Materia per materia / Insegnare letteratura italiana
Da molti anni ormai nel mondo della scuola si parla di competenze, per lo meno a partire dal 2006, quando per la prima volta il Parlamento e il Consiglio europeo hanno emanato raccomandazioni, poi recepite dai vari organismi che hanno il compito di organizzare i sistemi scolastici dei paesi membri, in cui vengono delineate le otto competenze chiave che tutti i cittadini dell’UE devono possedere per realizzare il proprio sviluppo personale, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione. In particolare, quelle che dovrebbero coinvolgere direttamente gli insegnanti di italiano, modificate nel 2018 dal Consiglio europeo, sono: competenza alfabetica funzionale; competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare; competenza in materia di cittadinanza; competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali.
Nel nostro sistema scolastico questi suggerimenti già da anni sono stati tradotti nelle Indicazioni nazionali per i licei e nelle Linee guida per gli istituiti tecnici e professionali e più recentemente nelle Linee guida per la certificazione delle competenze nel primo ciclo del 2017, ma non sono sicura che siano stati ancora interiorizzati da tutti i docenti, che hanno il compito di declinarli in azioni didattiche significative. Perciò di fronte ai dati sconfortanti delle prove Invalsi del 2021 molti hanno preferito attribuire la responsabilità alla DAD, senza ampliare la riflessione sulla didattica e senza chiedersi se e fino a che punto siamo riusciti a tradurre le raccomandazioni degli organismi europei in innovazione didattica o in buone pratiche, come oggi si usa dire. Sono infatti convinta che le carenze manifestate oggi dagli studenti vengano da più lontano.
La prima questione su cui soffermarsi è stabilire la differenza tra conoscenza, abilità e competenza, a cui fanno riferimento sia le raccomandazioni del Consiglio europeo, sia le Linee guida per gli istituti tecnici e professionali. In sintesi le conoscenze derivano dall’assimilazione di informazioni ricavate attraverso l’apprendimento, le abilità sono le capacità di applicare le conoscenze per risolvere problemi di tipo cognitivo e di tipo pratico e le competenze indicano la comprovata capacità di usare le conoscenze e le abilità nell’ambito del proprio sviluppo personale, sociale, lavorativo. Va da sé che il progetto di una scuola delle conoscenze, in cui la didattica della letteratura italiana aveva un impianto esclusivamente storicista, viene sostituito da quello della scuola delle competenze. Dal confronto tra le Indicazioni nazionali per i licei e le Linee guida per gli istituti tecnici e professionali emerge l’assenza di ogni riferimento alle competenze negli obiettivi specifici di apprendimento della letteratura italiana nel secondo biennio dei percorsi liceali.
Ciò significa che gli insegnanti liceali sono autorizzati a puntare esclusivamente sulle conoscenze, seguendo una prassi trasmissiva, che vede gli studenti come vasi da riempire di prezioso sapere? Non posso credere che sia così perché il dibattito sulla questione “conoscenze vs competenze” è troppo vasto e ricco di contributi rilevanti per poter coinvolgere esclusivamente una parte del mondo della scuola, in particolare soltanto chi insegna negli istituti tecnici e professionali. Inoltre forse il Ministero e i suoi funzionari stanno lavorando per colmare il vuoto normativo, e allora si tratterà solo di aspettare. Intanto però la letteratura sulle competenze e la riflessione su una prassi didattica che consenta agli studenti di raggiungerle e consolidarle si avvale degli interventi, anche polemici, di diversi studiosi e docenti. Impossibile qui citarli tutti, ma ho apprezzato in particolare gli articoli di Daniele Lo Vetere, Rosario Paone e Gianni Marconato, pubblicati sul sito laletteraturaenoi.it.
