Il consigliere

16 Maggio 2015

Con Il royal baby (Rizzoli 2015) Giuliano Ferrara lancia un'opa, per nulla ostile, sul governo Renzi, o meglio, benché sia una cosa sola, sul giovane premier. A far da coerente termine medio Berlusconi, a cui per vanto e non per scorno viene avvicinato Renzi: «Ha il fuoco nella pancia, il nuovo nato, come l'altro, il babbo, brucia di megalomane ambizione. Ma è anche lui mite, alla fine, e ridanciano e innamorato del suo ostentarsi piacente al populazzo (Ludovico Ariosto)». Non che, quanto a megalomane ambizione, Ferrara sia da meno, quando intitolando capitoli e sottocapitoli Io e Renzi, Craxi. Il Cav. Renzi. E io, si mette ben in evidenza nella foto di famiglia. È proprio la psicologia del consigliere di cui vorremmo fare un po' di filogenesi.

 

Matteo Renzi e Silvio Berlusconi

 

Per tracciare il profilo, anche storico, di tal figura, il primo nome che verrebbe alla mente è quello dell’Ulisse dell’Iliade allorché comincia col suggerire le modalità con cui Elena potrà scegliere tra i suoi molti pretendenti (Biblioteca Di Apollodoro) e termina ovviamente in gloria con l’invenzione risolutiva del cavallo di legno. E tuttavia questo dantesco “consigliere di frodi” resta comunque un primus inter pares, che si spende con discorsi a convincere una più o meno larga assemblea, ed è anche attore dei suoi stessi piani. Le libere polis greche sono idealmente luoghi dell’aperto confronto, che si oppongono alla monarchia orientale, dove uno solo decide per tutti, raccogliendo però spesso suggerimenti sussurrati. Il medesimo modello greco informa di sé il Senato di Roma repubblicana. Bisogna attendere allora la trasformazione in Impero per incontrare le figure che ci interessano, e i loro grandi dipintori, Tacito e Svetonio. Il quadro si fa più claustrofobico: stanze del palazzo sature d’ombra e di intrighi. Difficile accedervi, e quindi il ritratto si serve spesso della diceria e del pettegolezzo, delle deduzioni e dell’interpretazione, dell’immaginazione magari deformante dello storico-artista. Sembra ormai che l’imperatore non debba tanto confrontarsi con popoli nemici o con il Senato, sempre più infiacchito e intimidito con la violenza, o con le turbe della capitale, pronte solamente a seguire il proprio stomaco, ma piuttosto divincolarsi dalle influenze dei suoi intimi. Donne, consiglieri, pedagoghi e pretoriani cercano, ora alleandosi ora scontrandosi, di piegare il potere imperiale ai loro fini, ora personali ora dinastici, ora ideali ora politico-militari. Caso esemplare è Nerone, la cui minorità anagrafica offre il destro alla madre Agrippina, al precettore Seneca e al prefetto del pretorio Burro per una complessa partita tra la forza del sangue, della ragione e delle armi.

 

Nella società medievale si moltiplicano i centri del potere personale – regni, feudi, sede papale – e dunque pure il numero dei cortigiani influenti. Si tratta sempre d’un mestiere pericoloso perché soggetto all’arbitrio del potente e alla concorrenza spietata di chi vuol divenire il favorito più ascoltato; così il tradimento, vero o attribuito, sarà l’arma che può ritorcersi contro chi la usa o la agita. Pier delle Vigne, protagonista del XIII canto dell’Inferno, non può sottrarsi all’invito di Virgilio che gli chiede di presentarsi: egli fa coincidere la propria identità col dolce ricordo del suo massimo fulgore di consigliere presso Federico II. La psicologia del consigliere viene qui ben delineata. La sua ambizione consiste in primo luogo nell’entrare nelle grazie del sovrano, non solo strumentalmente ma per profondo bisogno d’esser riconosciuto ed amato. Certo più in alto sta chi ama più si sente grande l’oggetto d’amore. Tenere il cuore del sovrano, essere divino, significa davvero una gratificazione incommensurabile di sé. L’amore del sovrano si manifesta nel colloquiare a tu per tu, nel riceverne in segreto le confidenze, i dubbi, le richieste, e offrendo in cambio conforti, imbeccate, soluzioni. La dimensione soffocante e misteriosa da camera nuziale o da camera caritatis non tollera altri pretendenti, nessun occhio, orecchio rivale (“dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi”).

