Speciale
Il giardino di Italo Calvino
C’era una volta un bambino chiamato Italino, un nome che fa rima con Pollicino, e Pierino, tra fiaba e fumetti, e tuttavia segnato suo malgrado dalla patriottica epopea fascista di quegli anni. Un bambino attento, assorto, silenzioso, abitato da qualcosa che si sente in dovere di censurare: visioni, illuminazioni inammissibili, che si preannunciano disgreganti ma saranno invece una manna celeste.
É la storia che ci racconta Enzo Fileno Carabba in Il giardino di Italo (Ponte alle Grazie, maggio 2023). Tutto ebbe inizio, secondo Carabba, in un “luogo ancestrale”, quel “giardino incantato”, quel “paradiso sperimentale” che fu il parco di Villa Meridiana a Sanremo, nella villa dei Calvino (e quella sua prosecuzione collinare che era il podere di San Giovanni). Qui i genitori di Italino, illustri “scienziati illuministi e socialisti” – una botanica e un agronomo che avevano esplorato il globo “in cerca di semi e impollinamenti” – si dedicavano alle loro creature vegetali, crescendo i figli a stretto contatto col “mondo ramificato” del giardino, da loro ricondotto a un ordine fatto di nomi e classificazioni. Un paradiso dell’esattezza dal quale Italino “non vedeva l’ora di fuggire”. Si imbatterà così in altre esperienze che sempre lo ricondurranno al giardino, ma cambiandone in qualche modo la percezione, perché “la vegetazione lussureggiante sfugge al controllo e alla geometria”.
La prima di queste esperienze sarà il mare, e del mare la paura e il piacere (due parole infrequenti nello scrittore Calvino): l’elemento travolgente, “irriducibile” e “sregolato” che, per segrete corrispondenze naturali, si specchierà nell’aspetto incontenibile del regno vegetale, la forza di quelle radici che stringono il mondo in una morsa di vita. “Le piante per lui erano come le sirene di Ulisse”. L’onda che rapirà una volta per tutte Italino a inizio della storia, tornerà nei ripetuti momenti di abbandono emotivo, rivelandolo al mistero di se stesso. Là dentro cova tutto ciò di cui Italino ha paura, a cominciare dalla paura stessa: incandescenze sentimentali e immaginali, idilli, seduzioni, lussureggiante e ingovernabile vita dei simboli, un universo sempre pronto a uscire dalle righe dell’identità razionale e del suo linguaggio.
“Lui forse non era una creatura delimitata e misurabile, come aveva imparato, ma un libro abissale fatto di onde difficili da arginare”. Lo shock subito per la totale perdita di controllo, pensa Carabba, lo accompagnerà per sempre. “Fu forse quella la prima volta che azzardò l’esercizio di raffreddamento di cui sarebbe diventato maestro” per contenere la forza d’urto delle emozioni, nel vortice di tutte quelle forze scatenate dentro e attorno a lui. La scienza, i fanatismi e i deliri della Storia (cui Carabba dedica alcune icastiche pennellate), la razionalità spesso millantata, l’isomorfismo gruppale che incombe quando Italino farà esperienza della scuola e poi l’eterna natura, la molteplice appartenenza al regno umano e non umano. Carabba vuole imparare da lui, che “aveva dentro un vulcano”, l’arte del raffreddamento. Per permettersi una migliore restituzione del fuoco. Tra onde e raffreddamenti sgorgherà “la miniera profonda della dimensione fantastica”: quando il linguaggio della ragione oltrepassa se stesso offrendo al “mondo di sotto” un luogo appropriato di manifestazione. Il “dialogo severo e razionale con uno spirito fantastico e giocoso”. Quello sguardo doppio che consentirà a Calvino, come il Conrad che amava, di navigare sull’abisso senza affondare. “Che sia riuscito a camminare in bilico sul crinale di queste forze opposte […] senza cadere da se stesso è un miracolo” . Proprio a questo crinale Carabba riconduce la cifra inconfondibile dello scrittore Calvino.
