Artisti afroamericani alla Royal Academy

16 Aprile 2023

Souls Grown deep like the rivers, il verso di una poesia di Langston Hughes (1901-1967), è anche il titolo della mostra inaugurata a marzo alla Royal Academy of Arts di Londra. L’esposizione porta in Europa per la prima volta una raccolta di lavori di tre generazioni di artisti di colore del sud degli Stati Uniti che, in una dinamica di causa ed effetto, mettono in scena il conflitto razziale e il riscatto artistico, rappresentati sia dal riferimento a Hughes (poeta della rinascita dell’Harlem) che dalle storie personali e artistiche di uomini e donne che si sono difesi dalla segregazione, la marginalizzazione e le ineguaglianze economiche, creando.

Accomunati dalla scelta di non aver abbandonato la Georgia, l’Alabama, il Mississippi, paesi che fino a metà degli anni ‘60 del secolo scorso, conservavano le leggi di Jim Crow (che di fatto, dopo l’abolizione della schiavitù, mantenevano il segregazionismo, impendendo ai neri di frequentare le scuole dei bianchi, di accedere alle occupazioni più redditizie, di usare i servizi e i luoghi riservati ai bianchi), gli artisti in mostra sono sopravvissuti a quotidianità di discriminazione, precarietà e sfruttamento producendo quel genere di arte un po' amatoriale, un po' bricolage che si fa dopo il lavoro, di sera e nei fine settimana, con materiali da riciclo: rami d’alberi caduti, sassi, terra, mobili dismessi, elettrodomestici che non funzionano più, il fil di ferro, il cemento…. Roba assemblata senza pretese, lasciata in veranda e fuori in giardino come una forma di sublimazione e resistenza da portare avanti tra persone che hanno “anime profonde come i fiumi”. 

Blue Skies. The Birds that Didn’t Learn How to Fly (2008) di Thornton Dial (1928-2016) è un rimando diretto alle leggi di Crow. Sulla tela smaltata di un blu opaco, tagliata in orizzontale da un filo di rame, sono attaccati dei ganci. Appeso ad ogni gancio c’è un pezzetto di stoffa sporca, grigiastra: sono guanti spaiati, consumati, stropicciati; forme che, all’amo di quel filo, sembrano come uccelli morti, lasciati lì a ritornare polvere. Sono “gli uccelli che non hanno imparato a volare”? Un’allusione agli schiavi dell’Alabama che chiedono un riscatto? Tra scultura e pittura, il lavoro colpisce per un senso di rassegnazione all’ingiustizia del passato; per l’attesa fissata nello spazio di una tela che, registrando, accusa (anche se poeticamente), lasciando alle generazioni future il compito di rimediare e dare agli uccelli che verranno la possibilità di spiegare le ali. 

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Thorton Dial. 
Blue Skies: the Birds that Didn't Learn How to Fly, 2008, Stracci, filo di rame, viti, smalto su tela, Collezione Privata, New York City.

Sempre di Thornton e ancora più autobiografico, Tree of life (In the Image of Old Things) (1994) è un insieme di radici, rami, cartone, latta, stracci, che danno forma a un albero sistemato in un vaso fatto con vecchi pneumatici e ricoperto da getti di pittura. Subito dopo la scomparsa della prozia: Sarah Dial Lockett (famosa nella comunità per le sue creazioni di piumini patchwork), l’artista – che era legato profondamente a questa figura di riferimento sia materno che artistico, crea l’Albero della vita in suo onore. L’opera rappresenta non solo l’albero come metafora di radici, ma anche il complesso genealogico della famiglia Thornton con le sue intricate, impreviste ramificazioni (Thornton, illegittimo era stato tirato su da Sarah Dial) e la vitalità che si sprigiona dai rami, ordinati o disordinati che siano, e dall’energia di colori applicati liberamente nella tradizione dell’espressionismo astratto americano (1940-1950) e del dripping di Pollock. Ci sono anche i combines di Rauschenberg (1954-1964) nelle fusioni di Thornton tra pittura e scultura; delle combinazioni appunto attraverso l’uso di oggetti quotidiani; quelle vecchie cose (the old things) come il vaso fatto con i penumatici di Sarah Dial che, invece di essere buttate via, vengono portate a nuova vita.   

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Thorton Dial, Tree of Life ( In the image of Old Things), 1994, Legno, radici, pneumatici, fil di ferro, cartone, tessuto, smalto, composto sigillante, Museo di belle arti della Virginia. 

Alla Robert Rauschenberg (1925-2008) è anche “Keeping a record of it. (Harmful Music)” (1986) di Lonnie Holley (1950). Si tratta di un vecchio giradischi arrugginito su cui è poggiato un disco sbrecciato, spezzato, malridotto. Al centro, dove nei vecchi dischi si trovavano le etichette con il titolo e la casa di produzione, c’è il teschio di un animale non specificato. Negli anni ‘40 e ‘50 del secolo scorso in Alabama, la musica prodotta dalle comunità di colore era considerata pericolosa, tanto che spesso i genitori (bianchi) impedivano ai figli di ascoltarla per paura che potessero uscirne corrotti. Holley, musicista e narratore oltre che artista, ha deciso letteralmente di “keeping a record of it”, ovvero di mantenere vivo il ricordo di quegli anni, di quelle paure, di quelle chiusure verso la cultura nera, bollata come insidiosa e primitiva. In quest’opera l’artista critica quel passato spingendosi fino a provocare quei sospettosi indietreggiamenti occidentali rispetto alle pratiche ritualistiche del mondo africano (l’immagine del teschio legata alla morte, alla paura, alla magia). Allo stesso tempo Holley parla della sua identità di uomo di colore in un ambiente segnato prima dalla schiavitù e poi dalle leggi di Crow. Un uomo artista, archivista che recupera i fatti del passato attraverso gli oggetti buttati via da una società che corre avanti e dimentica, ossessionata dal nuovo e dominata dall’imperialismo dell’esclusività (al posto dell’inclusività).   

