Economia politica del comune / Il comunismo del capitale
Il capitalismo è cambiato. Lo dice Andrea Fumagalli. E l’ha detto, per molto tempo, la sua scuola; la tradizione dell’autonomia, che a partire dai primi scritti di Mario Tronti e Raniero Panzieri degli anni sessanta, passando per l’esperienza intellettualmente feconda di potere operaio degli anni settanta e le brillanti analisi del post-fordismo e della nuova figura dell’‘operaio sociale’ degli anni ottanta, sempre con l’analisi saldamente ancorata nel pensiero del ormai internazionalmente riconosciuto maestro del Italian Theory Antonio Negri, ha sviluppato un marxismo per l’era digitale, incentrata sui Grundrisse, e in particolare sul celebre ‘frammento sulle macchine’, più che sul Capitale. Insieme a Christian Marazzi e Maurizio Lazzarato, Andrea Fumagalli è la persona che più ha contribuito a questa prospettiva, aggiungendo una solida base empirica fondata sulla sua esperienza da economista di professione.
Il nuovo libro di Andrea, Economia politica del comune, raccoglie una serie di saggi, per la maggior parte pubblicati altrove in precedenza, che riassumono la sua analisi del capitalismo contemporaneo post-crisi. Per l’autore, lo scenario degli ultimi dieci anni è stato un rafforzamento di un modello di biocapitalismo dove lo sfruttamento capitalista si basa non più sul semplice furto del tempo di lavoro nell’ambito delle fabbriche o sull’appropriazione della produzione intellettuale, in forma di innovazione tecnologica o proprietà intellettuali, centrali per l’analisi del capitalismo cognitivo, ma ormai sulla sussunzione – cioè l’inclusone e la messa a lavoro – delle dimensioni più profonde della condizione umana, come quelle relative agli affetti o alle relazioni, particolarmente quando sono articolate tramite l’onnipresente connettività degli smartphone e dei social media, e fino ad arrivare persino alla vita stessa in quanto oggetto della biotecnologia.
L’unione uomo-macchina, visibile e potenziale oggetto di critica o sabotaggio nelle fabbriche fordiste, è ormai progredita fino a diventare parte della condizione umana e in questo modo capace di rendere la vita stessa – la nuda vita, direbbe Agamben – nelle sue dimensioni pre e post umane, in vitro così come in silico, oggetto di appropriazione e valorizzazione capitalista.
Nel biocapitalismo la produzione si basa sulla messa in lavoro del comune, un concetto che si distingue da quello dei beni comuni, anche se questi ne sono una parte, ma che si riferisce anche a quella vita in comune – costituita da elementi quali il linguaggio, i gesti, gli affetti, la corporalità e le relazioni – che adesso, tramite le tecnologie digitali, viene potenzialmente messa a lavoro nelle sue manifestazioni più svariate: il freelancer che organizza la sua temporanea cooperazione con un team per uno specifico progetto progetto, l’ospite Airbnb che si sforza per offrire un’esperienza di soggiorno positiva o l’adolescente che posta un selfie con il suo brand preferito su Instagram.
La valorizzazione capitalista e anch’essa progredita ben oltre il modello marxiano del borghese bevitore di sudore operaio. I mercati finanziari giocano un ruolo sempre più centrale e, tramite la finanziarizzazione della vita e delle relazioni produttive, operano come dei giganteschi aspirapolveri che risucchiano briciole di plusvalore dal tessuto produttivo e riproduttivo globale – la carta di credito, l’assicurazione sulla spedizione necessaria nella just in time value-chain – per poi redistribuirle, senza trasparenza o regolazione democratica, sui mercati finanziari. In questa situazione in cui la socializzazione delle forze produttive, il comune che costituisce la vera fonte di valore – che ormai ha lasciato le avide tasche del singolo borghese per circolare sui mercati finanziari in forma di dati digitalizzati – il comunismo è già con noi, solo che non ci appartiene. Il biocapitalismo rappresenta il realizzarsi del comunismo del capitale, celebre concetto ripreso da Antonio Negri – e da Marx che, seppur non lo usa mai, accenna a questa possibilità nel Grundrisse.
