Gli appassionati dilettanti della conoscenza

11 Ottobre 2013

Felice di aver letto il contributo di Gianfranco Marrone, utile per riproporre un tema di importanza capitale in epistemologia, vorrei entrare con coraggio nelle attuali pratiche di produzione della conoscenza per capire se le proposte di Da Empoli abbiano delle possibilità di successo.

 

Sono convinto che la distanza tra le ambizioni degli approcci interdisciplinari e la loro effettiva diffusione risieda nel modo in cui è organizzato l’attuale sistema della ricerca. Oggi la conoscenza richiede grandi investimenti nella maggioranza dei campi, e, pertanto, molto denaro. Il modo di distribuirlo poggia soprattutto su bandi pubblici o sulla carriera accademica, i criteri di valutazione sono incentrati su parametri oggettivi, il più importante dei quali è l’impact factor, un indice che misura quanto sono stati citati gli articoli pubblicati nelle riviste peer review [semplifico, naturalmente, per ragioni di tempo; chiunque volesse approfondire il tema potrà consultare l’ottimo testo di Laurent Ségalat La scienza malata? Come la burocrazia soffoca la ricerca, una coraggiosa analisi dello stato della ricerca scientifica].

 

Si tratta di un sistema che spinge a pubblicare il più possibile e nelle riviste più prestigiose. La rapidità di pubblicazione richiede che gli esperimenti possano produrre risultati in tempi ragionevoli, e conviene allora che siano solo piccole modifiche delle condizioni di studi precedenti senza troppi sconvolgimenti (che richiedono tempo per calibrare gli strumenti, per raccogliere e analizzare i dati, ecc). La revisione è fatta da esperti del settore nei ritagli di tempo: è pertanto utile rimanere fedeli alle convinzioni main stream, utilizzare un lessico condiviso, perché ciò facilita la comprensione.

 

Nelle discipline umanistiche è più importante pubblicare monografie, più costose e difficilmente alla portata di sconosciuti (con la crisi dell’editoria è evidente che vanno pagate); si pubblicano allora grandi collettanee sui temi più interessanti del momento – e questo confina un po’ gli orizzonti disciplinari.

 

L’insegnamento universitario, infine, costringe a standardizzare le competenze e a raggruppare i problemi in pochi nuclei: perché un testo filosofico, per esempio, possa avere qualche interesse, deve tendenzialmente rispondere a una diatriba in corso e inserirsi in un filone di pensiero ben preciso. Nessun professore avrebbe il tempo di ascoltare un filosofo decontestualizzato.

 

Alla luce di questo stato di cose, la specializzazione è una necessità: per pubblicare, per fare avanzamenti di carriera e poter continuare a dedicarsi alla propria passione, la ricerca. Per chi non si adegua, rimane forse la possibilità di fare il “dilettante per professione”? Naturalmente no. Gli rimane l’opportunità di fare il blogger se ha un lavoro che gli consente di sopravvivere – e fino a che ha tempo libero.

 

Che dire della soluzione “rinascimentale” che intravedo in Da Empoli? Possibile solo a un livello divulgativo, molto difficile, infatti, poter dire qualcosa di nuovo: qualunque disciplina ha oggi una profondità troppo ampia perché una singola persona possa padroneggiarla nei suoi sviluppi continui. Alcune cifre, tratte da Ségalat: “1,5 milioni di articoli scientifici sono pubblicati ogni anno in circa 16 000 riviste, ossia un aumento medio del 5% annuo (9% in biologia e sanità). Dal 25 al 45% di questi articoli non è mai citato, e una buona fetta senza dubbio non viene mai letta”.

 

Quali soluzioni, allora?

 

In primo luogo, riprendo il concetto di traduttore-facilitatore proposto da Marrone. Occorrono un buon background umanistico (retorica, linguistica, filosofia) e solide basi scientifiche (statistica, epistemologia, oltre alla disciplina di riferimento). Una figura tutt'altro che dilettantesca nel proprio lavoro, serissimo, di “ufficiale di collegamento”. E quindi un po' specializzata. Mi immagino questi traduttori inseriti in grandi team interdisciplinari per svolgere quel lavoro di comprensione reciproca reso difficile da lessici sovente intraducibili e dall’abitudine di lavorare solo sui propri problemi tradizionali. Perché possano nascere questi team è però necessario ripensare il finanziamento della ricerca.

 

Allargare gli orizzonti temporali è qui fondamentale: cinque anni bastano raramente. Si aggiunga che occorre un lungo lavoro preparatorio di almeno uno-due anni solo per comunicare efficacemente. Portiamo i bandi interdisciplinari a dieci anni, incentriamoli su obiettivi davvero ambiziosi, decidiamo che una percentuale minoritaria degli investimenti complessivi in conoscenza debba alimentare ricerche interdisciplinari ad alto rischio. In cambio chiediamo ai traduttori di porsi anche come divulgatori, di modo che la conoscenza che hanno contribuito a generare non rimanga confinata nelle riviste specializzate ma ritorni alla società. Chi meglio di loro capisce di cosa stanno parlando, dovendo tradurlo e, quindi, reinterpretarlo? Basterebbe imitare il modello del College de France: enseigner la recherche en train de se faire.

