Mettere in campo la performance
Con Peng on the Beach lo scorso dicembre, sul limitare della fine del 2021, si chiude ufficialmente il ciclo decennale di Live Arts Week, il festival dedicato alle arti viventi diretto da Silvia Fanti e Daniele Gasparinetti di Xing. Lo spettro di indagine sul performativo ha affondato una sottile lama dentro le maglie del contemporaneo, osservando il tempo presente e al contempo anticipando nuovi scenari. Gli organizzatori non hanno curato una programmazione ma ordito visioni e progettato posture toccando nell’intimo punti focali di questioni che le arti viventi condividono con l’analisi politica e sociologica. Se un’arte è vivente, lo è in un preciso e folgorante spazio/tempo e questo implica la messa a punto di un modello di convocazione e di comunità con tutto ciò che ne consegue: operativamente un’idea di campo e visionariamente un’idea di radura.
Peng on the Beach convoca il pubblico in un campo da Beach volley come appendice dell’ultimo episodio del festival, Peng X, che nel giugno 2021, dopo la sospensione dell’anno precedente per pandemia, si era insediato nel parco del quartiere Barca di Bologna sulle sponde del fiume Reno, rimescolando nuovamente le carte e producendo un nuovo spaesamento nello sconfinamento di un’estensione en plein air. La programmazione si dissemina e si liquefà nello spazio senza apparentemente orari ma con un timing stabilito dal fiuto del pubblico, in stretta connessione con dispostivi di localizzazione e realtà aumentata.
La cerimonia di chiusura dicembrina, a mesi di distanza, diventa occasione per presentare il quaderno che lo accompagna, decimo di una serie di scritture che hanno marcato costantemente il festival e che restano a documentare un rapporto di tipo sostanziale con la performance, con gli artisti e gli osservatori. Peng on the Beach, però, porta un ulteriore segno, e in qualche modo passa il testimone, nella sua funzione, forse meno evidente, di collocarsi sulla sabbia, materia fine e mobile, chiedendo al pubblico di mettersi in una nuova postura, per ripartire con il corpo pesante e sprofondato. Da questa posizione conquistata in un decennio ci sono solo due modi di stare e sortirne: o ci si guarda come reduci, o ci si lascia indietro la materia pensante e pesante del corpo, procedendo in un'altra direzione con l’andamento da Wandersmann, il camminatore che riparte spinto incessantemente a lasciare qualsiasi postazione conquistata. Se si esce dalla sabbia si sono lasciati indietro dei buchi. E proprio gli Holes sono uno dei nuovi formati che Xing si accinge a sperimentare, occupando e attivando luoghi non istituzionali come ridefinizione temporanea di uno spazio pubblico.
Oggi, in un’ulteriore distanza di qualche mese e con una sensibilità sfocata ma lucida, si tenta un primo consuntivo dell’esperienza di Live Arts Week e dei suoi precedenti partendo da un dialogo che Giorgiomaria Cornelio ci propone con Silvia Fanti e Daniele Gasparinetti (Lucia Amara)
Giorgiomaria Cornelio: Già a partire dal nome, la Live Arts Week manifesta la propria vocazione a contenere una pluralità di mondi e pratiche dal ‘vivo’, in costante rimodulazione. Si tratta di un festival, o di qualcosa che interroga e scavalca questo formato consueto?
Silvia e Daniele: Già nel 2011, quando abbiamo iniziato a ragionare sulla natura di Live Arts Week, eravamo molto dubbiosi sulla nominazione “festival”. Ne avevamo appena chiusi due (Netmage - International Live Media Festival e F.I.S.Co. - Festival Internazionale sullo Spettacolo Contemporaneo), entrambi realizzati a Bologna a partire dal 2000. Era una rifondazione e una confluenza più che naturale per noi. Volevamo rompere con la concezione di festival visto come punta consumistica della vita culturale di una città. Desideravamo piuttosto una coabitazione di forme diversificate per dimensione e intensità, che presentassero l’arte come un fatto complesso ma coeso. Il nostro riferimento più prossimo era la storica Settimana internazionale della Performance che si tenne a Bologna nel 1977: un varco temporale dedicato interamente all’esplorazione delle “arti dal vivo”. Se oggi tutto ciò può sembrare ovvio, non lo era dieci anni fa.
