Fosco Maraini, Gerusalemme di luce e di sangue
Il piacere della lettura qualche volta è paragonabile a quello di lasciarsi sedurre. E quando il primo paragrafo, e poi il primo capitolo di un libro ci seducono, entriamo nel libro con abbandono. Questo è senz'altro il caso di Le pietre di Gerusalemme, di Fosco Marini, pubblicato qualche mese fa per il Mulino.
Facciamo un passo indietro: Fosco Maraini si recò a Gerusalemme nel 1967, all'indomani della Guerra dei Sei Giorni e ci tornò brevemente nel luglio dell'anno successivo. Quei viaggi ebbero un impatto forte, tale da spingerlo a scriverne a caldo e poi a studiarci attorno, il risultato fu un testo pubblicato solo in inglese con il titolo Jerusalem Rock of Ages nel 1969, corredato da immagini del fotografo israeliano Alfred Bernheim. Quel libro ebbe un'edizione inglese (Hamish Hamilton Ltd) e una americana identica (Harcourt, Brace & World) e poi non fu più ristampato. A 60 anni di distanza, ecco che vede la luce in italiano in una bella edizione cartonata curata da Maria Gloria Roselli, con introduzione di Franco Cardini e un inserto fotografico dello stesso Maraini. Direi che il testo regge bene la prova del tempo, non risulta "datato" forse proprio perché non è mai stato "attuale". Già l'edizione in inglese del 1969, si presentava come una meditazione a partire da osservazioni di Maraini sulla "città vecchia" appena conquistata da Israele, per poi tracciarne la sua storia lungo i secoli.
È probabile, che nella vasta offerta di libri su Gerusalemme e su Israele – dagli instant books, alle cronache della guerra, fino a testi scientifici – mirati al grande interesse per il nuovo assetto mediorientale a seguito della Guerra dei sei giorni, questo libro non abbia trovato il suo pubblico, e che negli anni a seguire, Maraini abbia accantonato il progetto. Un altro elemento di ostacolo è senz'altro la traduzione, piuttosto legnosa di Judith Landry che sicuramente non rende la fascinosa e spesso pirotecnica prosa di Maraini come merita. Così è facile comprendere e condividere le motivazioni che hanno indotto la Roselli, con l'aiuto della moglie di Maraini Mieko e delle figlie Dacia e Toni, finalmente a un'edizione italiana. In una nota al testo, Maria Gloria Roselli ci spiega che la redazione del testo è avvenuta a partire da due manoscritti conservati al Gabinetto Vieusseux di Firenze uno del 1967 il secondo del 1968 nonché di una rielaborazione dell'autore fatta nel 1970.
La vasta produzione di Maraini dimostra l'impossibilità di etichettarlo: è stato antropologo, viaggiatore, orientalista, alpinista, poeta, fotografo, e forse, soprattutto, narratore. La sua cifra stilistica, anche in questo libro, deriva dal l'uso libero, poetico e idiosincratico dell'italiano, anzi di un bellissimo "tosco-Italiano".
Occorre domandarsi cosa ha visto Maraini a Gerusalemme e soprattutto quale Maraini ne ha scritto. Non l'antropologo, non uno specialista, ma piuttosto come amava definirsi, "un lunatico in visita esplorativa sulla terra." Questo particolare osservatore – un reporter/poeta – vede una Gerusalemme ferita da una guerra recentissima, in un momento probabilmente irripetibile di entusiasmo da parte degli israeliani. A partire dalle sue impressioni visive e sensoriali capaci di attivare un'immaginazione multidirezionale, l'autore ci conduce in un viaggio attraverso le storie (vere, verosimili e leggendarie) di questa città che tanto lo ha colpito. L'impressione è che il testo viaggi su due binari paralleli. Il primo seducente, lirico e evocativo, è un esempio alto e sofisticato di scrittura di viaggio. Il secondo, più problematico, è un tentativo, di spiegare le impressioni e intuizioni sul campo, attraverso la stratificazione di storie millenarie, che compongono la Storia di Gerusalemme. Anzi la storia delle guerre di conquista e riconquista di questa città. Questi due binari o registri narrativi, non riescono a convivere armonicamente, generando al contrario un testo le cui doti sono forse dovute proprio alla sua imperfezione.
Torniamo al primo straordinario capitolo, pieno di promessa e di quella forza propulsiva che trascina avanti il lettore per tutto il volume. L'intuizione, ridotta ai minimi termini è che la Gerusalemme che interessa a Maraini sta nell'incontro, pieno di dramma e di significati universali, tra la pietra, l'uomo e Dio.