E intorno a questo nucleo tematico si dispone la storia, che non è una biografia romanzata di Italo Calvino, né un saggio critico. Piuttosto un romanzo di formazione, o meglio, una fiaba di formazione, perché la fiaba è il linguaggio di quando l’anima comincia a parlare, come scrive Carabba. Un incontro tra Calvino e quel suo “amico immaginario” che Carabba sogna di essere. Da questa confidenza immaginata nasce la meta-narrazione, la meta-fiaba che è questo libro. Carabba infatti si lascia intervenire nella storia, dando corpo alla voce narrante; inframezza sue riflessioni, suoi stralci biografici, sino a trasferirsi nello stesso tempo narrativo, per condividere con Italino i fumetti conservati nel mondo di sotto, la cantina, e poi film e onde rapitrici. Il dialogo di Carabba con se stesso, attraverso questa narrazione condivisa, potrebbe essere un lungo capitolo della sua propria mito-biografia, i cui temi ritornano qui con assoluta naturalezza.
A monte di questo labirintico gioco di specchi, c’è quanto Carabba ha assimilato in una lettura elettiva che data perlomeno da quel lontano Premio Calvino ottenuto nel 1990 dal Carabba ventiquattrenne, alla sua prima prova narrativa (Jakob Pesciolini, Einaudi 1992). Un Calvino assimilato coscienziosamente e poi dimenticato, o meglio affidato al moto ondoso della fantasia, secondo la mnemotecnica al contrario adottata da Carabba. Se il dato di partenza sembrerebbe essere oggettivo, assolutamente soggettivo è il taglio secondo cui la figura di Calvino è restituita: l’immaginazione di Carabba, in un gioco mimetico, dà voce all’immaginazione dell’altro. E l’operazione è tanto più intima perché questa volta, dall’altra parte della amorevole e permeabile barricata che separa la scrittura di Carabba dai suoi personaggi reali, c’è un altro scrittore.
Un gioco meta-letterario che sarebbe piaciuto a “Italo Calvino lo scrittore adulto”, come Carabba lo identifica per distinguerlo da Italino, il suo alter ego infantile ma non solo, piuttosto un avatar fantastico che interroga lo scrittore e ne è a sua volta interrogato. Il singolare sdoppiamento tra Italino e l’adulto Calvino non allude a un sé originario successivamente tradito, ma anzi a un nocciolo imperituro che si rivela sul confine tra infanzia e adultità, tra consapevolezza e profondo, tra vita e opera. Carabba presta la sua fantasia al teatro interiore di Calvino lo scrittore adulto, confrontato con quell’Italino in cui sono riposti da Carabba i segreti dello scrittore e dell’uomo. Così il tessuto narrativo si dispone non già su due piani ma su tre: Carabba, Italino e “Italo Calvino lo scrittore adulto”, dei quali l’autore si chiede se siano o no la stessa persona, e sicuramente lo sono, finché li incontriamo entrambi sul piano della sintesi narrativa operata da Carabba.
Narrazione a tre voci dunque, anzi quattro, perché ogni tanto si affaccia la voce di Claudio, il padre di Carabba, uomo di penna anche lui. Per giunta, in questo meta-romanzo dedicato a “l’albero del fantastico”, è convocata alla presenza di Italino, di Italo e Carabba una schiera di molti altri autori: Verne, Ballard, Raspe, Defoe, Swift, Ariosto, Proust, Hemingway, D’Annunzio, Ginzburg, Schiller, Kipling, Burroughs, Leopardi, Manganelli, Dante, Montale, Pavese, Buzzati, Savinio, Camus, Salgari, Borges, Conrad, Stevenson, Tolkien… sino a quel beffardo “dio narrante” il cui “gigantesco esperimento combinatorio” potrebbe aver prodotto, scrive Carabba, il flusso degli impersonali automatismi linguistici da cui Italino si difendeva tacendo. Gli autori e con essi i personaggi, dal Barone di Münchhausen a Robinson Crusoe e al Conte di Montecristo…, capitanati dagli eroi a fumetti dei grandi disegnatori del Corriere dei Piccoli: Pierino e il suo malefico pupazzo indistruttibile, Bilbolbul, il ragazzino col corpo trasformista che prende alla lettera e materializza le metafore, Pier Lambicchi, inventore dell’arcivernice che dà vita reale ai personaggi, e Il Collegio della Delizia, dove ci si abbandona a tutti i piaceri e gesti altrimenti proibiti, con un direttore dal nome Pandispagna.