 

Peter Ustinov nella parte di Nerone nel film Quo Vadis, regia Mervyn LeRoy, 1951

 

Il vanto sta nell’occupare interamente e gelosamente il cuore del sovrano svellendovi qualsiasi altro pretendente. E però il consigliere non s’appaga dell’amore, seppure esclusivo, nel quale rimirarsi innalzato, poiché prova d’amore è il saper manovrare la volontà del sovrano (“le chiavi del sì e del no”). Il consigliere infatti, anche se non lo confesserebbe mai, sente quell’amore dovuto perché in fondo si ritiene superiore al sovrano stesso; dunque egli non agisce per denaro o vile tornaconto personale, bensì per una migliore gestione del potere in sé. “Il glorioso uffizio” del consigliare è in realtà quello di governare il regno per interposta persona. Il vero consigliere agisce dunque sempre in buona fede. La sua azione a favore del retto governo dovrebbe riflettersi positivamente sul re, e non metterlo in cattiva luce per prenderne il posto. Le modalità dell’azione sono altrettanto chiare, seppur apparentemente opposte: leggerezza nelle movenze, sinuosità, presenza assente, noncuranza ostentata e forse sprezzante (“le chiavi volsi sì soavi”) e nel contempo pensiero unico e fisso, impegno indefesso, gioco serio fino alla morte (“fede portai […] tanta ch’i’ne perde’ li sonni e’ polsi”). Spesso però la conclusione di tale dispendio di energia e di talenti si dimostra fallimentare e drammatica. Se Seneca riuscì a defilarsi conservando la testa, Pier delle Vigne fu meno abile o fortunato: cadde in disgrazia e venne accecato in carcere. Tanto fu il dolore per l’ingiusta accusa di tradimento e per il tradimento da parte del sovrano che gli negava ora il suo amore, e infine per essere sostituito da altri, che si uccise. Ancora ossessionato da tutto ciò nell’abisso infernale, inveisce contro gli invidiosi che gli hanno fatto le scarpe e professa la sua lealtà verso Federico rapitogli dagli occhi.

 

Dobbiamo arrivare al medioevo di Shakespeare per ritrovare figure altrettanto complesse d’intriganti e traditori. E però non del tutto aderenti ai tratti del consigliere, poiché nella maggior parte si propongano il fine di eliminare il sovrano e succedergli, agendo direttamente con l’astuzia e la forza. Così il demoniaco Riccardo III o Macbeth su suggerimento della moglie, o le ambiziose figlie di Lear. Iago, nelle sue ambivalenze emotive, di ammirazione, invidia e ripulsa verso Otello, nonché nel fare doppio e insinuante, ricorda da vicino la tipologia del consigliere; tuttavia il suo scopo di rovinare il Moro si muove sul piano personale e domestico. La corte italiana del Quattro-Cinquecento offre in vitro, e con un di più di sofisticatezza, debolezza maligna, desacralizzazione, i rapporti tra signore e consigliere presenti nelle corti del sovrano medievale. Certo non è un caso che da noi fiorisca una trattatistica sul comportamento da tenere a corte. Se l’opera di Castiglione è ricordata soprattutto per lo stile che il suo progetto d’uomo dovrà mostrare tra i pari, non va dimenticata la cospicua parte (libro IV) dedicata ai rapporti da intrattenere con il Signore, in cui si delinea un responsabile e ponderato apporto al bene comune sotto forma di consigli («[…] valersi della grazia acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viciosa ed indurlo al cammin della virtù»). Tutto Il Principe poi è un unico, lungo e articolato, consiglio che il segretario, attingendo spregiudicatamente all’esperienza e alla storia, va comunicando per iscritto al Signore affinché sappia affrontare i più diversi frangenti del governo. Ciò, per apparente paradosso, da parte d’un repubblicano che fa i conti con l’Italia infida e rissosa, violenta per paura, raffinata nell’arte, nella diplomazia, nello stiletto e nel veleno, tanto da farsi retrograda avanguardia d’Europa. Più di Machiavelli l’amico-rivale Guicciardini fu consigliere ascoltato e pagò le conseguenze delle sue errate direttive con lo shock epocale del sacco di Roma, capace di portarlo a bisbigliare allora una morale tutta difensiva e privata, altrettanto italiana, che ne fa anzi il maggior direttore d’un popolo più che d’un sovrano. D’un popolo sottomesso a un sovrano. Che l’Italia sia stata a lungo la patria dei potenti, dei loro consiglieri e intellettuali organici, lo testimonia ancora nel tardo Settecento il furore d’Alfieri, che in quasi tutte le sue tragedie ritrae le oscure corti percorse dal tradimento e vigilate dalla paranoia. Soprattutto però si deve citare Del Principe e delle lettere nel quale la denuncia irosa della contiguità tra il letterato e il potere postula per contro un’assoluta inimicizia tra le due sfere, lasciando ai servi più vili il passatempo di ruotare come satelliti attorno al sole nella speranza di modificarne a loro piacimento l’orbita. Se infatti “le penne mendaci” danno lustro al principe attraverso l’adulazione e la pura e semplice sommissione in cambio di sicurezza e partecipazione al potere, il vero letterato è “indagatore di cose che debbono rimaner nascoste”, in modo da fornire a tutta l’umanità coscienza di sé e grandi ammaestramenti alla libertà.

