HIV, la cura inaspettata
Può un nemico giurato trasformarsi in alleato prezioso? Sicuramente è accaduto più volte nel corso della Storia. È accaduto anche nella storia della medicina. Uno dei casi più recenti è quello narrato in La Cura Inaspettata. L’HIV da peste del secolo a farmaco di precisione, di Alessandro Aiuti con Anna Maria Zaccheddu, edito da Mondadori. E in questo caso il nemico è uno che ha sempre fatto e ancora fa moltissima paura: il virus dell’HIV. Eppure proprio questo virus si è trasformato, nel corso del tempo, in una speranza anzi in una cura – “una cura inaspettata”, come sottolinea il titolo di questo volume – per alcune malattie genetiche rare.
Alessandro Aiuti, autore di questo volume insieme alla divulgatrice scientifica Annamaria Zaccheddu, non è solo un medico, un immunologo e uno straordinario ricercatore. È un pioniere nel campo delle immunodeficienze primitive, malattie genetiche rare che interessano il sistema immunitario e ne compromettono il corretto sviluppo e funzionamento. Aiuti e il suo gruppo hanno infatti realizzato la prima terapia genica con cellule staminali ematopoietiche (o del sangue) ad essere approvata per l’immissione in commercio al mondo: la terapia genica per il trattamento di ADA-SCID, una malattia genetica rara che colpisce il gene ADA, che codifica per un enzima coinvolto nell’eliminazione di sostanze tossiche dal corpo.
Oggi Aiuti è primario dell’Unità Operativa di Immunoematologia Pediatrica all’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, professore ordinario di Pediatria all’Università Vita-Salute San Raffaele, nonché vicedirettore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica SR-Tiget, dove dirige l’unità di ricerca Patogenesi e terapia delle immunodeficienze primitive.
Alessandro Aiuti è tuttavia anche il figlio di Fernando Aiuti. Ed è da lui che questo libro comincia. Anche chi crede di non sapere chi sia Fernando Aiuti, ne ha molto probabilmente visto almeno una foto, la foto di un bacio. Si tratta del bacio che scandalizzato l’Italia agli inizi degli anni ‘80, quando l’HIV aveva cominciato a presentarsi prepotentemente, a scatenare paure ragionevoli ma anche irrazionali e ingiustificate e a far germogliare stigma che ancora oggi resistono alla prova non solo del tempo ma anche delle evidenze scientifiche e dei dati in grado di smontarli. È il provocatorio bacio che Aiuti padre si scambia durante un congresso, in pubblico, con Rosaria Iardino, giovane paziente, attivista per i diritti delle persone sieropositive, sieropositiva lei stessa, per scardinare il pregiudizio secondo il quale l’HIV si trasmetterebbe attraverso un bacio o comunque uno scambio di saliva – quindi la condivisione di bicchieri, posate, altri utensili.
Fernando Aiuti è stato tra i primi medici e ricercatori italiani a occuparsi di HIV e AIDS e, insieme alla sua famiglia, anche tra i primi a schierarsi contro pregiudizi e per la difesa dei diritti delle persone con HIV. Una sfida che questo libro ricostruisce con la lucidità e il dettaglio di chi c’era, ma senza tono eroico, da epopea: solo la verità, la storia come è stata perché quegli anni, dal 1981 ad almeno il 1996 – anno in cui è stata messa a punto la prima terapia antiretrovirale (HAART – Highly Active Anti-Retroviral Therapy) – sono stati per chi li viveva da paziente o da medico curante un vero inferno, come anche montagne russe con discese improvvise e profondissime e risalite lente a faticose per chi faceva invece ricerca, e non hanno bisogno di ritocchi letterari.
Fortunatamente dal 1996 a oggi sono state sviluppate molte varianti della terapia antiretrovirale, che hanno progressivamente ridotto gli effetti collaterali, il numero di pillole da prendere quotidianamente, la frequenza della somministrazione della terapia, e che hanno portato anche a personalizzazioni del trattamento. Grazie a queste terapie e alla continua ricerca oggi le persone che vivono con HIV in cura non solo vivono una vita paragonabile in tutto a quella delle persone che non hanno contratto il virus – certo devono continuare a prendere una pillola per tutta la vita, ma questo è vero anche per molte moltissime persone che convivono ogni giorno con una malattia cronica, cardiaca per esempio o renale – e soprattutto non sono più a rischio di trasmettere il virus.