Non ci interessava lo spettacolo come unità la cui sommatoria costituisse delle vetrine, né i luoghi disegnati funzionalmente per questo. Smantellando gli standard di presentazione e fruizione, siamo naturalmente approdati a forme espanse e di intreccio di varie espressioni del contemporaneo. Si trattava di testare a ogni edizione delle possibili modalità di condivisione di uno spazio culturale, delle posture che artisti e pubblico potessero condividere. Le live arts le abbiamo intese come “un insieme eterogeneo di pratiche che ruotano intorno alla presenza, alla dimensione performativa e all’esperienza percettiva di suoni e visioni”. Questo accadeva prima che i musei in Italia si aprissero a questo tipo di sperimentazione fisico-temporale. E prima che il mondo del teatro, o meglio le sue istituzioni – perché gli artisti arrivano sempre prima –, si rendessero conto che era necessario espandere il “fatto” teatrale o coreografico o sonico nella direzione di ciò che oggi chiamiamo una “situazione”, un “accadimento”. È stato interessante il percorso di nominazione in questi venticinque anni di attività: in un certo senso facciamo sempre la stessa cosa, ma cambiano le prospettive e i contesti.
Che tipo di confronto c’è stato con la Settimana Internazionale della Performance? Con quella eredità, con quelle pratiche…
Silvia e Daniele: Ad un certo punto, nel 2017, ci siamo confrontati fisicamente con la prima Settimana della Performance, occupando lo stesso spazio nel quale aveva avuto luogo cinquant’anni prima (la ex GAM, progettata da Leone Pancaldi). Ci siamo attendati in un luogo dalla memoria rimossa, adottando strumenti contemporanei e spargendo rare citazioni, solo pochi segni allusivi. Se la performance è stata storicizzata, il performativo – la sua messa in campo – è oggi un discorso assai più vasto: per noi live arts significa tutto ciò che viene dopo lo spettacolo, che lascia cadere i ruoli, dismettendo in un certo senso anche la performatività, per come viene comunemente intesa. Dal punto di vista artistico è diventata un genere. Nel nostro riattraversamento – più che riattualizzazione – di quella esperienza storica alla GAM, è risultato chiaro un bisogno di evanescenza e frantumazione più che di lotta e scompiglio come nel ’77. Si è insinuato uno spirito di sospensione e non controllo, o meglio la scelta di non manovrare. E ora è arrivato il momento anche di sottrarsi, di non indicare. In occasione di Peng X, Cristina Kristal Rizzo diceva: “Fermiamo il diritto alla libertà di muoverci”.
Che cosa significa dunque questa messa in campo delle live arts oltre il luogo comune del performativo?
Silvia: Siamo autodidatti anche se veniamo da studi di area. Non ci siamo mai definiti curatori preferendo il termine organizzatori, perché ogni volta si tratta di avviare un’impresa complessa. Siamo in fondo degli spettatori all’ennesima potenza. Tutto ciò che abbiamo fatto nasceva da un forte desiderio di creare un’opportunità per questi accadimenti e condividerli con un’area di persone sensibili. Il termine pubblico ci è stato sempre stretto.
In tutti i dispositivi, spazi e formati che abbiamo inventato, l’intento era quello di richiamare una comunità, intesa non come un gruppo identitario, ma come una “convocazione”. Lanciare messaggi a chi ha strumenti per recepirli e poi codificarli. A oggi, il “campo”, è lo spazio che più ci interessa: certamente non si tratta di uno stage perimetrato, ma di quello spazio non direzionale che è fondamentale per le live arts. Mettere in campo una ricerca significa immaginare lo spazio/tempo di un accadimento, crearne le condizioni, ma poi lasciare che le cose si muovano organicamente.
Nella vostra ricerca avete anche sviluppato dispositivi di registrazione “in presa diretta”, come i quaderni...