I tre autori, anche se in modo diverso, rendono esplicita una domanda che anch’io mi sono posta, e cioè: come declinare le competenze chiave di cittadinanza in area umanistica e quali attività proporre in classe per raggiungerle? Marconato ne individua diverse, e per chi insegna italiano mi sembrano soprattutto rilevanti queste: competenza di usare il pensiero critico, divergente e plurale; competenza nell’argomentazione, usando concetti e dati; competenza nel decodificare e valutare la comunicazione veicolata attraverso i social media; competenza di formulare i propri giudizi su questioni personali e collettive.
A questo proposito mi pare che la lettura e l’analisi dei testi letterari, inseriti nel panorama culturale del periodo storico in cui sono stati prodotti, possa aiutare a sviluppare il pensiero critico purché lo studente venga guidato a recepirli nella loro distanza temporale e a considerarli quindi come altro da sé. Inoltre le attività di dibattito sul modello anglosassone, oggi molto praticate nella scuola secondaria, così come la scrittura dei testi argomentativi, servono a costruire la competenza argomentativa, sia orale che scritta. E ancora, la competenza di decodifica e di valutazione della comunicazione veicolata dai social media non può che essere attivata con l’aiuto degli insegnamenti della filologia, così come la capacità di formulare i propri giudizi su questioni personali e collettive non può essere considerata come acquisita senza aver prima irrobustito il lessico e migliorato la capacità di esprimersi in modo chiaro e comprensibile. E non sono forse proprio queste le attività intorno alle quali si incardina l’insegnamento della lingua e della letteratura italiana nella scuola secondaria?
Per costruire le competenze alcuni, tra cui Federico Batini (Progettare e valutare per competenze, in I Quaderni della ricerca 06, 2013), propongono di assegnare agli studenti “compiti di realtà” () realizzati in contesti reali o verosimili. Ma come afferma Marconato, questi sono basati sull’idea che basti far fare qualcosa ai ragazzi, far realizzare loro un prodotto, come una mostra oppure un video per attivare le cosiddette competenze. È senz’altro importante istituire un aggancio con il mondo reale, mostrando come lo studio della letteratura non sia un’attività esclusivamente funzionale alla valutazione scolastica, ma abbia a che fare anche con la vita reale, eppure i “compiti di realtà” talvolta appaiono più come una edizione riveduta e corretta dei tradizionali esercizi che degli strumenti innovativi.
Durante lo scorso anno scolastico, in cui ricorreva il settecentenario della morte di Dante Alighieri, ho progettato un’attività didattica, con una collega molto più esperta di me nell’uso delle tecnologie digitali, che aveva come obiettivo quello di usare alcuni versi presenti nelle tre cantiche della Commedia per far realizzare agli studenti, suddivisi in gruppi, un prodotto multimediale che presentasse a una giuria di esperti quale idea avesse Dante della società a lui contemporanea, della politica e della cultura filosofica e religiosa.
I prodotti multimediali richiesti sono stati un’infografica, un sito internet e un video, richieste che mi sembrano rientrare nei cosiddetti compiti di realtà, anche perché la giuria, composta da docenti universitari e liceali, ha valutato i prodotti ed ha infine decretato la vittoria di una squadra specifica. Per rappresentare il rapporto tra Dante e il suo mondo gli studenti hanno dovuto scegliere, tra quelli proposti, i versi della Commedia a loro giudizio più significativi, accompagnandoli con immagini e musica. Se da una parte tutti gli studenti hanno migliorato le loro competenze digitali, dall’altra non sono così sicura che abbiano acquisito quella di contestualizzazione e di interpretazione del testo letterario, forse anche a causa di alcune criticità, come il tempo troppo breve dedicato a questo progetto, che si è svolto in orario extracurricolare, e l’enorme mole di versi di Dante ai quali attingere.
La definizione delle competenze, come afferma Guido Armellini, che nulla hanno a che fare con la ripetizione dei contenuti presentati dall’insegnante, non è affatto semplice: «Non credo che si possa dare una minuziosa tassonomia di competenze letterarie standard attraverso le quali tutti i ragazzi e le ragazze dovrebbero passare, in un percorso lineare, scandito da tappe precostituite. Quando si legge un testo, indipendentemente dal livello di conoscenze letterarie che si possiedono, si mette in campo un’ampia gamma di strategie orientate alla costruzione del significato, che entrano in azione contemporaneamente» (da La letteratura in classe. L’educazione letteraria e il mestiere dell’insegnante, Unicopli 2014).
