cause. È importante lavorare insieme e dialogare con i movimenti sociali. Sviluppiamo progetti con il movimento “Campesino a Campesino” in Messico e progetti che promuovono l’educazione orizzontale, ad esempio contadini che insegnano ad altri contadini le tecniche per ripristinare l’habitat degli impollinatori, che si sta deteriorando a causa dell’espansione dell’industria agricola. 

 

In Africa Occidentale poi sosteniamo le organizzazioni di coltivatrici attive nel sostenere l’agricoltura contadina. Nell’Africa sub-sahariana la produzione alimentare è per il 70% da ricondurre alle donne. Ciononostante sono proprio le donne a patire maggiormente la fame perché hanno scarso accesso al controllo delle risorse produttive. Nel 2003 molti governi africani firmarono l’accordo di Maputo sull’agricoltura e sulla sicurezza alimentare, con cui si impegnarono a destinare almeno il 10% del bilancio nazionale all’agricoltura. Gli investimenti però sono finiti a sostenere un’agricoltura a contratto, orientata all’export, dipendente da input esterni, integrata ai mercati globali, che ha permesso l’entrata di monopoli multinazionali. L’agricoltura contadina su base familiare esiste ma non riceve il supporto delle istituzioni locali. Al World Social Forum di Dakar nel 2011 diverse organizzazioni di agricoltrici lanciarono la campagna “We are the solution: Celebrating African Family agriculture”, vale a dire “la soluzione è nelle nostre mani, non abbiamo bisogno di multinazionali che ci impongono prodotti dannosi per le nostre terre”.

 

Poi abbiamo molti progetti locali. Qui a Oakland, Richmond, Brooklin [by the Bay], San Leandro e San Francisco East Bay, abbiamo diversi “campi didattici per agricoltori urbani”. Contadini che provengono da comunità sottoservite, da comunità etniche molto povere e abbandonate, da aree che noi chiamiamo di “apartheid alimentare”, dove si ha accesso solo a cibo di infima qualità. In queste comunità sviluppiamo attività di formazione per diffondere quelle pratiche agroecologiche radicate nel tempo, che rispondono ai nuovi problemi della terra e della vita urbana, soluzioni trasmesse orizzontalmente, da contadino a contadino. 

 

Un altro esempio di normalizzazione dell’azione diretta è il “Comitato per la politica alimentare di Oakland”, un’idea lanciata già molti anni fa e ora funzionante. Il Comitato – composto da normali abitanti del quartiere e rappresentanti delle imprese locali e del dipartimento di salute – è riuscito a introdurre a livello legale l’autorizzazione per i singoli cittadini di coltivare il proprio cibo e di venderlo direttamente, senza passare attraverso complessi e dispendiosi processi di certificazione. In questo modo il comitato individua modi per mantenere il “dollaro alimentare” all’interno della comunità, contribuendo a ricostruire l’economia locale e a ristrutturare il sistema alimentare. Infatti Oakland ha ben 1200 ettari di terra pubblica inutilizzata, che può essere coltivata...

 

Poi ci sono progetti che abbiamo sostenuto, come quello di “Occupy the farm”. Si tratta della lotta per mantenere pubblico il terreno del Gill Tract, una stazione di ricerca sull’agricoltura urbana che l’Università della California di Berkeley vorrebbe vendere a imprenditori immobiliari. Per impedirne la cessione, nel 2013 e nel 2014, abitanti, studenti e professori occuparono il terreno, piantando 15mila piantine e creando un piccolo villaggio con mensa, asilo, biblioteca e ambulatorio. In seguito all’occupazione, squadre antisommossa intervennero con gli sgombri, tagliando l'erogazione d’acqua. Ma gli occupanti continuarono a innaffiare le piantine scavalcando le recinzioni e portando acqua da fuori... Il procedimento è ancora in sospeso ma su quel terreno ora c’è una fattoria per l’agroecologia urbana e la sovranità alimentare: distribuiscono cibo alla comunità locale, educandola in merito a pratiche di sostenibilità e alimentazione sana. Chiunque può passare, raccogliere frutta e verdura, in cambio di aiuto con l’irrigazione o l’estirpazione delle erbacce. Lo scopo è garantire alla comunità dell’East Bay accesso gratuito a cibo fresco e biologico, creando un’economia di base equa. 

 

 

L’occupazione del Gill Tract ha portato benefici alle comunità cresciute con cibo-spazzatura a buon mercato, ma è diventata anche esempio di pratica per molti movimenti urbani, tanto da far nascere il movimento “Occupy the farm”… Il 2015 è stato dichiarato “Anno della sostenibilità”: sembra che ci siamo assuefatti a questo termine, ormai così abusato da risultare vuoto…

 