Silvia e Daniele: Nei primi anni di Live Arts Week abbiamo avuto l'esigenza di fermare dei pensieri sui quaderni, chiedere delle parole agli artisti con cui stavamo collaborando, presentare materiali pre-esistenti, dei reprints, e anche lo sguardo di spettatori che ci hanno accompagnato e con cui si sono consolidate nel tempo collaborazioni. Non partiamo da una teoria per metterla in pratica, ma da un’investigazione sulle pratiche commentate dal vivo. I quaderni di Peng rientrano in quest’ottica: vengono fatti in tempi brevissimi, gli interventi sono fissati su carta durante il tempo della costruzione del festival, hanno un carattere immediato. Se abbiamo bisogno di un pensiero consolidato facciamo ricorso a documenti del passato che possono risvegliare scintille e condurci in direzioni ancora inaspettate…
Questa dimensione immediata del commento mantiene dunque un carattere di prossimità con la performance…
Silvia: Ci sono diversi livelli di riflessione che si intrecciano con l’operatività delle nostre professioni (di organizzatori, artisti, osservatori, pensatori), tutti sistemicamente necessari per non rinchiudersi in un ambito espressivo o di competenze. Realizziamo una pubblicazione per modularsi attivamente in ciò che si progetta, si fa, si esperisce, a volte si giudica o si pregiudica, si lancia. Non metterei però troppo l’accento sull’immediatezza nel nostro caso di redattori ed editori lampo: è un viaggio parallelo alla realizzazione degli accadimenti. Forse dopo l’immersione a Peng on the Beach a cui hai partecipato (flussi e frammenti di discorsi, suggeriti in cuffia, e lanciati nell’aria senza appartenere a nessuno – c’erano molti estratti dal quaderno, e in questo è consistita la presentazione del libro: una utterance performata da una moltitudine) sei entrato in questo sistema di feedback, spirali e diversioni, come tanti accompagnatori. Si tratta a tutti gli effetti di una critica performata, ossia di un pensiero vivente che si intreccia con delle pratiche, e viceversa di una performatività critica, se pensiamo agli artisti.
Credo tuttora che la critica performata sia una dimensione importante e vitale per le live arts. Ad esempio con Lucia si è instaurato un rapporto duraturo, anche perché viviamo nella stessa città, a Bologna, e abbiamo potuto sperimentare parecchio con il coinvolgimento di artisti invitati da Xing. Possedeva già da quando l’abbiamo conosciuta una precisa vocazione a performare la critica e abbiamo cominciato da subito a sviluppare questo processo, mi sembra a partire della W, il segno che avevamo installato in piazza del Nettuno a Bologna nel 2007, in occasione di Wanted, intuizioni sul mondo in attesa che diventino una costruzione compiuta. Era un’operazione realizzata assieme a Kinkaleri, e che avuto uno suo seguito, una proliferazione di W e un sistema di variazioni, moltiplicazione di occasioni e passaggi di mano. In quel progetto erano coinvolti come osservatori attivi i critici Joe Kelleher e Fabio Acca. Anche Lucia si è attivata, come risucchiata da quel segno urbano che l’ha condotta a dargli senso, investendo parole e rilanciando agli autori stessi. A parte questo aneddoto sul crash co-autoriale di W, sono ancora troppo poche le figure critiche che si “esercitano” dal vivo. La creazione non è prerogativa degli artisti.
Lucia Amara: Quando la scrittura si produce nel tempo ancora palpitante della perfomance, si aprono strade che sono ben diverse da ciò che accade negli studi in cui si applica una lente di tipo storicistico o analitico. È uno scrivere restando attaccati al fuoco, e da studiosa io ho delle possibilità che non ho in altri casi. Potevo a mia volta mettere in campo un tipo di ricerca, un tipo di sguardo e di scrittura a partire dalle immagini messe in campo da Silvia e Daniele. La mia scrittura è permeata totalmente dall’aver assunto il tempo e i modi di una “messa in campo” e questo le ha dato un suo timbro sia a livello stilistico che contenutistico. E sembrerà un paradosso ma questa idea di performativo intimamente connesso, come diceva prima Silvia, con l’immaginare uno spazio/tempo e col richiamare una comunità, mi dava anche la possibilità di abbozzare e di avvicinare un’idea di politico, per esempio riflettendo e connettendo l’apparizione degli eventi alle dinamiche di articolazione tra sfera del pubblico e sfera del privato, tra condivisione e intimità. Con molta lievità potevo parlare di polis così come di tocco, una sfera della “struggenza” che il performativo richiama. Credo di essermi ampiamente attivata come super spettatore, nell’idea di Silvia – godendomi tale condizione e cogliendo il testimone da Live Arts Week, a volte assumendo l’identità bastarda di Peng, l’eroe eponimo del festival, nella costruzione di una comunità e del pensiero di questa comunità temporanea e provvisoria. Dal punto di vista più tecnico della scrittura in sé, è venuto formandosi un quasi canone linguistico con un lessico che ho nutrito negli anni e che ha una sua autonomia rispetto al resto della mia scrittura in altri campi.
