Giudici e governo

14 Gennaio 2025

Tramite suffragio universale, com’è noto, il popolo affida un mandato quinquennale a un parlamento, e nel parlamento si formano le maggioranze di governo che per cinque anni imprimono un indirizzo politico al paese alla luce di quanto promesso in campagna elettorale. Questo è il quadro della nostra democrazia che ci offre la Costituzione – ma è più che possibile che a questo quadro si stia dicendo addio, dato che quel sistema vale, sì, ma solo sulla Carta.

Qualche settimana fa la Corte Costituzionale ha di fatto smantellato la Legge per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, meglio nota come Legge Calderoli. La sentenza non ha all’apparenza nulla di rivoluzionario rispetto al tradizionale schema di gioco della democrazia parlamentare: il governo ha presentato un disegno di legge, il parlamento lo ha discusso e approvato; la Corte, su richiesta di alcune regioni, ha valutato la sua legittimità costituzionale, esprimendo in questo caso un parere negativo su molti suoi aspetti. Ciononostante, dietro l’apparenza di una procedura ordinaria, si nasconde uno scontro senza esclusione di colpi tra il governo e le corti più alte – scontro che, più che a un incontro di stagione regolare, somiglia a una di quelle partite decisive per definire l’esito dell’intera stagione.

Come si diceva in apertura, quella che volge al termine, con meno clamore di quanto meriterebbe, è senza dubbio la stagione della democrazia parlamentare, almeno per come l’abbiamo intesa negli ultimi settant’anni. Una democrazia imperniata sulle elezioni, mediante cui i cittadini scelgono dei rappresentanti parlamentari e affidano loro il compito di tradurre la volontà popolare in decisioni politiche concrete. In questo schema a noi tanto familiare, e all’apparenza ancora valido, il governo e i giudici rispettivamente attuano e applicano le leggi emanate dal parlamento, il quale funziona da principale finalizzatore del gioco democratico. Ecco: questo schema oggi non funziona più. Il parlamento è sempre più relegato al ruolo di riserva, mentre il governo, da un lato, e le corti, dall’altro, tendono a prendere le redini della partita. In tal modo, come il filosofo Mariano Croce ha sostenuto a più riprese sul quotidiano Domani in una serie di interventi specificamente dedicati al tema qui in discussione, si profilano due transizioni di sistema parallele e conflittuali, l’una verso una “democrazia esecutiva” e l’altra verso una democrazia a trazione “giurisprudenziale”, a tutto svantaggio della tradizionale “democrazia parlamentare”.

Il governo – non solo quello italiano, ma più in generale di tutti gli stati a propulsione populista e illiberale, come quello del capofila Viktor Orbán in Ungheria, assiema a molti suoi imitatori, europei e non – aspira a un esecutivo forte, che pretende di farsi ispiratore delle attività parlamentari e quindi di avere una priorità normativa e fattuale rispetto al potere legislativo. La vecchia separazione dei poteri, pilastro del costituzionalismo liberale, è relegata a oggetto d’antiquariato, mentre un potere esecutivo a briglie sciolte – The Executive Unbound, recitava non a caso il titolo di un libro di qualche anno fa dei noti giuristi statunitensi Eric Posner e Adrian Vermeule – si autoproclama più efficiente nel dar corpo e voce alla volontà popolare rispetto alle lungaggini del dibattito parlamentare. Poco importa poi se tale volontà popolare sia ben più frammentata e plurale di quanto il governo sia disposto a concedere: il compito dell’esecutivo, in questa concezione da brividi, è proprio unire a detrimento delle eventuali differenze.

Il caso dell’autonomia regionale è in tal senso eclatante: in sole tre settimane è stato raggiunto il quorum di firme necessarie per promuovere il referendum abrogativo della Legge Calderoli, che, è notizia di questi giorni, la Cassazione ha dichiarato legittimo. Questo non è che uno dei sintomi di una retorica governativa che giustifica l’esercizio “forte” del potere come più rispondente e fedele alla volontà e al sentire popolare, benché questa presunta rispondenza e questa presunta fedeltà non corrispondano affatto ai bisogni più urgenti della cittadinanza. Purtuttavia, il modello di democrazia esecutiva che si va delineando in Italia e non solo, con al centro un governo forte che lascia tendenzialmente in panchina il parlamento, è innegabilmente in grado di attrarre un sempre maggiore consenso elettorale.

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La sentenza della Corte costituzionale che blocca l’attuazione della legge sull’autonomia sottolinea però che questa non è una partita a due tra governo e parlamento. Le corti sono sempre più inclini a scombinare il piano partita del governo e sembrano decise a rallentare l’avanzata della democrazia esecutiva. Secondo alcuni studiosi, le corti starebbero prevalentemente giocando in difesa, nel tentativo di supplire all’inerzia del parlamento. Secondo altri, invece, quello dei giudici sarebbe classificabile come un gioco d’attacco: essi, cioè, non starebbero soltanto difendendo la vecchia democrazia legislativa, bensì tentando di imprimere a loro volta una torsione, in questo caso giurisprudenziale, alla partita democratica. In tal senso, come nei più tetri incubi della destra di governo, si parla di un futuro politico piuttosto prossimo segnato dal “governo dei giudici”.