Scrive:
"Cos'è un sasso rispetto a un uomo?
Nulla, un frammento di sabbia rappresa, di calcare compatto, di minerali variamente cristallizzati. L'uomo lo raccoglie da un greto di fiume, lo cava dalla montagna, se ne fa muraglia, casa, bacile, colonna, torre, pavimento, ponte, lapide, statua; oppure lo frantuma lo cuoce, lo riduce a calcina. L'uomo vuole, il sasso subisce. L'uomo comanda; il sasso diventa.
D'altra parte cos'è l'uomo rispetto alla pietra?
Una favola che passa come una nube all'alba; ride bambino, poi "è subito sera". La sua carne fragile, sensibile, raccoglie dalla terra e dall'aria i più comuni e i più rari elementi, li fonde e li organizza in una cosa straordinaria che lavora, fatica, pensa ama danza gode soffre odia, ch'è impastata di ricordi e di speranze, poi tutto si disperde di nuovo verso le quattro, o le sei direzioni dello spazio. La pietra invece resta. La pietra può veramente dire, io sto. Su di lei scorrono i millenni come rugiada di tempo.
A Gerusalemme uomo e pietra s'incontrano, convergono l'una nell'altra. La pietra a Gerusalemme è intrisa d'uomo, e qui l'uomo si firma nella pietra. Le pietre di Gerusalemme non sono come le solite; ciascuna ha un passato che può essere anche drammatico, terribile. Sono pietre che se potessero parlare, non avrebbero solo da raccontarci di cristallizzazioni ed erosioni, come quelle dei monti e dei fiumi, ma di lacrime e calore di corpi, talvolta di feste, più spesso di cose urlate in momenti terribili
[...] Ma Gerusalemme non è fatta solo di uomini e di pietre; c'è tutta una dimensione che sconfina nell'invisibile e che rende questa città unica tra le altre. Uomini, pietre, Dio; ecco i termini d'un quadro complesso e drammatico".
Una prosa incandescente che al momento giusto, rivela anche leggerezza e umorismo scanzonato: "Ahi dolce babelica Gerusalemme, nella tua luce d'oro, nei tuoi cieli di cobalto! Confesso che di fronte a tanta fantasia metafisica e sartoriale, cronologica e dietetica, teurgica e gastronomica, escatologica, omiletica e sessuale, il pensiero più vivo è spesso poco riverente: povero Dio, come fai a capirci qualcosa in questo cosmico brodo dei tuoi tanti creati?"
Quando Maraini scrive questo testo ha 57-58 anni, ha già scritto i suoi libri più importanti sul Giappone e sul Tibet, vissuto attraverso guerre mondiali e rivoluzioni, viaggiato in Asia Centrale e Nord Africa, ha avuto riconoscimenti come antropologo, fotografo e narratore. Quel che percepiamo è che a quel punto sente di non dover dimostrare niente a nessuno, e quindi si concede nuove libertà. Da questo punto di vista, forse, troviamo qui il più autentico Maraini.
Unisce a una grande capacità di descrizione la vivacità di un linguaggio e di uno stile narrativo diretto e di forte impatto emotivo. Sa comunicare insieme lo sguardo del viaggiatore esperto e lo stupore del bambino alla scoperta di qualcosa di meraviglioso. La sua curiosità, e la sua meraviglia sono il volano di questo libro. Pur non potendo liberarsi dallo sguardo dell'italiano, del cattolico, del forestiero, tenta per quanto possibile di capire e non giudicare. Sentiamo il suo desiderio fortissimo di condividere le proprie impressioni, raccontando.
"Oggi sono tornato a visitare il Muro. È un giorno speciale; si celebra il Tish 'a be Av, ricorrenza in cui si ricordano le distruzioni del Tempio: quella babilonese del 587 a.C. e quelle romane del 70 e del 135 d.C. In teoria sarebbe un giorno di lutto. Mi dicono che i più stretti ortodossi non si lavano, mangiano di magro, leggono le Lamentazioni di Geremia dal giorno della luna nuova al nove del mese. [...] Tutto questo sarà vero, ma oggi sono testimonio d’una festa gaia, rumorosa, spontanea, quasi d’un carnevale. Ci sono migliaia di persone in piazza, ai piedi del Muro illuminato da riflettori dell’esercito.” Poi riflette: “Quasi ogni manifestazione religiosa è strana, vista da fuori. Strani i cattolici che mormorano peccati osceni in un mobile barocco tra grate e ombre, strani sono i buddhisti che pregano in coro solenni per l’anima delle rane o dei manzi, stranissimi gli induisti che seguono estatici un sadhu, il quale si tortura con spilloni o spiedi nelle carni, strani gli scintoisti che portano ebbri in giro, danzando, i loro dei su un palanchino […], strani i parsi che lasciano i loro morti alla fame degli avvoltoi. Bisogna vedere le cose da dentro per comprendere”.
