Speciale

Il fochista di Franz Kafka

5 Agosto 2024

1. Nelle intenzioni di Franz Kafka, Il fochista doveva costituire il capitolo iniziale di quello che Italo Calvino (secondo quanto riferito da Ernesto Ferrero nelle pagine finali del suo Italo, Einaudi 2023) considerava “‘il romanzo’ per eccellenza nella letteratura mondiale del Novecento e forse non solo in essa”, ovvero Der Verschollene (Il disperso), o America che dir si voglia, come lo intitolerà per ragioni commerciali Max Brod pubblicandolo postumo nel 1927 (mentre il manoscritto a noi pervenuto non reca alcun titolo). In generale, lo scenario d’Oltreoceano che fa da sfondo alle vicende del protagonista risente del confronto con alcuni scritti coevi: con il libro Amerika (edito a Praga nel 1912) del leader socialdemocratico cèco Frantiśek Soukup (che nel giugno di quell’anno tenne a Praga anche una conferenza – corredata da proiezioni – sull’America e sulla sua burocrazia); con alcuni racconti del danese Johannes Wilhelm Jensen (apparsi sulla rivista letteraria «Neue Rundschau» nel 1909); e con i resoconti quasi fotografici che Arthur Holitscher (uno scrittore ebreo di ispirazione marxista inviato in America per un soggiorno di otto mesi dall’editore berlinese Samuel Fischer) pubblicò soprattutto nella «Neue Rundschau» e raccolse quindi nel volume Amerika. Gestern und heute (America. Ieri e oggi), edito a Berlino 1912. Per tratteggiare il personaggio da cui trae nome il suo racconto Kafka si ispirò con grande realismo alla figura di un fochista che abitava sopra di lui a Praga nell’appartamento situato nella Teklastrasse.

Si ha a che fare con un testo dallo stile limpido e cristallino, condotto con un linguaggio che esclude qualsiasi residuo di io narrante e che coinvolge il lettore in una narrazione di tipo “mono-prospettico” (come l’ha definita Reiner Stach), sino a farlo quasi identificare con il protagonista – il sedicenne ex ginnasiale praaghese Karl Rossmann ripudiato dai genitori e spedito in America per essersi lasciato sedurre da una servetta da cui ha avuto un bambino – e con ciò che si trova nell’ambito percettivo di quest’ultimo. E così il lettore si trova a confrontarsi con una serie di scorci incalzanti: dall’approdo del ragazzo al porto di New York (che – si dice – all’arrivo in nave “guardava Karl con le centomila finestre dei suoi grattacieli”) al momento in cui egli, dopo aver lasciato la sua valigia in custodia a un passeggero conosciuto durante la traversata, scende di corsa per recuperare l’ombrello dimenticato in cabina, smarrendosi però nella struttura labirintica della nave e facendo la conoscenza del fochista, un solitario personaggio perseguitato che lo ragguaglia sulle condizioni di lavoro a bordo e cui – d’impulso – egli offre la sua solidarietà; dal momento in cui Karl decide di accompagnare nella cabina del capitano il fochista, che vorrebbe esporre le proprie ragioni prima di licenziarsi, a quello in cui Karl prende le difese di quest’ultimo di fronte al capitano e a un distinto signore che si rivela poi essere il suo facoltoso zio Jakob, emigrato da tempo in America e divenuto senatore, il quale è stato informato per lettera dell’arrivo del nipote dalla ragazza madre del bambino; dalla sorpresa dell’incontro e del riconoscimento fra zio e nipote al momento in cui – nell’entusiasmo generale – Karl e lo zio (che appare come il sostituto del padre oltre Oceano e che ne favorirà l’incontro con la realtà americana) si allontanano su una scialuppa, mentre il fochista divenuto oggetto di un trattamento ingiusto viene dimenticato insieme alle sue rivendicazioni di giustizia. 