Se il dibattito su che cosa sia una competenza in lingua e letteratura italiana per gli studenti che affrontano un percorso liceale è ancora aperto, ancora meno definito è che cosa debbano fare per ottenerla e in che modo gli insegnanti possano misurare il suo raggiungimento. Forse però è meglio così, perché la logica della misurazione oggettiva ad ogni costo porta a derive inimmaginabili, come ha dimostrato l’ossessione per le griglie di valutazione, sempre più raffinate e sempre più inutili.
Tra gli studiosi che hanno assunto una posizione critica sulla scuola delle competenze troviamo ad esempio Giulio Ferroni che, in Una scuola per il futuro, pubblicato nel 2021 da La nave di Teseo, partecipa in questo modo alla discussione sulla scuola: «Nell’insieme è sembrata prevalere la nozione, ben inquadrabile entro l’orizzonte digitale, della funzionalità economica della scuola stessa: considerazione dell’educazione e dell’istituzione in quanto destinate all’acquisizione di competenze necessarie per la formazione e la crescita del capitale umano. Due termini, questi, che in modi diversi definiscono lo spazio scolastico in funzione della costruzione di soggetti destinati ad agire in futuro come produttori e consumatori, seguendo le alternanze dei cicli economici».
Come si può notare, è soprattutto l’associazione tra competenze e capitale umano a disturbare l’autore perché «se nel modello economico marxista era la forza lavoro dell’operaio ad essere acquisita a vantaggio dell’impresa capitalistica, il modello del tardo capitalismo neoliberale è arrivato ad avvalersi della prestazione dell’intera sostanza umana del soggetto: il concetto di capitale umano conduce a fare di tutta la formazione dell’individuo, della sua coscienza, di ciò che sa e che sa fare, una funzione della produttività dell’impresa».
E ancora: «Se questa è la destinazione del capitale umano, e se la funzione della scuola sarà quella di formarlo, è inevitabile che l’esercizio della vita scolastica, i suoi programmi e i suoi contenuti, dovranno adeguarsi alle esigenze dei grandi gruppi economici, dalla scuola dovrà venir fuori una serie di prestatori d’opera abili e creativi pronti a rispondere alle esigenze produttive del capitale».
Più avanti l’autore fa riferimento al PNRR, trasmesso dal Governo italiano alle Camere il 25 aprile 2021, che presenta come finalità principale della scuola quella di creare un ecosistema delle competenze digitali, in cui si valorizza il potenziamento di quelle scientifico-tecnologiche a scapito di quelle umanistiche. La proposta di un umanesimo tecnologico/matematico gli sembra poco convincente, perché orientata alla formazione del capitale umano, la forza lavoro che consentirà il ritorno allo sviluppo economico precedente alla pandemia. Pertanto formula l’idea di un umanesimo ambientale, in grado di coniugare la cura dell’ambiente, il senso civico, la responsabilità democratica e il rispetto dell’alterità e della diversità, nel quale le discipline umanistiche non avrebbero una semplice funzione ancillare, ma diventerebbero portatrici dei valori della nostra civiltà. Non posso che nutrire le stesse perplessità di Ferroni di fronte alla scuola delle competenze e del capitale umano.