La scrittura viene trattata come uno degli elementi in un’orchestrazione più ampia…
Daniele: Ogni edizione di Peng potrebbe essere pensata come se si trattasse della realizzazione di un film vivente. Costruire un set che coinvolge diverse maestranze per creare un intreccio tra parole, immagini, suoni, fra sincrono e fuori sincrono. Se devo pensare a una teoria, è una teoria del montaggio ancora a venire a cui faccio riferimento. Teoria che non abbiamo mai elaborato personalmente, perché è stato certamente più interessante farli questi montaggi. Lucia ha appena parlato di “politico”. Nel caso di Peng parlerei piuttosto di “pre-politico”, perché ogni set è un insediamento, è l’atto in cui una comunità si riunisce in quanto istituente, prima che la polis sia data. Quindi il pre-politico per me “avviene” ed è sempre avvenuto nella comunità (o gruppo di convocazione) che si riunisce insediandosi per valutare la plausibilità di una costituzione che darà luogo, poi, alla politica: ma forse, non necessariamente e solo in seguito, o altrove. Questo è il processo che ogni anno è stato realizzato nella forma di film vivente a cui hanno contribuito molte persone, anche se a volte inconsapevolmente.
Che rapporto c’è dunque tra intensità dell’ascolto e intelligibilità da parte del pubblico?
Daniele: Per provare a rispondere alla tua domanda ci dobbiamo spostare su di un terreno che è forse ancora più pre-politico. Un paleo-politico? Mi viene in mente il rapporto che esiste tra derviscismo e sufismo: l’intensità è esperienziale, e appartiene al derviscio che la pratica; l’intelligibilità è teorica e appartiene al sufi, che opera quella costruzione retorica che è in grado di mediare con il potere l’esistenza di un evento che si è dato.
Le pratiche di cui avete parlato sono accomunate da questo movimento edificativo che un attimo prima di istituirsi, di solidificarsi, si dismette – come un set cinematografico che per l’appunto viene smontato senza mai diventare spazio monumentale. Vi chiedo allora: qual è il rapporto – la mediazione, forse – tra i luoghi attivati da Xing e la geografia di Bologna, che è la città all’interno del quale vi trovate a operare?
Silvia: Insediandoci la maggior parte delle volte in luoghi e contesti più vari, il livello di mediazione linguistica e operativa è molto stratificato, in quanto tocca soggetti diversi con cui di volta in volta si apre un rapporto: preferiamo costruire rapporti molteplici, spingendoci spesso ad approcciare situazioni all’inizio poco sensibili alla nostra proposta. Partire dalla distanza, ascoltarci e accordarci nella maniera più reale, apre affacci che spazi istituzionalizzati e identità fortemente organizzate, come musei, teatri, biblioteche non offrono. Esempi ce ne sarebbero tanti… è stato certo più interessante e anche più divertente lavorare nella bottega del barbiere di Romano Prodi, dove abbiamo portato dei bambini che praticavano tagli “osé” ai clienti, che organizzare la stessa azione in un museo o una galleria d’arte; o utilizzare l’intero campo da calcio dello Stadio Dall’Ara per una performance che era una partita a un solo giocatore. Proiettare in questi contesti possibilità che avrebbero tutt’altra temperatura se dovessero accadere in mezzo alle maglie istituzionali è un perdere di vista i luoghi di potere. È una scelta di libertà, di effimerità…
Daniele: Si viene a costruire tutta una diversa geografia che ridisegna la città: una geografia immaginale che ridispone le funzioni, lasciando la città così come la conosciamo sullo sfondo. Se dobbiamo parlare di mediazione, politica o impolitica, queste azioni praticano l’immediato, sono per loro natura dei media.
