Franco Stelzer: una prosa imbevuta di luce

23 Agosto 2024

Esiste qualcosa di molto profondo che unisce in modo chiarissimo i personaggi dei romanzi dello scrittore, traduttore e docente trentino Franco Stelzer: l’amore per il lavoro ben fatto, ogni tipo di lavoro, anche se è umile, anzi soprattutto se umile e correlato alla fatica fisica. A pari merito per l’amore per gli oggetti semplici (dei fazzoletti ben stirati, dei marciapiedi puliti, una ruspa in azione) si colloca l’amore per i gesti semplici di certe persone, per quell’aura indefinibile e misteriosa che le circonda e che, senza che loro ne siano nemmeno consapevoli, spinge i protagonisti ad adorarli a tal punto da sviluppare una vera e propria ossessione nei loro confronti, fino a immaginare spesso una storia platonica che non si concretizzerà mai, ma che contro ogni logica è forse più reale e concreta della vita stessa. 

È in quella vita immaginata e immaginaria che risiede tutto il senso, tutta la commovente e lucente bellezza dei romanzi di Franco Stelzer, che in diciott’anni di attività ne ha pubblicato solamente cinque, rimanendo sempre in disparte rispetto alla scena dell’editoria italiana contemporanea: Ano di volpi argentate (Einaudi, 2000), Il nostro primo, solenne, stranissimo Natale senza di lei (Einaudi, 2003), Matematici nel sole (Il Maestrale, 2009) e infine i due che ho avuto il piacere di recuperare di recente, Cosa diremo agli angeli (Einaudi, 2018) e Stiratore di luce (Hopefulmonster, 2023), peraltro vincitore del Premio Bergamo nel 2024, a cui aveva già partecipato qualche anno prima con il suo romanzo precedente. 

I protagonisti di questi due romanzi lavorano rispettivamente come controllore di passaporti in un piccolo aeroporto e come stiratore in una vecchia bottega che non chiude nemmeno un giorno all’anno. Sono, in un modo che non è né velato né ripudiato o nascosto, delle persone vinte dalla vita, o meglio, uomini che nemmeno ci hanno provato, a vincerla. Il primo è stato lasciato dalla moglie e dai figli, fa un lavoro ripetitivo e ai limiti dell’alienante, nel tempo libero guarda giornaletti porno e costruisce una stanza per degli ospiti che molto probabilmente non arriveranno mai. Il secondo ha una malattia mentale non ben specificata che lo costringe ad assumere altrettanto non bene specificati psicofarmaci, altrimenti c’è il rischio che gli compaiano davanti agli occhi delle macchie di luce, che lui svenga o che addirittura debba andare all’ospedale. Non è chiaro che età abbia, Bodo, (lui ha un nome, a differenza del protagonista di Cosa diremo agli angeli), molto probabilmente sui diciott’anni o poco più, eppure la madre per forza di cose lo tratta come un bambino, lo tiene legato a sé, lo rimprovera in modo affettuoso ma intransigente se prova a prendere l’iniziativa sul lavoro, se parla troppo con i clienti, se discute dei prezzi. 

Nessuno dei due però si compatisce, si deprime, si arrende, come potrebbe fare Stoner nell’omonimo, meraviglioso e straziante romanzo dell’americano John Williams. Non c’è qui nessun senso di incompiutezza, di disfatta, nemmeno di rimpianto. 

I personaggi di Stelzer si godono al contrario la vita nella sua essenza più pura, nelle sue pieghe che agli altri paiono come nascoste. Non trovano, come sarebbe semplice pensare, la gioia nonostante il lavoro: è proprio quello spesso il motore propulsore. Le opere di Stelzer viste in questo senso ben si incastrano con il recente film del regista tedesco Wim Wenders, Perfect days, la cui trama ruota attorno a un uomo sessantenne che come lavoro pulisce i bagni pubblici di un quartiere di Tokyo, dedicandoci estrema cura e passione. Forse sarebbero potute valere anche per il protagonista di Wenders le parole di Stelzer in Cosa diremo agli angeli

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Starsene lì, nel sudore e nella polvere, e vedere come procede il lavoro. Misurare a intervalli regolari di quanto si è stati in grado di avanzare. Intuire, quando si puliscono i detriti, i contorni del progetto finito. E soprattutto, che bello alzare la testa e rendersi conto che, per un’ora o due, non si è pensato a nient’altro che al rumore sordo del corpo, al sudore. Non mi è difficile raggiungere un simile stato. Mi spingo sino a soffrire per le vesciche sulle mani, per il dolore alla schiena, l’indolenzimento delle braccia. Il rumore del corpo mi aiuta a trovare una sorta di piccolo centro. Quindi, all’apice della fatica, io vivo, mi dico. Io vivo!