Tra i contributi meno polemici, ma non per questo meno interessanti sulla scuola delle competenze, mi sembrano rilevanti tutti gli articoli pubblicati sulla collana dei QdR Didattica e letteratura, edita da Loescher. In particolare, un autore molto stimolante, la cui lettura è irrinunciabile per chi insegni italiano nella scuola secondaria, è Simone Giusti, un docente, formatore e ricercatore di Didattica della letteratura, i cui interventi sono reperibili sul suo blog in rete (simonegiusti.eu) oppure nelle varie pubblicazioni, molte delle quali edite da Loescher. Nel 2020 è stato aggiornato e ripubblicato da Carocci Didattica della letteratura 2.0, in cui l’autore, facendo riferimento ai recenti studi dei neuroscienziati, afferma che la letteratura è un potente strumento per fare esperienze che ancora non abbiamo fatto e forse non faremo mai, per immedesimarci negli altri e dunque comprenderli: «Quando ciascuno di noi ascolta o legge una storia (un romanzo, un racconto, una poesia narrativa, un qualsiasi testo in cui siano presenti almeno una voce e un punto di vista, dei personaggi che agiscono in un ambiente, operano delle scelte, manifestano delle intenzioni e producono un cambiamento nel tempo) il cervello “agisce”, simulando le azioni dei personaggi e, di conseguenza, imparando da esse».
L’insegnante di letteratura possiede dunque i ferri del mestiere per consentire ai suoi studenti esperienze significative con la letteratura perché essa, pur preesistendo ai videogiochi, funziona come un simulatore di realtà, mettendoci di fronte a situazioni impensate, in cui nella nostra vita reale difficilmente potremmo trovarci. Nel saggio suggerisce anche molte attività didattiche che si possono realizzare con le TIC e si prestano ad essere utilizzate efficacemente anche in tempo di lockdown.
Per tornare alla competenza di usare il pensiero critico, divergente e plurale, suggerita da Marconato, non è proprio quella che l’insegnante di italiano prova ad attivare quando propone l’analisi del testo? A me pare di sì perché il testo letterario è uno strumento fondamentale per comprendere che gli uomini e le donne del passato, pur provando le nostre stesse emozioni, le esprimevano, soprattutto in poesia, in modo completamente diverso dal nostro, con una lingua talvolta molto lontana da quella che usiamo noi, tanto più diversa quanto più lontana. L’esperienza del lavoro sul testo letterario, del suo smontaggio, della sua ricombinazione e riscrittura sono strumenti potenti che, dati in mano agli studenti, consentono loro di usare intelligenza ed immaginazione, sviluppando dunque il pensiero critico.
E ancora: credo che nella pratica quotidiana l’insegnante di letteratura italiana, se vuole promuovere apprendimenti significativi, debba imparare ad uscire dai confini della sua disciplina, facendo continue incursioni nelle altre, per lo meno in quelle che consentono un’esperienza estetica, come la storia dell’arte e la musica. Lo sconfinamento nella storia dell’arte permette ad esempio all’insegnante di italiano di presentare in maniera efficace ed immediatamente percepibile i caratteri di un’epoca e di una corrente, siano il Romanticismo che il Neoclassicismo che il Decadentismo, attraverso la visione e il commento dell’iconografia coeva. Si tratta quindi di sperimentare una didattica transdisciplinare, che da una parte permetta la comprensione più profonda dell’immaginario culturale di un’epoca e dall’altra consenta di risemantizzare, attraverso l’opera d’arte, le vicende individuali e collettive presentate nel testo letterario.
Come si è visto la questione delle competenze di lingua e letteratura italiana per gli studenti dei licei è tuttora aperta, e forse siamo ancora molto lontani dalla sua chiusura.
L’importante è che gli insegnanti siano consapevoli della loro ignoranza e perfettibilità, possano aggiornarsi, continuare a studiare, in primo luogo la disciplina che insegnano ma anche la teoria della didattica e la pedagogia, si pongano delle domande, ma soprattutto siano interlocutori vigili degli studenti, diventando capaci di, come scrive Armellini, motivarli all’apprendimento. «Come lo stregone, il clown e la pornostar, un buon insegnante lavora con il corpo, con la voce, con le emozioni. Come l’antropologo, esplora usi e costumi di una tribù sconosciuta, si sforza di gettare ponti fra culture diverse, cerca di costruire contesti comunicativi comuni».