Che si propenda per una lettura più o meno forte dell’attivismo giudiziario, è certo che il peso delle corti nella vita democratica di molti paesi è in vistosa crescita. Si pensi a due casi recenti e controversi come l’annullamento dell’esito del voto popolare alle elezioni presidenziali da parte della Corte costituzionale della Romania e, per restare alle vicende italiane, il rifiuto del Tribunale di Roma di convalidare il trasferimento dei migranti dall’Italia ai Centri di permanenza in Albania. Quel che emerge è un sempre più accentuato conflitto tra il rafforzamento dell’esecutivo, da un lato, e il modello giurisprudenziale promosso dalle corti, dall’altro.

Torniamo allora sulla sentenza della Corte costituzionale sulla Legge Calderoli, che costituisce un esempio icastico della doppia transizione in atto e mette in scena il conflitto con stimabile trasparenza. Le motivazioni della sentenza, rese pubbliche lo scorso 4 dicembre, dichiarano che la ripartizione territoriale delle funzioni statali non ha di per sé nulla di incostituzionale. Tuttavia, secondo la Corte, essa è legittima solo nella misura in cui corrisponde al modo migliore di realizzare i “principi costituzionali”. È esattamente sull’interpretazione e la tutela di questi ultimi che si gioca la partita dei giudici. In linea con il modello di democrazia legislativa, la Corte ribadisce che gli interventi delle amministrazioni pubbliche e degli organi regionali su, ad esempio, sanità, istruzione e altri diritti sociali e civili dei cittadini, sono subordinati alle decisioni del legislatore statale.

Quest’ultimo, infatti, ha il compito di definire i Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), che devono garantire uno standard uniforme delle prestazioni relative ai diritti in tutta Italia. In questa chiave, il problema della Legge Calderoli è che prevede una delega alla Presidenza del Consiglio, la quale avrebbe potuto modificare in futuro i LEP tramite d.P.C.m. Secondo la Corte, questo scavalcamento del parlamento da parte del governo delinea un profilo di illegittimità.

Ben al di là di questo, però, la Corte non si limita a ribadire la subordinazione dell’esecutivo al parlamento in materia legislativa. Essa afferma bensì che neppure il legislatore può intervenire a proprio piacimento in ordine alle prestazioni dei diritti sociali e civili. Il legislatore, infatti, determina i LEP sulla base delle risorse disponibili. Tuttavia, i LEP devono fissare una soglia che sia uguale o superiore, e mai inferiore, a quello che la Corte definisce, con parole in cui risuonano cent’anni della più nobile riflessione giuridica, “il nucleo minimo del diritto”. Quest’ultimo è un limite derivante dalla Costituzione stessa – non tanto dal testo costituzionale di per sé, quanto dai suoi principi fondativi, di cui la Corte si fa garante e interprete, e che altrove nella sentenza chiama anche “principi costituzionali”. Il nucleo minimo del diritto è dunque ritenuto dalla Corte un valore non negoziabile, che vincola l’attività del legislatore e che, a differenza dei LEP, non dipende da considerazioni di ordine finanziario o di altro tipo. Beninteso: questo nucleo, vincolo sommo tra i vincoli giuridici, viene determinato dalle Corti e affidato alle loro cure tutelari.

Ecco dunque che la partita della Corte si gioca a un livello indisponbile alla politica: l’individuazione di un piano di “superlegalità costituzionale”, ossia del valore non negoziabile di alcuni principi fondativi, considerati persino più rilevanti che non il diritto positivo di produzione parlamentare. La superlegalità, su cui si inscrivono i principi fondanti della Costituzione, costruisce una cornice normativa che l’attività parlamentare e quella governativa devono rispettare se intendono superare il test di costituzionalità. In questo schema di democrazia giurisprudenziale, le alte corti non si limitano ad applicare la legge, bensì tentano di asserragliare i principi e i valori fondanti della Costituzione, e in particolare quelli che esse selezionano come tali, rendendoli indisponibili a modifiche da parte degli altri organi statali. Si tratta in tutta evidenza di una visione antitetica a quella che anima le democrazie esecutive, le quali per l’appunto non risparmiano energie nelle critiche (spesso sguaiate) al tentativo dei giudici di mettere a soqquadro il sistema istituzionale, quasi questi compartecipassero a un prestabilito piano di golpe giudiziario. Questi attacchi sono peraltro supportati da celebri fan del modello di democrazia esecutiva, come Elon Musk, che è di recente intervenuto sullo scontro italiano tra governo e magistratura mettendo nero su bianco la seguente posata e protocollare asserzione: “Questi giudici devono andarsene”.

Insomma, la sentenza della Corte costituzionale sulla Legge Calderoli affresca a toni vividi e con poche sfumature la lotta sotterranea ma stridente tra corti e governo – una lotta che sta ormai saturando non solo la cronaca politica italiana, ma anche, e con ben più serie conseguenze, il processo democratico. Comunque la si guardi, che si faccia il tifo per la svolta “esecutiva” oppure per quella “giurisprudenziale”, questa partita sta riscrivendo le regole del gioco della democrazia. E allora sarà bene che si avvii una riflessione aperta e ponderata, capace di coinvolgere strumenti di intervento collettivo, prima che, come recita il titolo di un importante libro di Nadia Urbinati, la democrazia ne esca “sfigurata”.

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