 

Orson Welles e Micheál MacLiammóir nelle parti di Othello e Iago nel film Otello, di Orson Welles, 1952

 

In Europa nel frattempo andava maturando una struttura statuale più complessa e i consiglieri del sovrano prendevano nome e funzioni più professionali di primi ministri. In Francia, con il secolo successivo, riappare anche, in versione aggiornata, brillante e ironica, la figura dell’intellettuale che vuole schiarire le idee del sovrano aprendole a più libere forme di governo e di economia. Di qui l’impollinazione di Voltaire, partito più volte dalla competitiva corte francese, presso Caterina di Russia, Cristiano di Danimarca, e per tre anni, proprio con il ruolo di consigliere, di Federico di Prussia, sempre con la contraddittoria intenzione di risultare gradito e sgradito.

 

Nel Novecento il sovrano di nascita lascia il posto al leader carismatico, la corte diventa il partito, la fedeltà s’intride di ideologia. Gli uomini del destino, partoriti dal ventre oscuro della storia e assurti come astri al cielo del comando, forse più dei sovrani attirano attorno a sé schiere di falene appassionate. Essi sono l’incarnazione d’una visione del mondo fatale a cui aderire fideisticamente. Scorrendo gli epistolari e le biografie dei massimi dirigenti nazisti si assiste alle grottesche rivalità che li animano nel volere stare accanto al loro führer. Gareggiano in amore sincero ed in devozione, si battono per un plauso, un riconoscimento, un cenno. Göbbels con la sua astuzia sottile, Göring con la prepotenza claunesca, Hess con l’identificazione protocollare sono accomunati dalla medesima pulsione. Nell’ambito comunista l’ideologia rappresenta la sacra scrittura che solo il capo interpreta correttamente: egli ne è il corpo incarnato, per influire su di lui bisogna passare necessariamente per quel filtro. Le lotte di potere, che si scatenano in vista della successione, per esempio di Lenin o di Mao, o quelle per accaparrarsi l’attenzione del leader, si giocano sotto forma di capziose distinzioni. Siamo di fronte a una religione, a un profeta riconosciuto, a discepoli che s’inabissano nell’ortodossia e rischiano sempre di finire sul morto binario ereticale.

 

Dostoevskij aveva anticipato ne I demoni un microcosmo di fanatici ed opportunisti che ruotano attorno allo specchio freddo di una personalità da venerare. Per Piotr Verchovenskij, l’organizzatore dei complotti per il rinnovamento politico e spirituale della Russia, Stavrogin è il superuomo che si è scelto da amare, ammirare, aiutare e condurre. Non per questo si esime dal minacciarlo obliquamente riferendo che tutti dicono l’incendio della città causato dalla necessità di far sparire la povera storpia, dal dire che Stavrogin non ha nessuna colpa insinuando nel contempo esattamente il contrario, dall’affermare “nemmeno col pensiero…” per suggerire quanto invece egli conosca l’animo più recondito dell’altro. Lo fa per rendersi importante, micidiale con la sua pistola in tasca, per saggiare la forza dell’idolo e per subirne una potente zampata, perché il rapporto con l’idolo è intrinsecamente ambivalente. Stavrogin capisce che in Piotr “c’era dell’entusiasmo”; egli deve credere in un progetto e in una figura superiore per sentirsi importante, un rivoluzionario di prima grandezza. Stavrogin, librato così in alto, ha trasportato anche Piotr nei suoi cieli gelidi e vuoti, cosicché quest’ultimo non sopporta di essere abbassato attraverso l’altro: «Se sono un buffone io, non voglio, però, che voi, la principale metà di me stesso, siate un buffone!». Il vero tradimento del dio è quello di non mantenersi più alla propria altezza davanti agli occhi del devoto; Piotr, così nullificato, potrebbe suicidarsi o distruggere con rabbia disperata il suo modello. Raramente si è reso così efficacemente il reciproco riflettersi, addirittura la compenetrazione tra consigliere e potente. Quando Stavrogin dichiara «rido della mia scimmia», non intende solo dello spettacolo divertente e umiliato, aggressivo e servile, di Verchovenski, ma anche della caricatura di se stesso nell’altro; così come del resto Piotr proietta nella maestosa figura di Stavrogin il proprio sogno egolatrico di potenza.