E qui Maraini, conscio del carattere soggettivo delle proprie osservazioni – spesso acute, poetiche e suggestive – pensa di trovare nella Storia, la sua panacea. “Solo la storia ci porta dentro; storia di fatti e storia d’idee. Solo la storia ci può guidare sino a un punto in cui tutto diviene chiaro, tanto da poter dire: se fossi nato nelle loro circostanze parteciperei anch’io.”
Qui si apre il secondo binario narrativo, costituito da una avvincente carrellata, affabulata piuttosto che storica, scritta presumibilmente una volta rientrato in Italia.
“La città sorge in un punto particolarmente facile da difendere, delle montagne di Giudea abitate dall’uomo da tempi estremamente remoti”. Cominciando dalla Gerusalemme pagana (quella dei Gebusei, tribù canaanita) per arrivare alla conquista ebraica da parte del Re David, seguita dalla conquista babilonese, quella ellenistica poi dai Romani guidati da Pompeo e poi Tito. La città è resa cristiana dai bizantini, cade brevemente in mano ai mongoli ed è poi conquistata da Omar ibn al- Khaṭṭāb, il secondo califfo islamico. Poi ancora i crociati, seguiti da ottomani, inglesi e giordani fino alla presa della città vecchia da parte degli israeliani poche settimane prima del viaggio di Maraini.
L’autore affronta un’impresa forse impossibile. Gli ostacoli erano molteplici: notoriamente le prime notizie di una Gerusalemme arcaica provengono da fonti inattendibili e contraddittorie. E quelle delle epoche successive scritte e riscritte, da vincitori e vinti secondo narrative funzionali a progetti ideologici e politici. Maraini, cerca di documentarsi, e lo fa seriamente (la curatrice riporta una probabile bibliografia consultata) ma non essendo né un biblista, né un archeologo, un teologo o uno storico, mette insieme delle belle storie, di cui non si capiscono mai le fonti né il livello di attendibilità.
Anche quando cita una fonte, per esempio Giuseppe Flavio, lo storico ebreo di cultura ellenistica romanizzato durante la conquista romana della sua città, non si sofferma sui complessi problemi storiografici attorno a questo autore accettandoli come fossero un reportage oggettivo. Nonostante questi limiti metodologici, Maraini tesse una enormità di storie diverse in una narrazione fascinosa, in cui condensa concetti e visioni del mondo con tratto sicuro. La sua tecnica si basa nell’illustrare epoche o credenze e costumi lontani con frequenti paragoni a concetti familiari al lettore. Per descrivere il paesaggio tra Tel Aviv e Gerusalemme lo paragona alla campagna umbra e toscana, o nel descrivere l’Apocalisse si rifà a Marx “Il Capitale e l’Apocalisse sono meno lontani l’uno dall’altro di quanto si potrebbe credere. Il primo parla il linguaggio della scienza, il secondo del misticismo, ambedue sono voci dell’uomo che proietta nel futuro un sogno di giustizia”.
Prima e dopo Maraini, molti storici e narratori hanno tentato di scrivere la storia trimillenaria di Gerusalemme, con risultati spesso deludenti. Ma è poi possibile scrivere la storia di una città/idea, ombelico del mondo, da molti pensata come universale, e come l’unione della terra con il cielo? Mi pare meritorio il tentativo di Simon Sebag Montefiore che con la sua Jerusalem, The Biography (Vintage, 2011), adotta un approccio biografico anziché storico con risultati sorprendenti.
Salvo una visita fugace al quartiere ultra ortodosso di Mea Shearim (su cui torneremo) l'attenzione di Maraini è tutta per la città vecchia, la Gerusalemme all'interno delle mura. È affascinato dal suo mistero, dalla sua resilienza, dal suo essere santa in modi diversi e spesso conflittuali per le tre religioni monoteistiche che da secoli se la contendono. Intuisce l'importanza e l'insondabilità del mistero, quello della vita e della morte, come quello della divinità, e ne fa uno dei temi del libro. Cerca di sviscerare il paradosso di una città il cui nome include la parola pace, per poi rivelarsi luogo di un ciclo ininterrotto di conquiste e capitolazioni, guerra e pace, distruzione e ricostruzione.