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Lonnie Holley, Keeping a record of it ( Harmful Music), 1986, Giradischi ( fonografo). Disco. Teschio di animale
Fondazione Souls Grown Deep, Atlanta.

Più avanti, Thornton jr (figlio di Thornton Dial) ricorda non solo la discriminazione razziale, ma anche uno dei più comuni falsi palliativi che l’accompagnano: l’alcol. In “King of the Jungle” (1990), l’artista salda una sedia a un tavolino di metallo. Su una delle estremità dello schienale della sedia incastra la testa di un animale che potrebbe essere una pantera o un leone nero. Il materiale della testa, simile a quello delle moquette, stacca con la rigidità del metallo, proponendo la giustapposizione tra una testa morbida, indebolita e un corpo rigido, resistente, ma avvolto dal giogo delle catene. Finanche la bottiglia poggiata sul tavolino, alias il dorso del re, è ricoperta da una spirale di catene come ad indicare che anche il falso sollievo dell’alcol è uno dei tanti espedienti dell’oppressore per tenere sotto il controllo feroce delle catene, la forza vitale del “re della giungla”.    

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Thorton Dial, jr, King of the Jungle,1990, Metallo fuso. Moquette.Composto sigillante industriale, smalto, Fondazione Souls Grown Deep, Atlanta.

Non tutto è denuncia in Souls Grown Deep like Rivers. Dancers (1960) di Eldren. M Bailey (1903-1987) è una celebrazione del movimento. La scultura, in cemento e stucco, si compone di due figure le cui forme allungate e flessibili richiamano le sinuosità dei corpi africani. Coinvolte in un passo di danza estremo, con uno dei due corpi che si lascia cadere quasi a terra di schiena, mentre l’altro lo accompagna con una mano, sorreggendolo con l’altra, le due figure danno un senso di felicità, leggerezza e feste all’aria aperta. Non a caso, le sculture di Bailey che di mestiere lavorava il cemento per loculi e sepolcri, rimasero per decenni esposte tutte nel suo giardino (trasformato negli anni in un museo a cielo aperto) prima di entrare a far parte della collezione permanente dell’istituto d’arte del Minneapolis.

Il riconoscimento tardo, spesso anche postumo alla morte è un altro degli aspetti che accumunano il gruppo di artisti in mostra, così come l’abitudine a non distinguere tra spazi domestici ed artistici. È nelle comunità afro-americane del sud che sono nati gli yard shows da cui l’omonima yard art. Proprio a causa delle leggi di Crow e della impossibilità per gli artisti di colore di frequentare accademie d’arte e di conseguenza di accedere ai circuiti convenzionali di esposizione come i musei e le gallerie, si sono sviluppate le “mostre in giardino” già a partire dagli inizi del novecento. È stato poi negli anni ‘50 e ‘ 60 che questo genere di esposizione ha acquistato un valore artistico all’interno dalle comunità afro- americane stesse, consapevoli di aver inventato nuovi spazi per la propria arte e di aver recuperato dagli strumenti del loro lavoro quotidiano, quelli per fare un’arte che celebra il quotidiano.

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Eldren. M. Bailey, Dancers. 1960 circa. Cemento, intonaco, pittura, Fondazione Souls Grown Deep, Atlanta. 

A chiudere questo cerchio che dall’esclusione porta alla conquista di un genere, la mostra dedica l’ultima sala ai piumini patchwork di Gee’s Bend, un’area situata intorno a uno dei tornanti del fiume dell’Alabama. L’ansa del Gee è un insediamento abbastanza isolato geograficamente e sede dal 1800 della piantagione di cotone di Joseph Gee (da cui il nome). Qui generazioni di artiste tessili (tra cui Sarah Dial) hanno prodotto centinaia di piumini patchwork. Nata inizialmente come necessità di procurarsi delle coperte per l’inverno usando tutti i tessuti a disposizione, dalle rimanenze dei sacchi di farina e cotone, ai vecchi indumenti e pezzi di jeans, questa tradizione comincia a evolvere in una forma d’arte quando gli yard shows diventano una pratica nella comunità e, nei mesi prima dell’inverno, i piumini vengono messi a prendere aria appesi in giardino, trasformandosi in ispirazioni di composizioni astratte en plein air.  

È commovente ritrovarli esposti sulle pareti della Royal Academy, nella loro verità di paziente manualità, nell’umiltà dei materiali sbiaditi dal sole degli yard shows quanto dall’uso, un inverno dopo l’altro, nel lento scorrere del tempo sulle sponde dell’ansa di Gee. Ed è soprattutto il contrasto tra le sale bianche, arcate di un’istituzione come la Royal Academy, che dal 1700 forma artisti in numeri ristretti, inserendoli nei circuiti “giusti”, insegnando agli “academicians” a vivere ed esercitare l’arte come una professione da ricchi e per ricchi, e poi lo spirito degli artisti in mostra: fai-da- te, artisti che si adattano, sperimentano e proprio per la mancanza di una formazione accademica, di risorse per comprare i materiali, di visibilità, si aggrappano all’arte come la sola forma di espressione libera, spingendola ai confini estremi della creatività, che fa di Souls Grown Deep like Rivers una mostra da vedere. Uno spazio di confronto non facile, ma anche di dialogo e di speranza, perché se attraverso il linguaggio dell’arte ci si può far ascoltare e capire nei momenti bui della storia dell’umanità, allora una strada c’è. 

Souls Grown Deep like Rivers. Black Artists from the American South, Royal Academy, Londra, fino al 18 giugno 2023.

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