 

Giuliano Ferrara insieme a Bettino Craxi

 

Terminata da qualche tempo l’abbondante porzione di secolo dominata dall’ideologia, c’imbattiamo oggi, perlomeno in occidente, soltanto in sovrani temporanei. Eppure l’alea della democrazia, ormai tutta giocata in video, rende ancor più necessario da parte del leader affidarsi a uno staff di consiglieri; ciò avviene soprattutto in campagna elettorale, quando cioè si deve creare un’immagine del candidato, condensare in slogan accattivanti il cosiddetto programma di governo. In questa fase di chiarificazione dell’assalto al potere sembra esserci un gruppo di lavoro che fa del professionismo la propria bandiera. Certo lo spin doctor crede nel candidato, ma un po’ come il pubblicitario che deve vendere pannolini o scatole di pelati. Una volta acquisito il potere non è che la campagna pubblicitaria venga meno, ma le vicissitudini quotidiane della politica riprendono spazio. Ecco quindi che, specie nei momenti di maggiore difficoltà, si moltiplicano i consiglieri sotto forma di opinionisti della carta stampata o della tivù, sempre pronti ad offrire pareri amichevoli e ad elaborare strategie. Se il marketing della proposta elettorale si fa tra le quinte, esibendo solo il risultato finale, durante la legislatura nella nostra società mediatica anche la figura anticamente umbratile del consigliere va sotto i riflettori. Antonio Scurati lo definisce “un intellettuale senza opere (quanto meno senza opere significative) poiché la sua azione si esalta e si esaurisce nell’efficacia comunicativa”. E però egli dall’altro lato non vuole restare uno dei tanti -promotori del regime comunicativo, mantiene infatti l’eterna e gelosa ambizione del dialogo privilegiato e dell’influsso sul leader.

 

Ne è appunto un chiaro esempio Giuliano Ferrara. Il suo curriculum, che parte dall’ortodossia ideologica, passa attraverso il rapporto anche personale con Craxi, l’uomo forte degli anni ottanta, e l’uso personale e spregiudicato della tivù (Linea rovente, Radio Londra), approda al ventennio berlusconiano di cui si fa indefesso sostenitore con nuove imprese comunicative quali la guida del quotidiano «Il Foglio». Proprio su queste colonne, quando il presidente del consiglio viene sommerso da uno scandalo sessuale di enormi proporzioni che rischia di travolgerlo, delinea la strategia di derubricazione del reato a peccato, attaccando il moralismo e puritanesimo di matrice azionista. Interessante quando Ferrara scrive di “progetto orwelliano di entrare nella casa privata del premier”, di cui egli vanta la frequentazione, perché si evidenzia l’antica idea delle segrete, sacre stanze accessibili solo al confessore e al consigliere, giammai all’opinione pubblica e all’indagine giudiziaria. Poco dopo i fondi del direttore che hanno impostato la questione, su «Il Foglio» esce un’intervista a Berlusconi che ammette d’essere un peccatore usando concetti e lessico di Ferrara. Questi sono i momenti orgasmici del consigliere.

 

Tuttavia il leader postmoderno è talmente mercuriale, soggetto ai sussurri dei sondaggi, circondato da mille cortigiani nei giornali, tra le correnti di partito e negli alleati, da rendere impossibile d’essere consigliato stabilmente da una persona sola. Così lo spazio saturo, contraddittorio e infine bianco della comunicazione, condanna il narcisismo del consigliere attuale a intermittenti sprazzi di vita accanto al suo sole; tutto il resto della sua continua e loquace visibilità equivale al nulla. A riprese un poco fuori tempo, appena velate d'autoironia: «Eccomi qui, al servizio devoto dell'ultimo ritrovato della fantasia politica italiana».

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