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Il fochista si colloca in un momento che per Kafka fu di esaltazione, di estasi creativa, di incredibile e gioiosa notturna fecondità di scrittura, come annota Max Brod in data 29 settembre 1912 nel suo diario: “Kafka incredibilmente in estasi scrive per notti intere. Un romanzo ambientato in America”, e tre giorni dopo: “Kafka continua a essere molto ispirato. Un capitolo pronto. Ne sono felice”. L’allusione è proprio a Il fochista, racconto che Robert Musil trovava delizioso, iniziato il 25 settembre e concluso già il 2 ottobre, testo che diveniva l’incipit di una riscrittura del romanzo Der Verschollene dopo una sua prima stesura insoddisfacente. In tal modo questo racconto rappresentava ora per Kafka uno dei primi frutti conchiusi della sua produttività dal ritmo incalzante (La condanna – o, se si preferisce, Il verdetto – era stata da lui scritta di getto, in una sola notte, fra il 22 e il 23 settembre 1912). Secondo la rievocazione che egli ne farà circa un anno e mezzo dopo, la stesura di questo primo capitolo del suo “romanzo americano” era simile a un’“eruzione”, emersa in lui “con disumana naturalezza”. E si trattò di un frutto davvero succoso, se in una lettera a Felice Bauer del 9-10 marzo 1913 egli considerò “sgorgato da una verità interiore” soltanto questo primo capitolo, l’unico degno di esser salvato su quattrocento pagine dell’intero romanzo che gli apparivano inutilizzabili, e comunque l’unica sezione che egli si lasciò convincere a pubblicare: Der Heizer [Il fochista] apparve infatti a Lipsia nel maggio 1913 come volumetto a sé stante, con l’omonimo titolo (abbinato all’aggiunta Un frammento) nella collana espressionista «Der jüngste Tag» (Il giorno del giudizio) dell’editore Kurt Wolff, che aveva sollecitato Kafka a proporgli Il disperso dopo che questi ne aveva letto alcuni brani agli amici praghesi (tra cui lo stesso Brod). Il volumetto ebbe una seconda edizione nell’estate del 1916 e una terza nel 1918, registrando un buon successo di vendite (un migliaio di copie stampate in ciascuna edizione). A ciò va aggiunto che per tale scritto e per la Metamorfosi venne devoluto a Kafka – su proposta di Carl Sternheim – l’importo del “Premio Fontane” per l’anno 1915.

2. Per chi intenda cogliere lo spirito con cui è tratteggiato Karl Rossmann, l’innocente protagonista del Fochista, può esser utile ricordare che Kafka intendeva riunire questo racconto insieme a due altri testi emblematici della sua prima grande fase produttiva, redatti anch’essi con grande rapidità creativa – ossia La condanna e La metamorfosi – in un volume intitolato Die Söhne (I figli). Quel titolo complessivo doveva far emergere nella narrazione la centralità di giovani protagonisti accomunati da non poche consonanze di destino, in primis l’espulsione dal grembo della famiglia, in ossequio all’onorabilità borghese. 

Tema portante di questi tre scritti (tutti fruibili in italiano anche nella raccolta Racconti appena proposta nella collana “Classici moderni” dall’editore Rizzoli in veste critica aggiornata per la ricorrenza del centenario della scomparsa di Kafka) finisce per essere così la relazione padre-figlio, caratterizzata da quel Vater-Sohn-Konflikt – ossia quel conflitto tra loro esistente – che alcuni anni dopo campeggerà nella celebre Lettera al padre (1919). In quest’ultimo scritto, mai consegnato al destinatario, lo scrittore praghese vedeva il proprio genitore Hermann stagliarsi dinanzi a sé come una figura gigantescamente e prepotentemente soggiogante e addirittura annichilente in sfere esistenziali quali l’eros e la vita coniugale, la fisicità del corpo, l’adesione alla vita comunitaria, la religiosità e il rapporto con la Legge e la Tradizione.

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Anche nel Fochista (come nell’intero romanzo Il disperso) sembra infatti continuare a vigere o a non essere totalmente tenuta a freno quella legge del padre dal vigore incontenibile: un padre che nel racconto Das Urteil condanna il figlio al suicidio nel momento stesso in cui questi gli comunica la notizia del proprio fidanzamento e sembra aprirsi consapevolmente alla vita adulta. Per Georg Bendemann può valere soltanto l’ipse dixit paterno che, al termine del racconto, si trasferisce su di lui schiacciandolo e investendolo con l’ineluttabile potenza magico-sacrale della parola del potere, che tanti eroi di Kafka esperiscono: «Prima conoscevi soltanto te stesso! Eri certamente un ragazzo innocente, ma più certamente ancora eri un essere diabolico!... E per questo, sappi che io ti condanno a morire annegato!». Creatura perdente proprio a causa della sua obbedienza cieca, il figlio non farà che accogliere, come una marionetta, il verdetto del padre (che qui ha le caratteristiche sociali e morfologiche di Hermann Kafka stesso e che sembra riacquisire vigore proprio condannando il frutto delle proprie viscere), andando incontro a una morte che si configura come una sanzione ultima, arbitraria e tragica, e insieme come liberazione, nel momento stesso in cui il padre riprende vigore proprio grazie all’annichilimento del figlio.