Credo che il termine “sostenibilità” abbia ormai perso del tutto il suo significato. In agricoltura il termine ormai si è imbastardito, tanto che ora la nuova espressione “intensificazione sostenibile” significa una gestione più precisa dell’input tossico usato dall’industria agricola. Non c’è di fatto nulla di sostenibile in tutto ciò. È un termine quasi post-moderno, significa tutto quello che vuoi e niente, è troppo relativo. Queste operazioni mediatiche, come l’anno della sostenibilità nel 2015 o l’anno internazionale dell’agricoltura familiare nel 2014, vanno anche bene, ma certo non bastano. Celebrare l’agricoltura familiare non è sufficiente se non combattiamo le cause che ne mettono a rischio quotidianamente l’esistenza. Cause come la concentrazione oligopolica della terra, il “land grabbing”, con cui le multinazionali solo negli ultimi anni si sono accaparrate al mondo decine di milioni di ettari. E ancora, la transizione agraria che spinge i contadini fuori dalle loro terre, l’espansione dei biocarburanti che sostituiscono le colture alimentari, l’espansione delle monoculture, in particolare quelle di soia, e l’espansione dei “feed lot” per mettere a ingrasso il bestiame destinato ai paesi ricchi, mentre intorno la gente fa la fame. Cause come il mancato riconoscimento dei diritti umani basilari dei contadini o la criminalizzazione dei movimenti che lottano per l’accesso alla terra e all’acqua [il recente assassinio dell’ambientalista indigena Berta Cáceres in Honduras ne è un triste esempio, ndr]. Basti pensare alla privatizzazione dell’acqua, che sta diventando una risorsa sempre più scarsa. Ci sono cose basilari che non possono essere messe sul mercato, fra cui acqua, cibo, terra, perché sono accesso alla vita. 

 

Lo stesso terreno agricolo passa da asset produttivo ad asset finanziario... 

 

Se lasci la terra al mercato, con il tempo le proprietà terriere si concentrano nelle mani di poche, pochissime persone. La finanziarizzazione della terra fa sì che la terra abbia valore più sui mercati finanziari che per i prodotti agricoli che produce. Gli speculatori la chiamano “gold with yield” [l’oro con “raccolto”, che significa però anche “rendimento”]... la terra diventa sempre più cara e la gente che vuole coltivare non se lo può permettere. L’età media di un contadino negli USA è 58 anni, c’è una battuta cattiva che dice che la prossima volta che misureremo l’età media di un contadino sarà direttamente nella tomba... Ci sono state alcune risposte come i “land trust”, speciali accordi di cooperative in usufrutto, buone idee che però non si avvicinano minimamente a risolvere il problema, e nemmeno le ingiustizie etniche e culturali, perché molti dei “land trust” sono gestiti dalla giovane classe media bianca, quando la maggior parte del lavoro nei campi negli USA è svolta da gente di colore che viene dal sud del mondo. Quando qui un agricoltore va in pensione, si lamenta che non trova nessuno che lo sostituisca, ma in realtà è circondato da contadini dall’America Latina che non vorrebbero altro... questi contadini però vengono visti sempre e solo come meri braccianti, di queste persone si perde anche il potenziale di conoscenza e il sapere agricolo di gestione familiare. Attualmente la maggioranza della classe media negli USA – e non mi sorprenderebbe se ciò fosse riflesso anche in Italia o in Europa – non vivrà a lungo come i loro genitori: hanno aspettative di vita inferiore, a causa dei problemi ambientali, delle malattie legate alla dieta e all’inquinamento; e non solo quello, hanno anche molto meno opportunità rispetto ai loro genitori: il futuro è sempre meno roseo per loro. 

 

Dalla rivolta zapatista, al movimento brasiliano dei Sem Terra, alla Vía Campesina, fino alla People’s Global Action e al Climate Justice Now!: sono solo alcuni esempi di rivolte pacifiche, movimenti sociali e azioni di boicottaggio... Li vede come zone circoscritte di conflitto al sistema oppure come possibili basi per definire dal basso un nuovo internazionalismo solidale? 

 

La vera svolta è mettere in comunicazione i vari movimenti proprio per evitare che si formino tante piccole isole di sostenibilità in un grande mare di distruzione. Bisogna dunque unirsi per cambiare a livello strutturale il sistema alimentare globale... va cambiato il sistema produttivo e distributivo. Ci sono persone che acquistano prodotti sulla base dei propri valori, comprando cibo equo e pulito: va bene, ma cambia ben poco, anche perché è una scelta che non tutti si possono permettere. Quindi più che essere un consumatore corretto, bisogna essere un buon cittadino e cercare di cambiare le cose a livello locale, perché in questo modo riesci a cambiare quelle regole istituzionali su cui non puoi intervenire a livello nazionale. Stando così le cose, attualmente credo che lo sviluppo di ciò che Polany chiama “contro-movimento”, contro gli eccessi del capitalismo e del libero mercato, debba rimanere locale. Prima ci si consolida a livello locale, poi ci si muove ad una convergenza superiore. Finiremmo per diluire i nostri sforzi se subito volessimo cambiare il sistema ai piani alti, ai livelli della Banca mondiale o dell’ONU, perderemmo tutte le energie e non andremmo da nessuna parte. Ma a livello locale è qui che dobbiamo intervenire e questo lo possiamo fare tutti, in modo anche incisivo. È la pressione sociale che riesce a produrre volontà politica. 

 

Testo e foto di Liza Candidi

(Foto in ordine: Pinar del Río / Viñales, Cuba / Community Garden, Oakland / Gill Tract, Berkeley/ Agricoltura estensiva in San Benito County, CA).

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