Intrecci coloniali alla Royal Academy
In mostra l’arte bianca ed eurocentrica di un impero all’apice e poi l’arte “altra” che, dall’interno di un’istituzione la cui nascita è stata una diretta conseguenza delle politiche coloniali, ha percorso quasi una sorta di tragitto in parallelo, passando dai margini dell’anonimato a un protagonismo crescente che ha usato, abbracciato e sfidato i canoni imperiali.
Detta così sembrerebbe un’esposizione dei “bianchi” da un lato, datati nei loro ritratti allungati, nei paesaggi idealizzati, in quelle scene di genere di una contemporaneità che a noi, nel 2024, ricorda le immagini dei libri di storia e poi i “neri” del nuovo millennio, agili e diretti nei loro lavori multimedia recentissimi, che esigono il riconoscimento meritato e da troppo tempo ignorato. E invece c’è di più di una semplice giustapposizione tra il vecchio che ha dominato e il nuovo che ha subito – e poi si è ribellato – in questa ultima, spettacolare narrazione della Royal Academy. Se infatti un confronto tra vecchio e nuovo c’è, da cui si legge che – negli anni d’oro dell’espansione coloniale in occidente (da cui il filantropismo e la nascita delle accademie come la RA.) – l’arte era una forma di colonizzazione domestica ed erano pochi gli artisti di colore che riuscivano a diventare uomini liberi (qualcuno in più invece i modelli), è anche vero che dei 50 artisti in mostra tutti sono Royal Academicians o comunque legati all’istituzione. Persone che hanno vissuto e fatto arte confrontandosi con le realtà del potere. È il cuore dell’entanglement che, ora come allora, l’Arte registra e quindi denuncia, sostituendo alla violenza del conflitto, la forza del dialogo.
Entrando, la prima sala è interamente dedicata a ritratti di uomini di colore, realizzati tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800 e provenienti da collezioni nord americane. Al centro il mezzo busto in pietra scura: Bust of a man, 1758 di Francis Harwood (1727-1783).
Dell’artista si sa che era britannico di nascita, fiorentino di adozione e che si era fatto un nome tra gli habitué del grand tour a cui vendeva sculture ispirate dai modelli antichi, come Bust of a man. Dell’uomo scolpito invece non è rimasto niente. Chi fosse, cosa facesse, se fosse il committente o un modello: sono domande senza risposte. Neanche della tela poco distante: Portrait of a man. Probably Francis Barber, 1770, sappiamo di più di quello che leggiamo nella didascalia, nonostante l’esecutore qui sia il famoso Joshua Reynolds (1723-1792), tra i membri fondatori della Royal Academy.
Certamente Reynolds restituisce al suo modello dall’identità opaca, una statura che non ha bisogno di presentazioni: la posa centrale sullo sfondo romantico e ventoso; il colletto bianco da studioso, una veste da camera abbozzata. Ma lo sguardo di Francis è altrove. Forse rivolto all’Africa? Al ricordo della traversata dall’Atlantico che per tanti “anonimi” come lui, era il prima oltre il quale la vita – se non finiva – comunque cambiava? Sembra quasi che questo generico “man” o probabile Francis, porti con sé una verità troppo profonda per lasciare spazio ad uno sguardo diretto tra uomo a uomo. Tra lui, Reynolds e noi.
Più avanti un altro grande ritratto di Reynolds dà una chiave di lettura di quegli anni ambiziosi e problematici. In Portrait of George, Prince of Wales, later King George IV, 1787, il futuro re è canonicamente reso nel suo prestigio imperialistico simboleggiato, oltre che dalla colonna romana sullo sfondo, anche dalla presenza della servitù esotica. Nello specifico un ragazzo di colore di cui non solo non conosciamo il nome, ma riusciamo solo a indovinare il volto giovane, il profilo morbido, la prontezza con cui aggiusta la fascia del pavoneggiante principe, appesantito dai numerosi apparati dell’ordine della giarrettiera. Il mantello di velluto con la croce rossa, una pesante catena d’oro, la giarrettiera sul polpaccio e, per finire, il cappello piumato che il reggente non indossa, ma è ripreso dalla capigliatura spumosa di un rosa fenicottero. Nel sistema monarchico, la servitù aveva (ed ha) la sua gerarchica eleganza e a servire il re, non arrivavano in tanti. Ma forse c’è un motivo, se questo giovane man aveva ottenuto un tale privilegio. Nel 1787 si erano da poco concluse le guerre di indipendenza americana. Nelle colonie, le rivolte degli abolizionisti si facevano forti del risultato ottenuto ed è plausibile che, nel Regno, delle concessioni alle popolazioni emigrate dalle colonie fossero un modo per calmare le acque.
Watson and the shark, 1778, frontale rispetto a re Giorgio, è un altro riferimento ad una contemporaneità definita dai rapporti turbolenti con i territori dall’altra parte dell’oceano.
Il committente dell’opera, Brook Watson, bostoniano di origine, ma naturalizzato inglese, in gioventù era sopravvissuto all’attacco di uno squalo. L’episodio, romanticizzato dall’artista: John Copley (1838-1815, al pari di Watson, americano di origine, ma poi emigrato in Inghilterra) fece scalpore quando fu esposto all’esposizione annuale della Royal Academy del 1778. L’incidente per mare metteva in scena i pericoli della tratta atlantica, presentando al pubblico elitario dell’accademia un evento di cronaca in cui la solida presenza del marinaio di colore che tende la mano a Watson in un simbolico, drammatico gesto di sollevamento, poteva essere letto come un riferimento alla necessità di mantenere “buoni” i rapporti con le popolazioni colonizzate. Armada, 2017-2019 di Hew Locke occupa l’area centrale della sala.