Lo schema dell’annientamento di sé sembra ripetersi – con le dovute distinzioni – anche nella Metamorfosi, in cui il commesso viaggiatore Gregor Samsa, come in un incubo, una mattina si ritrova tramutato in un insetto immondo, suscitando orrore e ribrezzo nei suoi familiari e andando incontro al loro rifiuto e lasciandosi infine morire. Un racconto in cui al tempo stesso il protagonista interrompe il ciclo di un lavoro alienante e spezza le abitudini di un padre parassita. 

E l’eco del conflitto padre-figlio raggiunge anche Karl Rossmann, protagonista del Fochista. Anche su questo racconto apparentemente meno «angosciante» di tanti altri scritti kafkiani incombe infatti, sia pure a distanza e indirettamente, la figura annichilente del padre che ha espulso dal suo mondo familiare-borghese il figliolo sedicenne (o diciassettenne, secondo la primissima stesura del racconto), «come si butta fuori dalla porta un gatto» dirà lo zio Jakob «quando ci dà noia». Una vicenda, questa, dietro cui peraltro si possono ravvisare gli echi di un evento legato all’entourage familiare dello scrittore praghese: lo scandalo offerto dai cugini Otto e Oskar, figli dello zio Philipp, uno dei quali ebbe un bambino dalla cuoca di famiglia, mentre l’altro fuggì – o venne mandato – in America. È peraltro verosimile che Kafka abbia trasposto nel racconto anche i turbamenti personali nei confronti del sesso (percepito come una vergogna o come una macchia) esplicitati pochi anni dopo nella celebre Lettera al padre.

3. L’ambientazione geografica del Fochista, come anche più in generale quella dello stesso romanzo America (Il disperso), è onirico-fantastica, dato che Kafka non visitò mai l’America, non s’imbarcò mai su una nave transatlantica, non vide – entrando nell’Hudson – la Statua della Libertà stagliarsi di fronte alla grande metropoli statunitense. Ciò tuttavia non scalfisce la vivezza del piglio realistico con cui – più che in altri testi kafkiani – vi vengono enucleati temi di carattere politico-sociale, nel solco dei già ricordati scritti di Soukup, Jensen e in particolare di Holitcher. A cominciare proprio da quella Statua della Libertà che Karl ammira dalla nave subito al suo ingresso nel porto di New York e che, anziché una torcia, protende in alto una spada: un elemento che riconduce all’immagine del Cherubino biblico che impedisce un ripristino dell’Eden grazie all’ingresso nel Paradiso-America, e che in pari tempo diviene l’esplicito ed espressivo rimando a uno dei temi portanti sia del Fochista che dell’intero tessuto narrativo del Disperso: la ricerca – destinata perlopiù all’insuccesso – di giustizia e di rivalsa da parte dei più deboli nei confronti degli oppressori. Una problematica, questa, che si sviluppa via via nel racconto e che si esplicita anzitutto nelle pagine finali del Fochista, allorché Karl, con l’impeto e la freschezza sdegnata di un adolescente al primo confronto con l’esistenza, di fronte al capitano della nave prende le difese del fochista nei confronti del suo superiore rumeno, il capomacchinista Schubal, che lo perseguita ingiustamente. Una problematica rispetto alla quale il senatore suo zio, prono all’ordine delle gerarchie e delle distinzioni sociali e di classe, glissa volentieri: “Non fraintendere la situazione” egli dice al nipote, “può darsi che si tratti di una questione di giustizia, ma nel contempo è una questione di disciplina”.

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Franz Kafka in una foto dell'inizio dei suoi studi universitari.

