Francesco Permunian. La Casa del Sollievo Mentale

3 Gennaio 2012

La Casa del Sollievo Mentale (Francesco Permunian, Nutrimenti, 2011, pp. 176) è il luogo dove celebrarne l’assenza, il limbo allucinato in cui sostare senza riposo tra il rimpianto della follia perduta e l’incontrollato abbandono. Le pareti sono di carta e parole, solide quanto occorre per imprigionare le anime incendiarie e voluttuose che la abitano, ma non abbastanza per trattenere il contagio.

Sui bordi del lago di Garda, come tra le quinte polverose di un teatro abbandonato, maschere deformate e sconvolte compaiono sul palcoscenico: Alfonso Maria Manotazo, nobile e romantico discepolo di Guido Ceronetti; il parassita Alfreduccio, necrofilo profanatore di cadaveri, libri, bambole e termosifoni; Donna Maria Reginalda, presidentessa delle Dame di San Vincenzo, che offre la redenzione tra le sue gonne di santa.

Nel dramma in due atti della follia, un inconsapevole Caronte bibliotecario accompagna il lettore tra i relitti e i deliri della ragione disfatta e di seguito sfilano variopinti e disperati il pluriomicida impotente, la tanguera etilista, il medico con il vizio della letteratura e la zia Arpalice, stretta dalla schizofrenia tra visioni mariane e amplessi celestiali. Tutti schierati in una democratica giustapposizione in cui la dissennatezza è livella universale.

La seconda parte,orchestrata dalla malinconica requisitoria del criminale nazista Gruber, fa da contrappunto funereo all’angosciata ilarità dell’apertura. Il coro d’ombre nei sotterranei di un albergo fatiscente recita instancabile la sua sentenza di colpa e dannazione; l’infanzia perduta del Novecento è un esercito di polvere e rimorsi, che in file ordinate reclama la vita rubata.

 

Il filo con cui è tessuto il romanzo è la nostalgica riorganizzazione della pazzia, e il risultato è un intreccio impalpabile ma sensibile come un sogno o un’allucinazione. La trama è una tela elastica ed espressionista di cui l’autore si diverte a tirare gli angoli deformando le figure fino all’assurdo ma senza strappi o crepe.

Più che la follia sbrigliata e devastante, il minimo comune denominatore del romanzo pare il tentativo di ammaestrare l’insania, di registrarla nell’improbabile catalogo filologico della risata bresciana o in quello lugubre delle bocche ammutolite dei bambini sterminati dalla pulizia etnica e dei loro denti conservati nelle scatole in cantina.

 

Quella di Permunian è una poesia macabra e crudele che non perde la grazia nemmeno nei toni grotteschi o faceti; una scrittura fatta di volteggi del linguaggio compiaciuti e arabescati che quasi sembrano di maniera, ma le forzature irrimediabilmente si sciolgono nell’atmosfera lirica e spietata del testo.

Le citazioni cadono in cima ai capitoli come epitaffi, la memoria singhiozza e non trova pace, la follia non si spiega ma il libro vive di questa illusione e la musica che pervade la narrazione non stona, è un tango disperato con toni striduli e cigolanti, danzato in una camera buia con due bambole di plastica frivole e smorfiose. Un fotogramma scolorito nell’impossibile catalogo dell’umana follia.

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