Milano Filmmaker 2020 / Il vedere commosso di Mauro Santini

4 Dicembre 2020

«Giovedì 24 ottobre 1776: [...] la campagna, ancora verde e ridente, ma in parte già spoglia e già quasi deserta, dappertutto offriva l’immagine della solitudine e dell’avvicinarsi dell’inverno. Risultava dal suo aspetto un’impressione mista di dolce e di triste, troppo analoga alla mia età e al mio destino perché non ne facessi il raffronto.». La seconda passeggiata del sognatore solitario – ovvero del filosofo Jean-Jacques Rousseau – pare aprirsi con una placida meditazione sulla vita psichica della materia, teneramente sprovvista di alcun evento singolare. Eppure, all'improvviso, qualcosa accade: una concatenazione di eventi che qualche secolo dopo attirerà l'attenzione di un altro filosofo, Daniel Heller-Roazen, il quale dedicherà al sognatore solitario un capitolo di uno dei suoi libri più interessanti (Il tatto interno). 

 

«Ero, verso le sei, sulla discesa di Ménilmontant» ricorda Rousseau «quasi di fronte al Galant Jardinier. Dal varco che si aprì all’improvviso fra le persone che mi camminavano davanti [...] vidi abbattersi su di me un grosso cane danese che, lanciatosi a capofitto innanzi a una carrozza, una volta accortosi di me non ebbe neanche il tempo di frenare la sua corsa o di deviarla». Ciò che avviene immediatamente dopo è presto detto: il cane travolge Rousseau che, senza neanche avvertire il colpo, cade violentemente a terra, batte la testa e perde conoscenza. 

Più ancora che l'incidente, a interessarci è la singolare descrizione del suo risveglio: quell'istante, per dirlo alla maniera di Heller-Roazen, in cui «un io» recupera se stesso, e rinasce alla vita. Conviene leggersi l'intero passaggio della passeggiata: «Era notte inoltrata. Vidi il cielo, qualche stella, del verde. Questa prima impressione fu un istante delizioso, e ancora non mi sentivo che in questo. Nascevo in quell’attimo alla vita, e mi sembrava di riempire della mia lieve esistenza tutte le cose che percepivo. Interamente assorbito dal presente, non mi ricordavo di nulla; non avevo alcuna nozione distinta della mia individualità, né la minima idea di quanto mi fosse successo; non sapevo chi ero, né dove mi trovavo; non sentivo dolore, né paura o inquietudine. Vedevo scorrere il mio sangue come se vedessi scorrere un ruscello, senza neppure pensare che quel sangue potesse in qualche modo appartenermi...». 

 

 

Questo secondo affacciarsi sul mondo, che proprio per via dell'assenza di coordinate certe torna a farlo nuovo, potrebbe essere anche un'introduzione all'opera di Mauro Santini, in particolare ai suoi due progetti più recenti: il film in sette movimenti Vaghe Stelle (2017-19), e Le Passeggiate (2018-20), che proprio a Rousseau s’ispirano. L'ultima (per il momento) di queste Passeggiate, Un giro di giostra, sarà visibile on demand a partire dal 5 dicembre, all’interno del 40° Milano Filmmaker Festival.

 

Quello di Santini è un cinema da sempre peregrinante, fatto di lievi attraversamenti e praticato con "neghittosa indolenza", come insegnato da Robert Walser, altro nume tutelare. "Epifanie", tremori, minime variazioni di tono: un quasi niente, volutamente in disparte, e raccolto in quella dimensione delle cose che coincide con il loro inesorabile trapasso. Due piedi inquadrati in acqua un attimo prima di sprofondare nell'ustione di qualche lontana memoria; una mano che bacia l'obbiettivo alla fine di un film, venuta chissà da dove… Santini scopre, nel proprio corpo, non un'appartenenza, ma un prolungamento del concerto del mondo; un mondo qui finalmente sciolto da ogni fissità, ridestato dalla telecamera, strumento necessario al filmmaker per stanare la più testarda attitudine dell'invisibile, ovvero la sua indiscrezione. Scrive François Jullien in suo saggio: «Se vi è dell'invisibile, bisogna dunque cercarlo in questa dimensione animante, che continuamente realizza e porta il mondo a divenire, a trasformarsi senza posa. [...] O, per dirlo a termini invertiti, il visibile è concepito come il divenire manifesto di questa processività indiscreta.» 