Oggi infatti siamo a conoscenza di una nuova equazione che andrebbe insegnata nelle scuole: U=U, ovvero Undetectable = Untrasmittable; l’equivalente italiano è N=N, non rilevabile = non trasmissibile. Questa equazione indica che una persona con HIV che grazie alla terapia tiene sottocontrollo il virus tanto da non renderlo rilevabile agli esami, non trasmette il virus attraverso attraverso rapporti sessuali non protetti.
Tuttavia questo stigma è ancora lontano dall’essere superato. L’HIV fa ancora paura, tanta, tantissima e questa paura oltre a danneggiare chi con il virus convive ogni giorno rischia di danneggiare anche quelle colpite da quelle malattie genetiche rare che questo virus può aiutare a curare una volta per tutte, venendo impiegato come vettore virale – come rider, potremmo dire – di terapie geniche mirate e personalizzate. Sembra un paradosso e invece è realtà: il virus dell’HIV per alcune persone è sinonimo di speranza, di cura, di vita. E non da oggi. L’ipotesi di poter impiegare il virus dell’HIV come vettore virale infatti era emersa già nel 1996, grazie al lavoro di un team del Salk Institute for Biological Studies di La Jolla, in California, guidato da un italiano Luigi Naldini.
Infatti, l’HIV, è un retrovirus a RNA estremamente efficiente e per questo perfetto come vettore: si infiltra con facilità nelle cellule e ha gli strumenti per sintetizzare DNA da integrare al DNA ospite – con relativa informazione genetica – a partire dal suo RNA, ovvero è in grado di fare il contrario di quello che avviene normalmente nelle cellule. “Il paradosso”, spiega lo stesso Aiuti nel libro, “ è che mentre nei pazienti con infezione da HIV non si riesce a debellare il virus perché si è integrato in qualche cellula dell'organismo, nella terapia genica quella stessa capacità di inserirsi stabilmente nel genoma umano è proprio l’arma vincente per ottenere una cura definitiva”.
Naldini dalla California è poi tornato in Italia, nel 2003, all’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica SR-Tiget, dove ha incontrato e lavorato insieme a straordinari ricercatori come (ma non solo) Maria Grazia Roncarolo, al tempo direttrice dell’Istituto, Alessandra Biffi e – appunto – Alessandro Aiuti per mettere a punto una terapie geniche basate su un vettore ad HIV per malattie rare come leucodistrofia metacromatica e la sindrome di Wiskott Aldrich. I loro successi sono stati straordinari e continuano ad esserlo. Per la prima oggi esiste una terapia genica approvata anche in Europa mentre per la seconda una terapia nata proprio nei laboratori del SR-Tiget è ancora in fase di sperimentazione, come lo sono quelle – sempre messe a punto all'istituto milanese – per la mucopolisaccaridosi di tipo 1H e la beta-talassemia. E la ricerca continua, e altre sperimentazioni vanno avanti. Come ricorda il sito della fondazione Telethon: “Delle 12 terapie geniche che hanno finora ottenuto l’autorizzazione in Europa, cinque si basano su questo tipo di vettori” ed incredibile pensare che, per parafrasare le parole di aiuti proprio un virus tanto temibile, in grado di distruggere le difese immunitarie di persone giovani e in perfetta salute possa essere oggi un farmaco di precisione in grado di salvare le vita di bambini il cui sistema immunitario non ha mai funzionato.
Bambini colpiti da malattie rare che, tuttavia, se prese in considerazione tutte insieme, portano a numeri importanti: oltre 7000 patologie per più di 350 milioni di pazienti in tutto il mondo. Purtroppo la rarità di queste patologie le rende un target poco interessante per l’industria, la stessa che ha lavorato al fianco dei ricercatori per mettere a punto proprio queste stesse terapie geniche che ora rischiano di essere inaccessibili, non commercializzate, inutilizzate. Insieme a quello di una cura definitiva per l’infezione da HIV questo è il prossimo capitolo di questa storia, durata 40 anni e che ancora non è finita, né per chi con questo virus convive né per chi grazie a questo virus può avere una speranza di vita.