L’uomo, sembra dirci Stelzer, non vive nonostante la fatica, ma in virtù di essa. Il lavoro fisico non è un abbruttimento, o un oblio, è forse al contrario il momento in cui si è più presenti a sé stessi. È di quello, o anche di quello, che racconteremo agli angeli, quando ci chiederanno il resoconto della nostra vita, quando saremo morti. Agli angeli non diremo le grandi imprese: diremo dei bordi delle strade e dei resti dei pranzi, e forse gli angeli saranno contrariati, ma capiranno. Capiranno che non abbiamo avuto bisogno di loro, perché anche loro sanno apprezzare ciò che è insulso e marginale, ne conoscono la bellezza, e gli esseri umani, in fondo, non conoscono altro. 

Diremo agli angeli che le cose più importanti della nostra vita le abbiamo vissute in momenti secondari. Che abbiamo trovato più emozione e più senso nell’osservare il bordo di una strada che nell’ascoltare conferenze, più pietà e calore nel frugare tra i resti di un pranzo che nel discutere con qualche amico. Che abbiamo saputo guardare dal basso. Che, in un certo senso, non abbiamo avuto bisogno del cielo.

La poesia, la bellezza, sono motivi ricorrenti nelle opere di Stelzer, e si manifestano spesso come piccoli dettagli che illuminano la narrazione senza mai interromperla. Risplende, come suggerito dal titolo, il paesaggio in Stiratore di luce. Bastano pochi elementi: il fiume che scorre nei pressi del Lorettoberg, (una zona collinare vicino a Friburgo) l’acqua pronta la mattina per fare il tè, il rumore delle foglie di faggio mosse dal vento, il profumo dei tigli. Tutto sembra etereo, sospeso, e in un certo senso, eterno. E così rimarrebbe, se Bodo tutto a un tratto non si innamorasse di una donna francese con i riccioli, la Signora (la S maiuscola è un dettaglio non trascurabile), sposata e con figli. L’amore che Bodo prova verso di lei è paragonabile a quello che si prova per i santi, lui non compierebbe mai un gesto azzardato, non farebbe trasparire in alcun modo il suo interesse, per pudicizia, ma intuiamo soprattutto per un profondissimo rispetto. Si limita ad ammirarla da lontano, cerca di regalarle un tavolo che vendono al negozio (prima che sua madre glielo impedisca sconcertata) e quando non ci riesce allora decide perlomeno di aiutarla a trasportarlo in casa, facendosi a piedi tutti i piani di scale dell’appartamento. Per lei smette di nascosto di prendere i farmaci, per poter provare sempre in modo nitido le emozioni che sente quando le è accanto, senza che siano sfocate, confuse, presto dimenticate. Ma le cose cambiano di nuovo, quando la Signora diventa lontana non solo metaforicamente ma anche in modo dolorosamente fisico: lei e la sua famiglia hanno deciso di ritornare nella loro città francese di origine, Belfort, a pochi chilometri dal confine con la Germania, e a un’ottantina da dove vive Bodo. Potrebbero sembrare molti, troppi, per chiunque non possieda un mezzo di locomozione, ma non per Bodo. Così come aveva deciso di smettere di prendere i farmaci, di nuovo di punto in bianco e in gran segreto dalla madre segna il definitivo passaggio all’età adulta, e sceglie che lui quella donna la ritroverà, percorrendo ottanta chilometri a piedi. Il suo cammino somiglia in tutto per tutto a un pellegrinaggio, Bodo sembra instancabile, lieto della fatica fisica, e soprattutto fiducioso. Quando, nelle ultime righe, al limite delle forze ma arrivato infine alla meta, si accascia dolcemente sull’erba, non è solo felice o esultante. Bodo, scrive Stelzer, è beato. È imbevuto di luce. E di luce sembra in realtà imbevuta anche la prosa di Stelzer, che alterna un periodare paratattico, semplice, che segue in modo lineare i pensieri di Bodo, a riflessioni puramente e squisitamente filosofiche, anche quando all’apparenza non lo sembrano, come accade soprattutto in Cosa diremo agli angeli

C’è uno che pulisce il marciapiedi davanti a casa. Lo fa con tale cura che, dopo, l’asfalto sembra un lenzuolo. Un letto appena rifatto. Vale lo stesso per una donna delle pulizie, all’aeroporto, che si accanisce sulle chiazze di calcare. Se li pulisci bene, dopo, i water rifioriscono. Non è che si sta spingendo un poco fuori tema? Affatto! Se mi chiedono dei miei gusti in fatto di umani, rispondo che amo le persone che producono, ogni giorno, una piccola dose di bellezza. Del tipo: cose semplici, cose che rasserenano. Water che fioriscono, appunto. Spazzoloni che scintillano nel sole. Sifoni felici, ansanti, liberi, finalmente, dai grossi grumi di capelli inzuppati.

Non si può fare a meno di vederle davanti agli occhi, le immagini che Stelzer dipinge. Si termina l’ultima pagina, si chiude il libro, e questi appaiono come visioni. L’asfalto che pare un lenzuolo. Un water che fiorisce. Spazzoloni che scintillano nel sole. 

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