 

Ho lanciato alcuni spunti, magari validi, ma difficilmente possono essere sufficienti: perché occorre ripensare anche il modo di strutturare e valutare la ricerca scientifica. Oggi è una competizione serrata, in cui talvolta avvengono scorrettezze come revisioni volutamente ritardate (per fregare sul tempo), dati falsificati (per rendere l’esperimento più interessante), dati copiati (per risparmiare tempo) e appropriazioni indebite ai danni dei propri dottorandi. Cito sempre da Ségalat: “in biologia, le quattro riviste più conosciute totalizzano da sole il 20% degli articoli ritirati. Ma, soprattutto, è quadruplicato in vent’anni il numero degli articoli ritirati, infima punta dell’iceberg della frode scientifica”.

 

Serve allora una scienza più social e meno logorroica: ogni anno si pubblicano milioni di articoli che nessuno legge. L’articolo, con le sue pagine di inquadramento, introduzione metodologica e bibliografia sconfinata, non è forse oggi lo strumento più adatto per trasmettere i risultati sperimentali e animare una profonda discussione intorno a essi. Ci sono molte informazioni ridondanti: non sarebbe meglio radunare gli studi riguardanti lo stesso filone in community on-line che isolano e contestualizzano il lato più statico (metodologie, fonti) e rendono più dinamica la pubblicazione dei nuovi risultati? Per dare due analogie imperfette, mi piacerebbe che l’aspetto statico funzionasse come Media Wiki e quello dinamico seguisse un po’ la struttura dei forum. Immaginiamo che, all’interno di una community di neuroscienziati, ci sia un topic sulla percezione della temporalità; i ricercatori, invece di pubblicare paper infarciti di citazioni, aggiungono post con risultati sperimentali e proprie interpretazioni e commentano i post degli altri sotto l’egida di moderatori specializzati. I post appaiono in base ai voti e alla rilevanza percepita dalla community, di modo da evitare un eccesso di informazioni. A fianco del flusso di interpretazioni, i dati grezzi, a disposizione di tutti. Un esperimento di accumulazione condivisa di conoscenza, molto interessante, è rappresentato da http://www.wormbase.org/#01-23-6

 

Si perde forse di vista l’apporto del singolo ricercatore e diventa impossibile valutarlo? No, semplicemente si sostituisce un approccio individualista con uno basato sulla social reputation.
Per le discipline umanistiche potrebbe essere interessante organizzare delle pubblicazioni mediante Media Wiki, soprattutto attorno ad argomenti molto dibattuti, in modo da mantenere la complessità del confronto e renderla visibile ai lettori.

 

Creeremmo conoscenza in maniera più efficiente e più accessibile: oggi è infatti impegnativo formarsi a suon di paper letti, perché si perdono centinaia di ore a inseguire citazioni e, in molti ambiti, non esistono manuali davvero aggiornati. Purché ci siano dei pionieri che rischino di diffondere dati preziosi: più facile partire laddove ci sono pochi interessi economici in gioco, per esempio nelle malattie rare.

 

Ecco allora che i dilettanti di professione, o “professional amateurs”, hanno un’opportunità per continuare a esercitare la propria passione, potendo informarsi meglio e più rapidamente. Potrebbero contribuire all’avanzamento della ricerca scientifica anche senza entrare nell’accademia, intervenendo sulle comunità aperte. La presenza di revisori più esperti dovrebbe ridurre errori e trivialità. I vantaggi derivati dal loro apporto possono essere di due tipi: maggiore anticonformismo e maggiore vicinanza al cosiddetto uomo della strada. Dalla Gestalt sappiamo che vedere un problema da un’altra prospettiva può favorire la nascita di nuove soluzioni; secondariamente, non sono rari i casi di scienziati che hanno operato vere “invasioni di campo” - penso all’importanza dei contributi di Turing e Von Neumann nel campo della biologia.

 

Resta da vedere se il pubblico sia pronto ad accettare i contributi dei dilettanti. Qui ho qualche motivo di scetticismo, perché temo che la figura dell’esperto, inteso come massima autorità che può esprimersi su determinati argomenti, sia molto apprezzata per ragioni poco lusinghiere: pigrizia e insicurezza. L’esistenza di esperti ci rassicura sul fatto che sia possibile trovare risposte ai problemi più pressanti, purché si interroghino le persone giuste. E, in fondo, ci esime dalla responsabilità di informarci e ragionare, sforzandoci di capire le tesi avversarie.

 

Ecco perché l’appassionato viene visto con sospetto e insofferenza: perché ci ricorda che, se studiassimo, anche noi potremmo occuparci di temi complessi e partecipare al dialogo democratico, oggi ridotto al minimo e coltivato per lo più da specialisti e curiosi. Invece dividersi su questioni come gli OGM e l’eutanasia, seguendo le proprie tifoserie, ci semplifica la vita, giustifica la nostra inedia, potendo scaricare sempre sulla malafede degli altri quello che non capiamo. Ma qui sto aprendo nuovi e ulteriori fronti, come l'educazione scientifica (poca) e la divulgazione di qualità (ancora minore).

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