 

“Bianco”, 2013".


Eppure, tornando a Rousseau, verrebbe da domandarsi: dove trovare, nelle Passeggiate di Santini, un ribaltamento percettivo paragonabile all'impatto contro il "cane danese"? Dove trovare l'improvviso mancarci del mondo fondamentale per la sua rinascita? La risposta non sembra essere immediata, tanto più che alcuni dei suoi ultimi lavori esibiscono apertamente la propria digitale nitidezza, e talvolta trovano persino conforto in essa (nelle sue possibilità espressive), con uno stacco decisivo da quanto accadeva negli anni passati. In Bianco (2013), ad esempio, il cinema era ancora un regno di trionfante indistinzione, nel quale, per attimi fulminei, si assisteva al comparire di forme potenziali: un prodigio portato oltre qualsiasi necessità di attualizzazione.

 

Vi sono almeno due risposte a questa interrogazione sulla nitidezza: la prima, che qui sorvoleremo appena, è congiunta alla dimensione sonora nel cinema di Santini. Anche dove l'audio sembra del tutto integrarsi all'immagine, vi è sempre come un resto di spettralità che non combacia – che non può davvero combaciare –. Un qualcosa d'impuro agita la metrica dei fotogrammi: rumori venuti da lontano, da un cinema fatto altrove (Tarkovskij, Fellini, Pauwels...) – come una malinconia interna all'immagine, già interamente subita prima ancora di essere afferrata. «Tutto ciò su cui l'occhio si posa ha una doppia vita, una sostanza altra» dice Florenskij in Realtà e Mistero, e questa doppia vita è talvolta soltanto un presagio che abita l'immagine senza che noi ce ne avvediamo: qualcosa simile al suono di un vento giunto da un altro tempo, magari per far dondolare un'altalena in un borgo oramai abbandonato.  

 

“Quarta passeggiata. Un giro di giostra”, 2020.


Più ancora che nella dimensione sonora, direi però che un tentativo di riposta alla nostra interrogazione andrebbe cercato nel centro di questa nitidezza, ovvero in quel punto dove la massima superficie coincide con il suo mistero più profondo. Una scena della Prima passeggiata ce ne dà testimonianza: dapprima, un gran tamburo di rondini scuote tutto il cielo: una bufera talmente fitta che siamo lasciati con una sete d'azzurro; poi, sempre più docilmente, questa arsura dilegua, e nell'ultima luce del giorno vediamo un aereo tagliare l'immagine con l'obliquità di una lacrima. Il già visto vacilla, diventa l'annuncio di un invisto – il regno visivo del mistero; e questa lacrima, questa lacrima così esposta nel suo essere irrimediabilmente senza perché, si rivela abbastanza per commuoverci il mondo. «Je ne sais voir que quand je sui ému»: so vedere solo quando sono commosso; con le parole di Rousseau, non a caso, si chiude la prima passeggiata...

 

Una lacrima: un velo degli occhi e negli occhi; una colatura di possibile, un succo che purga, come il decotto di rosa di cui parlava Elemire Zolla: «vi bagni gli occhi e chiaro ti diventa lo sguardo.». L'umidore offusca sì la nitidezza, ma per preparare lo sguardo a questa esperienza del vedere-commosso, del vedere-altrimenti: «Forse il punto è che lo sguardo non si insegna? non so…» mi confessava Santini in una nostra precedente conversazione, «credo però che si possa svelare un’attitudine all’attesa, all’attenzione verso ciò che sta davanti a noi e che dovremmo reimparare a vedere ogni volta con occhi vergini...». 

 

“Prima passeggiata. Tra le rondini”, 2017.


L'aereo-lacrima conficcato nel nitore nel cielo diventa, in Megrez (2019), il punto da dove avviene l'osservazione, ma questo non prima di aver sostato ancora un poco tra le cose della terra: un volto arrotondato dall'ombra e dal sonno, una stazioncina deserta, un’altra ancora... poi, finalmente, il volo nella notte più cupa, interrotta soltanto da scie di bava luminosa, oppure da sciami di pulviscolo apparentati alle stelle. Tutto ciò che viene all'immagine sembra ora uscir fuori da un grande buio, come nell'Utriusque Cosmi dell'astrologo cinquecentesco Robert Fludd, dove la luce emerge via via da un quadrato-universo imbottito di nero: «fiat lux»! Quante volte mi sono soffermato con stupore su questa curiosa sequenza di figure, per me già così intimamente vicina al cinema da non aver bisogno di chiedere rifugio nella sua storia "ufficiale"...