Che fare allora, compagni? Non c’è più una fabbrica da sabotare, né un palazzo d’inverno da conquistare. Ma, suggerisce Andrea, possiamo appropriarci degli strumenti in mano alla classe capitalista: la finanza e la moneta. La moneta, – scrive Andrea – è ormai un’espressione diretta del potere capitalista, senza l’intermediazione dello stato. Andrea ci propone la creazione di monete e strumenti finanziari alternativi, suggerendo l’uso della seducente tecnologia delle criptomonete: blokchain e bitcoin, che riescono a instaurare circuiti di valorizzazione esterni alla finanza globale; sarebbe auspicabile una nuova moneta del comune adatta a finanziare un nuovo welfare del comune, innescando processi di redistribuzione locale, per poi lascarli crescere e acquisire un’autonomia sempre più potente. Una strategia simile a quella dell’autonomia degli anni ottanta, e dei TAZ di HakimBeyiana, memoria dell’età d’oro dei centri sociali italiani degli anni novanta che, fra l’altro, Andrea riconosce come la sua principale fonte d’ispirazione.
Il libro propone una sorta di somma teorica da parte di uno dei principali esponenti non solo del pensiero marxista contemporaneo ma di uno dei suoi filoni più fecondi. In quanto tale va letto, in particolare il saggio introduttivo La premessa e Venti tesi sul capitalismo bio-cognitivo, che riassume l’argomento con ammirevole chiarezza. Per me è stato un’esperienza molto feconda, Andrea è ed è sempre stato, sin dalla sua brillante analisi delle nuove forme del lavoro autonomo di seconda generazione nel 1994, un Maestro.
Allo stesso tempo penso che il libro un po’ esageri la presa e il potere del biocapitalismo. Ne viene fuori un’immagine totalitaria, dove ogni attività umana è immediatamente sussunta e sfruttata, dal pedalare per Deliveroo allo stare su Facebook, e, usando la stessa logica – perché no –, giocare al calcetto è in realtà un modo per contribuire a riprodurre le basi del mercato calcistico che sfrutta i fan così come l’audience televisiva. Quello che a me ha cominciato a colpire, ultimamente, è invece la straordinaria inefficienza del capitalismo contemporaneo nello sfruttare il comune che ha in parte generato. Facebook, Airbnb e Amazon realizzano dei guadagni tutto sommato modesti, Uber e Deliveroo sono in perdita, start-up incubator di tutto il mondo stanno abbandonando il modello cash for equity, scoprendo che non si fanno molti soldi incubando start-up. Soprattutto, c’è una carenza di innovazione e di idee: le grandi multinazionali hanno riserve liquide di dimensioni senza precedenti storici – Apple annuncia un stock buy back di $ 100 miliardi –, e nessuno sembra in grado di trovare un utilizzo profittevole dei big data o degli algoritmi che vada oltre il perfezionamento del targeting pubblicitario o il consiglio di altre canzonette che potrebbero piacerti su Spotify.
Un capitalismo del genere non potrà sicuramente sopravvivere alle sfide radicali che ci aspettano man mano che cominciamo ad attraversare l’antropocene. Parafrasando un altro grande maestro del marxismo italiano dopoguerra, Giovanni Arrighi, il problema non è che il biocapitalismo cognitivo sfrutta la nostra vita in comune, ma che non lo sfrutta abbastanza bene. Dico questo perché finché c’è sfruttamento almeno c’è una razionalità da criticare o sabotare. Invece il biocapitalismo contemporaneo assomiglia sempre più a un corpo in putrefazione che nessuno ha l’energia da portare via, come conclude la sua analisi il sociologo tedesco Wolfgang Streeck. In questo contesto la moneta alternativa potrà sicuramente contribuire a creare dei circuiti di valorizzazione alternativa. La mia intuizione è che i protagonisti di questo processo non sono tanto quelli di Macao o di Teatro Valle, ma piuttosto gli imprenditori di quella pirate modernity che ormai connette le piccole fabbriche cinesi con i bisogni dei ceti popolari di Lagos o di Tangeri, passando per Piazza Garibaldi di Napoli.