Speciale
Intervista a Ettore Mo
Ettore Mo, decano dei giornalisti italiani, da 50 anni al Corriere della Sera, prima all’ufficio di Londra poi a Milano nella sezione spettacoli. Dal 1978, inviato speciale. Ha raccontato storie da tutti i continenti, seguito guerre e avvenimenti internazionali e vinto più di 40 premi. Considerato da molti un maestro o un esempio da seguire e forse uno degli ultimi grandi inviati. Ma lui, nella sua freschezza e semplicità, si considera un cronista, fedele alla regola insegnatagli da Egisto Corradi: “Per raccontare una storia bisogna consumare la suola delle scarpe”. Inizia a interessarsi alla scrittura e ai libri dopo le scuole medie. Soprattutto a come scrivevano gli altri. Poi si iscrive all’università di Cà Foscari a Venezia e, durante le estati, gira l’Europa: Svezia, Francia, Spagna, Inghilterra. È proprio qui, a Londra, che alla fine degli anni ‘50 trova un posto come cameriere sulle navi da crociera che fanno il giro del mondo. Abbandona la facoltà di lingue a Venezia e fa tre giri del mondo sulla nave. Ogni giro durava sei mesi. Ma l’idea di scrivere e di diventare giornalista non l’abbandona. Cosicché prima del suo terzo lungo viaggio lascia alcuni suoi scritti all’ufficio del Corriere della Sera a Londra. Quando rientra viene chiamato dalla sede londinese del Corriere. Si era liberato un posto. Non perde l’occasione. Inizia la sua avventura nel giornalismo. Era il 1962. Io ho avuto la fortuna e il privilegio di lavorare con Ettore, come fotografo, per circa vent’anni. Abbiamo iniziato nel 1995. Questa per me non è un intervista, ma una chiacchierata con un amico, un collega e un maestro. Perché, anche se i mezzi sono diversi, per lui un block notes e una penna, per me una macchina fotografica, abbiamo sempre avuto una visione comune del giornalismo e su come si racconta una storia.
Ettore, che cosa voleva dire fare il giornalista a Londra nel 1962?
I miei cinque anni a Londra sono stati una bellissima gavetta, ho imparato il mestiere. Ero il vice del vice del vice. Scrivevo di cronaca, in una Londra che stava cambiando pelle, un cambiamento che avrebbe influito anche fuori dai suoi confini. Guardavo come scrivevano gli altri, ascoltavo, e così imparavo giorno per giorno il mestiere del cronista. E devo dire che non è stato difficile, anzi, direi abbastanza naturale. Cercavo di essere sempre sul posto e di evitare la ridondanza e la retorica. Poi, quando sono arrivato alla sede del Corriere a Milano vedevo scrivere dei mostri sacri, come Buzzati, Montale, Montanelli. Avevo la fortuna di poterli studiare. E cercare di imparare. I miei maestri sono stati Egisto Corradi, Vittorio G. Rossi, Pansa, Buzzati. Ognuno di loro mi ha insegnato qualcosa.
Questa cosa di essere sempre sul posto, per te, è una regola fondamentale?
Sì, certo. Essere sul posto, vedere, essere testimone diretto. Per me un giornalista deve essere prima di tutto un cronista, assolutamente un cronista. E per raccontare una storia devi viverla fino in fondo. Nel mio modesto modo di vedere questo mestiere, il giornalista è quello che comincia dalla cronaca, affronta i fatti stando il più vicino possibile e anche dopo, negli anni, rimane un cronista. Io sono passato dal telefono al telex, al fax a internet, ma il comune denominatore per me è sempre stato quello di andare a vedere, analizzare e descrivere cosa ho vissuto e visto. Vedi, io non ho mai accettato il “mi hanno detto che…”. No, devi andare, vedere, scrivere. Come la prima volta che sono entrato in Afghanistan, pur di poter raccontare e vedere direttamente cosa stava succedendo, ho attraversato clandestinamente il confine con il Pakistan a piedi e per incontrare Massud ho viaggiato per giorni a dorso di un cavallo che avevo chiamato Taraki, come il primo ministro dell’Afghanistan.