 

A ben vedere, le Vaghe Stelle sembrano essere un'unica veglia del grande nerume del possibile; un attendere senza davvero sapere cosa, limitandosi a predisporre la venuta dell'apparente. Le riprese, per quanto nitide, vengono condotte in questa cecità del non-sapere, nell'ambito della più pura imprevedibilità; ma ecco che, proprio per questo, gli accidenti sono poi considerati tali solo se meticolosamente portati a fioritura, ovvero coltivati in fase di montaggio. Qualcosa di simile accade nel cinema di un altro paziente scrutatore, Robert Todd, il quale ha avuto del resto una considerevole influenza nell'ultima produzione di Santini. Entrambi i registi sono vicini a questa notte dello sguardo in cui ciò che si cerca non è mai quello che alla fine viene mostrato; entrambi esercitano l'arte del fissare attentamente o con-siderare, cioè, letteralmente: stare alle stelle. Questo perché, come già insegnava Brakhage, «le stelle sono interamente negli occhi di chi guarda»; a maggior ragione occorrerà dunque che l'occhio dello spettatore vada incontro alla propria commozione, e reimpari a vedere.

 

“Vaghe stelle: Megrez”, 2019 (dettaglio).

 

Ho tralasciato di riportare un'altra immagine di Megrez che ritengo importante: un pezzettino di cielo – isolato appena da una finestra – dove Santini fa ballare due lune piene; un'impressione di pupille, figlia a sua volta di una sovraimpressione, di un trucco legato al sogno sin dai primi anni della cinematografia. Nell'Histoire d'un crime di Ferdinand Zecca (1901), un bandito cade addormentato in una cella, e sopra la sua testa irrompe un'altra finestra: uno "schermo nello schermo", un montaggio interno che ridesta la superficie dormiente del fotogramma. Fuor di rappresentazione, il sogno sarebbe proprio questo sbadigliamento della superficie; si comprende allora la scelta di Santini di far iniziare Magrez con un volto "arrotondato dall'ombra e dal sonno": più semplicemente, una figura che dorme.

 

Cinema, questo, che non prende in prestito la facile "logica" onirica, ma incarna il sogno come forma d'interrogazione della superficie. Interrogazione lunga tutta una notte, in attesa che insorga un nuovo mattino del mondo. Certo: questo mondo non dovrà mai essere illuminato integralmente. Bisognerà che resti qualcosa da attendere: che non vi sia mai un totale svelamento; che una parte del visibile rimanga invista, fuori-fuoco, pronta a mancarci, e che ogni fotogramma accetti di essere l'annuncio di ciò che ancora non viene alla vista: «apparenza come apparenza “di qualcosa” non significa dunque: manifestazione di sé, ma: annunciarsi di qualcosa che non si manifesta, mediante qualcosa che si manifesta.» (Heidegger, Essere e tempo)

Fare dell'immagine un canto d'attesa. Mostrare il mondo inconcludibile. Mostrare il mondo organismo senziente, e questo nostro battere un colpo per sentire se ciò che ci sta attorno risponde. Venire incontro a un volteggio di tempo. Raccoglierlo nella stessa lente dove riposa il bacio della mano che la copre. Concepire soltanto il leggerissimo tremare delle cose, cioè vederne la commozione. Non rimettere i debiti che si dovranno scontare con l’invisibile. Dire soltanto che vi è ancora dell’invisibile. Questo, per me, il cinema di Mauro Santini.

 

Il film Quarta passeggiata. Un giro di giostra di Mauro Santini sarà disponibile on demand (questo il link), a partire dalle ore 14.00 del 5 dicembre 2020 e per le successive 72 ore, sulla piattaforma MyMovies del Milano Filmmaker Festival.

 

Leggi anche: 

Filmare come allenamento alla vita | Mauro Santini. Attesa di un’estate, di Rinaldo Censi.

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