Un’atmosfera prodigiosa, o surreale, tra alberi ipnotici e granchi proliferanti, capace di ribaltare quanto gli uomini credono di sapere su se stessi e le cose (come in un distaccamento carabbesco del mondo di Pinocchio); in simile atmosfera sono attratti gli eroi reali che Italino avrà la ventura di incontrare: Libereso, il giovane Tarzan agronomo con il suo gruppo di ragazzi selvatici; lo scienziato Voronoff che trapiantava testicoli di scimmia agli uomini per migliorarne le prestazioni; colonie agricole naturiste, pensatori anarchici e eremiti da giardino…tra questi ben figura il Barone rampante, che nel giardino di Italo non poteva mancare, essendone forse il nume segreto, per la sua “posizione doppia, dentro e fuori allo stesso tempo”, eroe del romanzo che Calvino definì il punto più alto di libertà e di tensione della sua narrativa.
Da scrittura a scrittura le parole dell’uno si specchiano in quelle dell’altro e mettono a tema la forza stessa delle parole quando diventino fiaba e mito, nell’alleanza di anima e pensiero. Italino sussurra alla luminosa intelligenza di Italo che dall’anima – la “conturbante parola proibita” – non si può prescindere. L’onda è sempre “acquattata” dentro di lui mentre si allontana dall’abisso, “verso lo splendore conoscitivo dell’homo sapiens”. Da un lato la lucidità che relativizza, moltiplica i punti di vista, decostruisce gli idoli e automatismi del senso comune, libera lo sguardo, disincrosta la visione. Dall’altro l’onda vitale e sovvertitrice del profondo, che radica a sé il pensiero e ne fa il suo alleato, dando forma, storia, coerenza al brulicare dell’anima. Prende vita così il “gorgo ribollente” della fantasia, quella che C.G. Jung chiamava l’immaginazione attiva, affacciata sull’abisso che si lascia danzare, nuotare, scrivere e disegnare con noi.
Come riuscire dunque a fantasticare se stessi? “Il problema per lui era questo: che tutti quegli impulsi, o sentimenti, o personaggi, facessero parte della stessa storia”. Come sentirsi uno? Come dare un senso, una forma? “A volte gli sembrava di sentire la propria voce venire da dentro mentre lui era fuori”. Così il romanzo si svolge senz’altra trama che non sia il portentoso compito di “autogenerarsi”. Il terribile pupazzo di Pierino, che appariva ogni tanto a Italino, lo spaventava e attraeva perché “era ciò che non capiva di se stesso”. “Quell’Italino nato per me grazie alle pagine di Italo Calvino e poi diventato un suo antenato, un nostro antenato” potrà infine avanzare verso la sua storia, lo scrittore che lo aspetta: il custode dell’inno a più voci, del grande “rizoma” che ci unisce nella forza primordiale dell’immaginazione, applicata innanzitutto a noi stessi; figli della fantasia che ci serve per inventare la storia che siamo. Quel “rizoma” sotterraneo in cui l’immaginazione di ognuno si congiunge a quella di ogni altro, già cantato da Carabba negli abissi familiari di La Zia subacquea (Mondadori 2015).
Servirà, anche, l’arte del divertire, la “non serietà” del motto di spirito contro il vuoto del linguaggio e dell’essere, contro le intensità contraffate, le identità pietrificate. La frequentazione e la creazione di mondi surreali e spesso iperbolicamente giocosi – universi ribaltati “come promessa di conoscenza” –, costituisce, per gli amici immaginari di questo libro, un esercizio di vita e di stile; un esercizio ricorrente in Carabba, che attraverso l’uso sapiente dello straniamento scherzoso e la brillantezza tridimensionale della sua prosa, lascia decantare la filosofia, la poesia, l’estasi, il mistero.
Alla fine, “che non sarà una fine”, li troveremo assieme, sul lido di Roccamare, dove Calvino negli ultimi anni trascorreva molto tempo: Italino si lascia portare da Carabba nel mare, incontro all’onda. Italo resta al sicuro, osservando, sulla riva. Ma è solo uniti che potranno proseguire la narrazione; l’albero del fantastico, “la spina dorsale del mondo, che spunta dal mare sotterraneo delle onde che capovolgono”.