Un’altra delle tue regole non scritte, che hai insegnato anche a me, è che la Storia con la S maiuscola, la raccontano le persone comuni, che ti interessa, certo, cosa pensa un presidente, ma vuoi sapere soprattutto cosa pensa la gente.
Assolutamente. Chiaro che se arrivo, ad esempio, in Afghanistan e so che posso intervistare il presidente, certo che vado a intervistarlo. Ma questo solo perché se tu racconti una storia devi avere più informazioni possibili, prese tutte dalla fonte primaria, direttamente. E in una situazione di guerra, miseria, fame, devo assolutamente parlare con il contadino, la madre, il rifugiato, il soldato... Cioé con le persone che vivono direttamente la fame, la guerra, la miseria. Perché sono loro che fanno la vera storia che si sta svolgendo davanti ai miei occhi. Sono loro che subiscono per primi sulla loro pelle le conseguenze delle scelte di altri, più potenti e forti.
Una volta che hai raccolto le informazioni, quando sei davanti alla tua macchina da scrivere (tu usi ancora una Olivetti 22), quali sono le regole per affrontare il foglio bianco?
Per me la prima regola è l’attacco. L’attacco di un pezzo è importantissimo, come per te è importante la foto di apertura di un reportage. Se sbagli l’attacco, finisce che sbagli il pezzo. Voglio dire che la forza che hai dentro, se sei stato turbato da quello che hai visto e sentito, da un particolare avvenimento, doloroso o felice, comunque sia, bisogna avvinghiare subito il lettore. Quindi non si può sbagliare l’attacco. Poi, come sai, io sono lento, non ho l’immediatezza. Faccio fatica. Però devo dire che a un certo punto, quando mi decido, quasi sempre ho indovinato l’attacco. Chiaramente devi avere tutte le informazioni possibili per cercare di sostenere quell’attacco, che può essere violento, forte, quindi dopo l’attacco devi spiegare al lettore tutta la storia, e il contorno deve essere robusto, lineare, ma anche sobrio e secco. Io ci tengo molto che sia stringato. Per me i pezzi più belli sono quelli più stringati, li sento più veri, diretti. Bisogna tenere l’argomento sotto gli occhi e dentro la testa del lettore, nel cuore del lettore. Senza fare riferimenti letterari, ma rimanendo nella cronaca, stretto alla vicenda e più vero possibile. Sobrio.
Anche secondo me nella fotografia bisogna essere sobri, andare per sottrazione: pochi elementi, forti. Una buona luce, una buona composizione, ma non troppi elementi. Quindi anche tu pensi che nel giornalismo bisogna andare per “sottrazione”?
Bisogna isolare ed essere diretti. Una volta che ti sei preparato e hai studiato la storia che dovrai raccontare, con la penna o con la macchina fotografica, devi provare a cercare un particolare, una microstoria che è anche una macrostoria. Una storia diretta, che possa racchiudere molte delle tematiche sociali di quel paese. Ecco, questa secondo me, è la sottrazione. Certo che se c’è il grande attentato, li ci piombano tutti. Ma quando sei un po’ isolato e stai cercando di analizzare il dramma profondo di una società devi cercare di trovare un punto di vista che ti permetta di analizzare in profondità tutta la grande storia, isolando quel punto di vista. Alle volte è una situazione, altre è l’intuito che te lo fa trovare. Ma bisogna sempre cercare un proprio punto di vista, per non rimanere invischiati nella banalità. Andare in profondità, anzi meglio, trovare la propria angolazione per andare in profondità. E con l’esperienza impari a raccontare il genere umano.
Tu sei uno che è anche molto attento ai particolari. Quanto arricchiscono il racconto?
Quando vado in un posto, devo avere il tempo di fare una fotografia mentale di quel posto, sfruttare tutto, perché anche un piccolo particolare può dare tanto a una storia. I particolari non vanno dimenticati ma scritti per la verità della storia.
La letteratura ha influito nel tuo modo di scrivere?
Tanto, ho sempre amato la letteratura ma non sono mai stato un letterato. Ho sempre scritto da giornalista, con il mio stile, per il lettore.