4. L’America in cui Karl Rossmann si inoltrerà successivamente, pronto a integrarvisi con spontaneità vitale (come sembra sottolineare anche il suo cognome, che rimanda all’immagine del «destriero»), si manifesterà nella sua ambivalenza, mostrandosi come l’emblema di una libertà smisurata che sconfina nell’anarchia. Entro queste polarità della fascinazione e della repulsione si muovono sia il racconto Il fochista che l’intero romanzo Il disperso. Universo labirintico e magico nella sua offerta di possibilità illimitate, l’America kafkiana seduce e insieme fagocita l’adolescente innocente, ignaro e sempre disponibile passivamente a quanto gli venga inflitto, a cominciare dall’espulsione da parte dello zio stesso. All’inizio essa sembra attrarlo con i portenti della razionalità e della tecnica (si pensi ad esempio all’ammirazione di Karl per la scrivania dello zio, per i telefoni, per le vetture, per l’edilizia in vetro-cemento...) e con la sua spettacolarità (si pensi al febbrile traffico automobilistico di New York che Karl contempla dal balcone dello zio Jakob, il quale non a caso lo invita a mantenere distanza e freddezza di sguardo). Poco alla volta, tuttavia, essa gli si rivelerà anche come il paese delle enormità: si pensi ad esempio allo smisurato e babelico Hotel Occidental, in cui egli troverà lavoro come liftboy e dal quale verrà allontanato dopo esser stato ingiustamente accusato da un capocameriere, subendo così una nuova ‘espulsione’.

L’America in cui prende corpo il sogno dell’Eldorado è il paese dell’opportunismo più sfrenato, una terra in cui domina il motto «ognuno ci serve, ognuno è benvenuto» e al tempo stesso una terra in cui «non si può sperare di trovar compassione». È cioè un paese che stupisce e seduce per le sue «meraviglie» e per la sua modernizzazione, ma che al tempo stesso può alterare l’identità degli individui, secondo un cliché che si riscontra in particolare anche in alcuni testi coevi di Scholem Alejchem, in cui l’America è la terra in cui «tutti diventano ricchi», una realtà a cui si aprono speranzosi personaggi come Menachem Mendel, Mottel il figlio del cantore e Berl Ajsik, un possibile luogo di salvezza e insieme un potenziale luogo di ‘smarrimento’ per i rifugiati dell’Europa orientale, e – più tardi – nel magistrale romanzo Giobbe di Joseph Roth (1930) , in cui traspaiono preoccupazione e inquietudine per la perdita d’identità e di “radici” cui fatalmente le ultime generazioni di Ostjuden paiono andare incontro nell’abbracciare progresso e meraviglie della tecnica d’oltre Oceano, abbandonando le tradizioni dei padri (espresse ad esempio dal mutamento dei nomi ebraici e dalla loro americanizzazione).  

Riprendendo il topos letterario jiddisch dell’America come “Golden Medina” e al tempo stesso come mondo delle seduzioni mendaci, e dunque come falsa Terra promessa, Kafka lascia poi di fatto che il suo eroe in esilio vi si inoltri come in un labirinto in cui egli potrebbe smarrirsi e nel quale i grandi intervengono – sul modello di Dickens – solo per annientare e deludere. Le seduzioni non tarderanno a manifestarsi: si pensi alla visita alla villa di campagna del signor Pollunder, prosecuzione del “regno” dello zio, visita che metterà Karl a confronto con l’ambiguo e conturbante microcosmo di sesso e vitalità della triade costituita da Klara, Green e Pollunder e che gli varrà la seconda «espulsione». Oppure si pensi all’incontro con Delamarche e Robinson, i due astuti vagabondi che finiranno per soffocare la sua innocenza e la sua spontaneità, obbligandolo infine ad accettare la prigionia della casa di tolleranza della cantante Brunelda e a confrontarsi con l’esperienza degradante dell’eros vissuto come una realtà che insudicia. 

Sballottato tra personaggi con i quali è impossibile costruire rapporti sinceri, condotto in luoghi labirintici e accusato di colpe che non ha commesso, Karl intraprenderà infine un ultimo viaggio verso la promessa di un luogo che lo possa finalmente accogliere: il Teatro di Oklahama. Si direbbe così affacciarsi, per lui, qualcosa di inaspettato, che Kafka sembra appena accennare: il barlume di un lieto fine, nel segno dell’attesa di quella “redenzione” che – malgrado sviamenti, errori e assenza di sostegni – l’uomo è kafkianamente chiamato a coltivare.

In copertina, Nel porto di New York - Frontesizio dell'edizione del Fochista del 1913.

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