Il crollo di Barletta. Chiamare.
Parole. Parole molte. Crollato. Cordoglio. Macerie. In nero. Il palazzo. Lo scavo. Prendeva tre virgola novantacinque. Lavoravano. La speranza riaccesa. Il sindaco. Voci. La Madonna sul muro. Il maglificio. Morta. Morta. Parole vecchie e nuove parole. E la polvere. Cinquanta minuti dopo la mezzanotte. Crepe. E muri rotti. Ci sono soprattutto parole intorno al palazzo sprofondato, da due giorni, a Barletta, intorno e sopra alle cinque operaie morte, operaie, ancora, morte, ancora, alla donna incinta che invece, salva, alle mura spezzate, al soccorritore, ai presidenti, all’assessore. Parole. Solite solite solite. Ma le parole che leggo ieri mattina a Bari su “EPolis”, il giornale, quelle no, non le ho mai sentite, parole strane, stavolta, un marito che dice non se la possono chiamare così giovane. Me le rileggo, mi porto appresso la pagina strappata, le leggo ovunque, le leggo anche adesso a casa, non se la possono. Chi, non se la può? Chi non se la può, chiamare? Chiamare, chi. Me la rigiro con gli occhi, la frase. Che immagino, come è, urlata di fronte, di fronte a che, a niente, al buco, alla catasta anzi, di niente, ai corpi bianchi di calcinacci, al solito odore di polvere dei cantieri, e delle rovine, chi se la può chiamare così giovane? Chiamare, o richiamare, cioè appellare e convocare. Ma chi convoca? Chi ha il potere di appello? Sapete già tutto, voi che mi leggete sullo schermo oggi, sapete bene come è andata, e come andrà. Come va sempre.
Solo mi restano quelle parole, e vorrei restassero anche a voi, perché c’è, in quelle parole, qualcosa di un urto più che umano, qualcosa che ci attira giù, o all’indietro. Qualcosa di antico, quel loro, i Santi, le Madri, o i Dèmoni. Loro. Loro comunque, che chiamano e richiamano. E storcono la lingua, e la ingrossano, perché se dèmoni sono, sono della lingua anzitutto, che cade perché cade ogni ragione, non perché cade il palazzo, semmai quello è stato caduto, ma perché alla fine, questa lingua così dura e dolorante da potersi solo agitare come un dito puntato verso che, verso loro, non se la possono, è un dito che alla fine ci scava dentro, distanti come siamo, e incapaci di rispondere. Restiamo tutti fissi a guardare la polvere, e il piccolo male banale, così giovane, così, capite, in questo scrollarsi le polveri dei dii tutti, e le sfruttavano, e poi crollava. Questa lingua e questa fiducia, così piena, quel possono, e quel timore, tutto fuso in una lingua che può dire solo una sottomissione antica, uno stupore, e un timore.
È venuta giù la casa, ma anche la lingua, dico io, è crollata. La lingua che è la nostra casa, lo hanno detto, e che crolla, oggi, a Barletta. Crolla di niente, e si porta via tutto. Non se la possono chiamare così giovane. Mi viene da urlare a me, al sole di oggi, allo strano sole di ottobre, che non ci sono loro, e che nessuno chiama, e che loro siamo noi, da soli, e non c’è giovane o vecchio, e contiamo i giorni tutti e che i gesti pesano e che non si può fingere e voltarsi, sempre. Non ho da offrirti molto, lettore, ma pensa alla lingua che crolla e si disfa, e pensa alle pietre polverose, al giorno ingannevole, ai tre virgola novantacinque, a Barletta e all’Italia e a tutto, e pensa a che lingua servirebbe se non c’è più nemmeno la lingua per dire la trenodia a cinque morte.