È stato difficile trovare il tuo stile, il tuo linguaggio?
Non è stato facile, ero turbato perché leggevo i pezzi dei grandi giornalisti. E anche oggi quando rileggo i miei pezzi, non sono quasi mai contento. Inizialmente dico, sì, può andare. Ma poi quando li rileggo non sono contento, dico che ho sbagliato questa o quella cosa, che sono stato lacunoso in alcuni punti, non sono stato sufficientemente diretto e che forse dovevo essere più o meno veemente, forse più dolce. Insomma, mi rimprovero.
È vero che Fernanda Pivano diceva che tu eri l’Hemingway italiano?
Sono stato un grande ammiratore di Hemingway e la Pivano era una una donna dolcissima, c’era un grande affetto tra di noi. Diceva che se fossi nato negli Stati Uniti sarei andato spesso al bar con Hemingway. Io ero incantato dalla letteratura americana, anche perché da giovane leggevo Domenico Rea, Vittorini, Verga, Fogazzaro.
Ettore, com’è cambiato il giornalismo?
Le tecnologie hanno rivoluzionato parecchio il giornalismo, ti consentono di essere sui posti contemporaneamente agli avvenimenti, ma poi in un pezzo, la mancanza della presa in diretta si sente. Ti illudi di essere presente in una situazione, invece non ci sei e allora c’è il rischio che intervenga la fantasia creativa per cercare di tenere su il pezzo. Oggi nei giornali si lavora molto dai desk, dalle scrivanie. E sui monitor dei computer arrivano le notizie più disparate e a volte le peggiori trovano spazio. Non so di chi sia la colpa, se degli editori, della crisi o dei giornalisti. Ma è certo che si va sempre meno sui posti e ci si fida di internet, social network, street journalism. Ma che storia puoi raccontare quando la vedi attraverso lo schermo di un computer e non con i tuoi occhi?
Secondo te è vero che il giornalismo che sta morendo?
Secondo me non muore, bisogna trovare però la strada giusta, adattarsi alle nuove tecnologie e non farsi sopraffare. Bisogna capire perché si perdono lettori e che cosa non funziona. Se nei giornali ci saranno ancora cronisti che vanno in giro, nella loro città o per il mondo, a raccontare storie, allora il giornalismo non morirà mai. Bisogna fare inchieste. Può cambiare il supporto, cartaceo o elettronico, ma non il contenuto. Oggi sembra che sia più importante arrivare primi a raccontare una storia invece di cercare di essere i più bravi. Bisognerebbe arrivare primi ed essere bravi, mettendo a frutto l’esperienza che hai dentro e che può fare la differenza. E non dimenticare l’importanza della scrittura. Io quando compro un giornale non penso mai di aver buttato dei soldi. Ci comportiamo bene, ma si potrebbe fare di meglio.
Che cosa non ti piace del giornalismo oggi?
Mi sembra un giornalismo un po’ d’accatto, alla rinfusa, annacquato. Una volta i quotidiani avevano una loro precisa connotazione. Sapevi quali notizie ci trovavi e quali no. Così come i settimanali. Ma oggi la notizia che trovi sul giornale di gossip la trovi anche sui quotidiani. Bisogna riempirli di roba per attirare lettori. E poi oggi i giornali sono troppo prevedibili, sai già più o meno che cosa troverai nelle pagine di un giornale il giorno dopo. Più o meno le stesse cose che hai visto al telegiornale la sera prima.
Tu che cosa consigli?
Secondo me è importante specializzarsi, in una tematica o in un area del mondo, l’importante è che sia qualcosa che si ama. E una volta conosciuta quella realtà, scegli il posto dove andare e vai. E poi avere pazienza, curiosità, voglia di confrontarsi.
E delle scuole di giornalismo, cosa ne pensi?
Le scuole non ti fanno le ossa come stare tutto il tempo in una redazione. Ma purtroppo oggi i giovani non hanno tante altre scelte. E allora va bene la scuola se poi metti in conto che devi formarti anche da solo, “rubando” il mestiere, guardando come lavorano quelli che per te sono bravi, leggendo i loro pezzi, avere l’umiltà di imparare sempre dagli altri.