L’installazione mette insieme modelli di imbarcazioni che Locke ha collezionato per anni. Il veliero Mayflower, la nave mercantile The Bounty, navi da crociera come la Windrush e velieri dei pirati. Alcune imbarcazioni sono nuove, altre comprate, altre ancora assemblate da Locke con oggetti di scarto. “E’ una collezione di fantasmi del passato e realtà di oggi che navigano insieme”, spiega l’artista. Quei fantasmi imperiali padroni dei mari? Le nostre navi malandate e sovraccariche che trasportano migranti?
Il colonialismo con le sue imposizioni culturali, oltre che territoriali, investe i paesaggi di William Hodges (1744-1797). Vedute che concettualmente, per composizioni, distribuzione della luce, spersonalizzazione delle figure lontane e piccolissime, non si distanziano in nulla dal genere da Claude Lorrain fino a John Constable (contemporaneo di Hodges). Ma sono Tahiti e Benares (l’attuale Varanasi) i luoghi dipinti all’europea e che deliberatamente omettono dallo spazio pittorico le atrocità commesse per addomesticare le terre conquistate, presentate come paradisi di ozio e sensualità. A queste visioni di luoghi ameni fanno da contrasto Primitive Matters, Huts, 2010 e Woman moving-up, 2023. Il primo lavoro di Karen McLean (cresciuta nel Trinidad) è un’istallazione composta da 7 huts (capanne) fatte di legno e metallo, posizionate davanti alle proiezioni in bianco e nero di 7 magnifiche dimore coloniali a Port of Spain. Ville di una straniante opulenza – appartenute a leader di ordini religiosi occidentali, proprietari di piantagioni e imprenditori, che s’impongono sull’architettura vernacolare, piccola, povera, mettendo in moto una serie di questioni aperte, anche di natura ecologica. Woman moving-up di Ynka Shonibare, artista britannico di origini nigeriane da decadi esplora la natura trans- continentale, trans-culturale, trans-linguista e trans-artistica delle identità ibride come la sua.
Woman moving- up è una donna, la testa a forma di globo, il fisico sano, solido, degli abiti in batik di manifattura occidentale inizio ‘900, che sta salendo una lussuosa scalinata di marmo con ringhiere lavorate in ottone. La sua schiena è piegata. Dal peso delle valigie semiaperte da cui fuoriesce “roba” faticosamente comprata? Dalla salita in sé metaforica e reale? C’è la potente, dignitosa determinazione dell’umiltà in questa figura che sembra subire la fatica di tutte le situazioni di svantaggio. Il mondo le gira in testa, letteralmente. Le sue valigie e i suoi vestiti la identificano all’istante: è una migrante in cerca di fortuna in un occidente che si fa bello del lusso accumulato grazie allo sfruttamento di chi deve lavorare, emigrare e salire quelle scale. Cosa le resta? Solo insistere, un passo dopo l’altro, col mondo addosso; come hanno fatto i 6 milioni di afro americani che del 1917 al 1960 dal sud degli Stati Uniti hanno cambiato l’occidente.
Il tema del viaggio chiude la mostra in una simbolica immersione nell’acqua, vista come dimensione che conserva il nostro passato restituendocelo nel suo movimento perenne. Alle pareti i paesaggi marini di William Turner (1775-1851).
Whalers, 1845 (baleniere), è una glorificazione della spaventosa utopia acquatica e delle prodezze tecnologiche dell’Inghilterra industriale, dominatrice dei commerci sui mari. I paesaggi di Turner lasciavano perplesso il pubblico della Royal Academy, confuso dalla modernità che univa figurazione ed astrazione, dall’essenzialità del messaggio, dalla scioltezza dell’uso del colore e l’universalità di un approccio creativo al di sopra ed al di fuori del canone. Whale falls, 2017 (una balena che cade), di fronte, di Gallagher è in dialogo con Turner.
Non solo l’autrice, afroamericana, britannica ed europea si dichiara debitrice dell’ispirazione di Turner, ma ne porta avanti anche l’ambizione di catturare la vita acquatica. In Whale falls, un lavoro delicatissimo, su carta, si scende nei fondi marini insieme alle balene rese da ritagli neri applicati sul fondo di gradazioni di azzurro. Una discesa alle origini che, sulla scia di un fenomeno naturale – le carcasse delle balene che muoiono cadono sul fondo del mare dove diventano nutrimento per le creature sottomarine sostenendole per anni – fa riferimento al Middle Passage. Quella tratta triangolare tra Africa, Nord America e Gran Bretagna in cui tanti perdevano la vita, cadendo nei fondali dell’Atlantico come le balene.
I rumori del mare di Vertigo Sea, 2015 (monumentale video a tre schermi di John Akomfrah), fanno da epilogo a questa ultima sezione della mostra riassumendone un po' tutti i temi – il colonialismo, la schiavitù, le migrazioni, il rapporto tra uomo e mare e l’Arte come testimone, eredità e parametro di denuncia e bellezza. L’arte che si rinnova, rigenera e cambia.
Entangled Pasts, 1768–now, Art, Colonialism and Change
Royal Academy | Main Galleries | Burlington House
3 February - 28 April 2024
Immagine di copertina: Installazione. ‘Entangled Pasts, 1768–now. Art, Colonialism and Change’ at the Royal Academy of Arts, London (3 February - 28 April 2024), John Akomfrah CBE RA, Vertigo Sea, 2015, Courtesy Smoking Dogs Films and Lisson Gallery. Photo © Royal Academy of Arts, London / David Parry. © Smoking Dogs Films.