Lo interessano i meccanismi e le motivazioni del genere umano. Scrive:
"Chi ha letto con un po' di cuore la storia di Gerusalemme nei secoli deve ringraziare gli dei d'una sola cosa: che il sangue sia delebile, ch'esso si sciolga alla pioggia, si secchi al sole e scompaia. Se il sangue fosse indelebile Gerusalemme sarebbe rossa. Tutta rossa."
Se nel 1970 come nel 2022 vogliamo tentare di capire questa catena di sangue forse occorre spostarsi sul piano psicologico. James Hillman in “Un terribile amore per la guerra” (Adelphi,2005) sosteneva che la guerra, è una pulsione primaria della nostra specie. Di più pensava di aver individuato un rapporto tra religioni monoteiste e aggressività, che forse ci da una chiave di lettura ulteriore. Hilman, inizia citando una scena del film “Patton, generale d’acciaio” di Franklin J. Schaffner (uscito nel 1970 come la prima edizione di questo libro) dove il generale passeggia per il campo di battaglia a combattimento finito: terra sventrata, carri armati bruciati, cadaveri. Volgendo lo sguardo a quello scempio, esclama: “Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita”.
L’idea di Maraini, che conoscendo la storia “tutto diviene chiaro, tanto da poter dire: se fossi nato nelle loro circostanze parteciperei anch’io” non regge all’urto con la diversità del mondo dell’ortodossia ebraica di Mea Shearim dove Maraini cade nei più disarmanti luoghi comuni (in modo del tutto analogo a chi oggi, dopo quattro passi tra gli ortodossi di Williamsburg a Brooklyn, li giudica con disprezzo). “Raramente in vita mia, pur avendo viaggiato parecchio, ho avuto la sensazione di trovarmi dinnanzi a degli esseri umani più “estranei”, più “altri” Meno accessibili a qualsiasi avvicinamento.”
Quando poi di Shabbat Maraini tenta di fotografare un religioso, la sua reazione viene rappresentata attingendo ai più ovvi stereotipi antisemiti “Non l’avessi mai fatto! I patriarchi si tramutano in cani rabbiosi, vengono avanti urlando, imprecando; le loro bocche, poco prima atteggiate alla pronuncia sommessa e gentile di formule sacre, si aprono, si agitano, vedo dentacci gialli, gole piene di spuma e di bava, e gli occhi esprimono odio e disprezzo”. Non è facile conciliare questo passo con l’apertura mentale dimostrata dall’autore quasi in ogni altra pagina del libro.
Il libro è arricchito da 13 fotografie in bianco e nero e 7 a colori dell’autore. Per lo più mostrano una città sventrata dalla guerra e attività quotidiane che suggeriscono un ritorno alla normalità. Visto che il testo parla più che altro dell’invisibile e di ciò che è stato, non era semplice affiancargli delle immagini Alcuni scatti rivelano l’indubbio talento fotografico di Maraini, ma nell’insieme si ha l’impressione che non siano state pensate per questo testo, ma piuttosto come appunti visivi. In contrasto, l’edizione americana del ’69 oltre al grande formato, 28X23 cm, era davvero un libro fotografico con 12 immagini a colori a tutta pagina e 106 immagini in b/n.
Le Pietre di Gerusalemme è un invito a guardare e pensare a quella città; un libro per chi l’ha visitata per chi sogna di andarci e per chi ne è semplicemente curioso. Contiene (ma non voglio anticiparla) forse la più memorabile descrizione in parole del Duomo della Roccia, la Moschea di al-Aqsa, che costituisce l'al-Ḥaram al-Sharīf, considerato dal Sunnismo il terzo sito più sacro del mondo islamico
Né Maraini, né osservatori esterni, né gli abitanti Israeliani e palestinesi, armeni e cristiani della Gerusalemme del 1967, avrebbero potuto prevedere i cambiamenti avvenuti nell'ultimo mezzo secolo. Le brutture, urbanistiche fisiche e morali, le violenze, le recriminazioni, le separazioni sono sotto gli occhi di chiunque visiti la città. Eppure, il fascino millenario della "città santa" descritta da Maraini persiste, quanto meno nell'immaginazione. Le pietre del titolo sono nella loro abbagliante bellezza, reclamate da gruppi e interpretazioni in lotta tra loro. Quel Dio nel nome del quale le tre religioni Abramitiche si contendono le pietre, forse non c'è più. Il movimento dalla trascendenza all'immanenza, che costò a Spinoza la scomunica, cioè l'idea ripresa con valenze diverse da Spinoza, Gesù, Carl Gustav Jung e Joseph Campbell, che Dio non è più nel tempio o su un altare ma dentro di noi, suggerisce che chi cerca Dio lo troverà ovunque, anche a Gerusalemme.