In tutte le storie che hai raccontato sei sempre stato dalla parte dei più deboli. Perché? Forse perché sono più facili da raccontare?
Perché mi sentivo come loro, mi identificavo in loro.
Quanto è importante l’etica nel nostro mestiere?
Fondamentale. È inconcepibile che ci sia un giornalista senza una dirittura morale. Una coscienza etica. Non si deve mentire, ma dire soltanto la verità. E poi non bisogna essere servili, compiacere l’editore invece che il lettore. Parlare con il lettore è la cosa più importante. Gli interessi aziendali non devono mai sovrastare il mestiere del giornalista, o almeno, non dovrebbero mai. Quando capitava a me, ho avuto la forza di dire: no. Ed è successo che mandassero qualcun altro invece che me, a causa delle mie idee. Però sai, quando racconti i fatti, quelli sono lì davanti a te, quindi… non puoi mentire.
Qual è il difetto che un giornalista non deve avere?
L’ipocrisia. Se sei un ipocrita vuol dire che non sei vero da nessuna parte. Se sei un ipocrita vuol dire che accomodi una storia secondo i tuoi interessi personali.
L’Afghanistan è stata la tua storia più importante?
Sì. Entravo da clandestino con i mujahidin. Quando sono arrivato la prima volta, nel 1979, in Afghanistan, mi sono reso conto che quella sarebbe stata la storia della mia vita. Una storia con molti ingredienti: la lotta per l’indipendenza, componenti patriottiche e umane. Un Paese dove era difficile andare e muoversi. L’amicizia con Massud. Insomma, ho capito che era la mia storia e che niente e nessuno poteva fermarmi. E dal 1979 al 2011 ho fatto tantissimi viaggi in Afghanistan.
Ma tu sei un inviato di guerra o un cronista?
Vedi, la guerra, può sembrare cinico dirlo, per un cronista è il massimo. Non c’è niente di più di una guerra per raccontare il dolore e la crudeltà del genere umano. Nella guerra succede davvero di tutto, tutta la natura umana si rivela. Buona o cattiva che sia, generosità, codardia, in una guerra li trovi. Il materiale su cui lavorare è incandescente e quindi anche il pezzo diventa incandescente. E bisogna fare molta attenzione a scriverlo.
Quanto è importante il connubio tra scrittura e fotografia?
Come diceva Robert Capa, non ci sono belle o brutte fotografie, ma solo fotografie prese da vicino o da lontano. Un giornalista e un fotografo che girano insieme è il connubio perfetto perché vanno vicino insieme alle storie e uno trasmette all’altro quello che vede, senza cercare di prevaricare. Con uno scambio continuo di idee. Quattro occhi vedono meglio di due e quello che cambia è il mezzo, un block notes o una macchina fotografica, ma non il fine.
Una tua caratteristica è non essere mai stato un arrivista.
Mi ha aiutato, perché così sono stato libero e non suscitavo le invidie dei colleghi.
Per alcuni giovani giornalisti sei un maestro…
Anch’io da giovane avevo i miei miti e maestri e mi fa piacere pensare, non dico di essere un maestro, ma almeno un esempio da seguire per riuscire a fare questo mestiere nel miglior modo possibile.
La prima volta che hai visto un tuo articolo firmato sul Corriere, cosa hai pensato?
Non ho avuto paura, ho solo pensato che iniziava un bel percorso.
L’intervista è finita, continuiamo a bere la nostra birra e ogni volta mi stupisco di come Ettore sia rimasta la stessa persona entusiasta, umile, affabile. Lo stesso Ettore di quando, giovane giornalista che scriveva dalla redazione del Corriere di Londra e vedeva i suoi pezzi pubblicati senza firma. E il padre, che tutti i giorni comprava il Corriere della Sera nella speranza di mostrare i suoi articoli agli amici dell’osteria, doveva aspettare, per vederla, che morisse qualcuno e che il necrologio venisse firmato da tutti i giornalisti… Ma valeva la pena aspettare: l’ordine cronologico era Mo, Montale, Montanelli.
Questa intervista apre il numero 24 di "il Reportage", quello attualmente in edicola.