C’è – volutamente – un’economia della perdita. E insieme un percorso che trattiene in sé una rete duratura di rapporti…
Silvia: Non è un caso che per la decima edizione di Live Arts Week abbiamo lavorato con un gruppo di artisti con i quali avevamo condiviso un percorso da lungo tempo, lasciando a loro un’ipotesi di messa in corpo di un largo patrimonio comune: differenti sensibilità che coesistono, si presentano insieme, costituendo le mille interpretazioni possibili di uno stesso accadimento. Il performer è colui che riesce a modulare intensità e intelligibilità, rendendo corporeo non tanto un pensiero quanto un tentativo di interrogazione. E questo comporta una compresenza poetica di forme di esternazione, anche distanti da quello che è il nostro sguardo personale: una continua trasformazione che accade davanti agli occhi del pubblico, senza chiusura o pianificazione.
Lucia: Un’altra questione interessante è che nel contesto di Live Arts Week il performer viene chiamato a mostrarsi negli aspetti apparentemente minori della sua pratica artistica, non finiti, ancora suscettibili di rimodulazioni: la ricerca curatoriale interviene in complicità con questi gesti spesso invisibili, non facilmente esponibili in altri contesti, ma non per questo meno importanti. E qui interviene un altro punto nodale: il performativo non è solamente corporeo, o meglio non è in assoluto appannaggio del corporeo. Questo è un malinteso. Le arti in presenza non sono esclusivamente arti del corpo. Il performativo è una categoria del linguaggio e in quanto tale imprime una certa qualità alla comunicazione. Penso a How to Do Things with Words di John Austin secondo cui performativo è “ciò che fa quello che dice”. Credo che il malinteso si generi da una lettura parziale di alcune pagine di Judith Butler – che a sua volta dichiara la sua ascendenza da Hannah Arendt (che non credo abbia mai parlato di performativo) – come se ad accomunare politica e performance fosse il corpo e come se il performativo garantisse al corpo, e viceversa, un certo quoziente di democrazia partecipativa, o di lotta. Il performativo è anche il corpo ma non solo ed essendo nell’ordine di una qualità (“fa quello che dice”) viaggia piuttosto tra efficacia e promessa, e non sempre la potenzialità di esposizione, propria al performativo, sortisce in atto (linguistico, direbbe ancora Austin).
Forse il malinteso ha proprio a che fare con il corpo, inteso soltanto come “corpo dell’uomo”... esiste però un corpo sonoro, e poi un corpo scrittura, una carne del testo, per ritornare alla “critica performata” di cui parlavamo prima…
Silvia: Certo, è necessario attraversare i diversi ambiti, senza mai fissarsi in categorie. A tal proposito, aggiungerei un ulteriore elemento in questo discorso, che è quello della passeggiata e del paesaggio: Gertrude Stein parlava di landscape theatre, qualcosa di simile all’esperienza del guardare dal finestrino di un treno. Per me parlare di live arts non può prescindere da questa immagine di paesaggio in continuo cambiamento, e da un’idea di attraversamento di uno spazio legata al contempo al visitatore e all’artista. La performatività non è dunque sempre legata al maker come individuo, ma è diffusa e non gerarchica, tenuto conto che c’è anche una performatività della ricezione e dell’immaginazione. Esiste una confluenza di soggettività, di posture e di percorsi non statici, ben diversi dalla passività imposta dalla seduta teatrale.
Daniele: In effetti, il paesaggio, fra le sue qualità, possiede quella di incantare. Ma è lo sguardo del passeggero che realizza questo incanto. Re-incantare, pertanto, come un atto ermeneutico che si sospende, una piccola epochè immaginativa.
Parlate di reincantamento, e io mi rivolgo a ciò che altrove ho provato a chiamare “fioritura percettiva”: questa agitazione dei materiali che si attua con lo sforzo immaginativo, che conduce lo sguardo a farsi presente rispetto alle cose. Si palesa così dimensione autenticamente politica di quanto abbiamo discusso…
Daniele: Parlando di reincanto, oltre al pensiero di Silvia Federici, ritengo si trovi una dimensione politica decisiva ne La nuova alleanza, quel testo di Ilya Prigogine e Isabelle Stengers dove la posta in gioco è una visione del mondo che chiede con urgenza una alleanza rinnovata tra scienza e spirito. In questo momento storico, fra le luci sovraesposte dell’Antropocene, si tratta di revisionare tutte le categorie, di passarle nuovamente in rassegna, per contrastare la povertà immaginale che ci circonda.