What freedom is to me... Isaac Julian alla Tate Britain
L’esposizione presenta 11 video installazioni di circa 30 minuti ciascuno che coprono 40 anni della carriera dell’artista, dai film di denuncia degli esordi: “Who killed Colin Roach” (1983) sull’omonimo ventunenne di colore ucciso mentre stava entrando nella stazione di polizia da un poliziotto (mai incriminato) a: “This is not an AIDS advertisment” (1987), celebrazione del romanticismo gay, nostalgico e warholiano che alle politiche di terrore costruite intorno all’AIDS risponde con l’invito a “feel not guilt in your desire,” sublimando il desiderio omosessuale sullo sfondo di una Venezia crepuscolare. Più recenti invece i lavori sul fenomeno delle migrazioni, sullo sfruttamento e la questione aperta del colonialismo. Temi forti che stridono sugli allestimenti lussuosi dei sedili comodi, la moquette soffice, i rivestimenti alle pareti e – per ogni video proiettato su minimo 3 massimo 5 schermi giganti, una sala intera. Sorprende anche la scelta di attori Hollywoodiani, insieme a personaggi di mondanità come la principessa Carine Vanni Calvello Mantegna di Gangi che fa una comparsa in Western Union: Small Boats, (2007) per dare voce a delle realtà di sopravvivenza e lotta. Ma è un tratto artistico di Julien quello di usare le strategie di intrattenimento da film d’autore su tragedie contemporanee. Ed è grazie al contrasto tra la bellezza del desiderio senza scopi oltre la propria realizzazione e del fare spettacolo con l’arte contro il brutto che si ripete nell’oppressione della diversità, nell’abuso di potere e nell’indifferenza verso l’ingiustizia che i messaggi dell’artista stabiliscono un contatto (anche traumatico) con lo spettatore.
Once Again... (Statues Never Die) (2022) è il primo video entrando. La storia dell’incontro tra Albert Barnes (1872-1951) (interpretato da Danny Huston) il fondatore dell’omonimo museo di Philadelphia e l’architetto della Harlem Renaissance: Alain Locke (1885-1954) (nel video André Holland). Sullo sfondo delle sculture e dei quadri del Barnes Museum, gli oggetti d’arte del Rivers Museum di Oxford e le immagini d’archivio delle maschere africane conservate nei depositi del British Museum, Barnes e Locke conversano sull’influenza che ha avuto l’arte africana nelle correnti artistiche di inizio secolo (il modernismo), affrontando argomenti delicati come il colonialismo e l’imperialismo, rimandando anche a una possibilità di restituzioni all’epoca inconcepibile, ma oggi più che legittima. I piani riavvicinati dei due in bianco e nero si inseguono sugli schermi in un gioco con i dialoghi dando forma a un legame fatto di interessi e obiettivi comuni, ma anche di reciproche incomprensioni. Non a caso, pur essendo i protagonisti di una narrazione frammentaria, deliberatamente non lineare e, nonostante siano uniti nella volontà di ottenere il riconoscimento del contributo culturale (oltre che estetico) della tradizione artistica africana in occidente, Barnes e Locke non dividono mai un solo schermo, restando ognuno inquadrato nella propria linea di pensiero.
“Non ho riserve verso la scultura africana che considero alla pari rispetto agli incontestabili capolavori dell’arte contemporanea” – dice Barnes.
“Forse l’effetto più importante di considerazioni come questa è di mettere fine all’odiosa distinzione tra l’Arte con la A maiuscola per le forme di espressioni europee e un’arte definita esotica e primitiva per le espressioni degli altri” – aggiunge Locke.
Che non poteva che essere d’accordo con Barnes sulla visione dell’Africa alla radice del modernismo e in particolare delle sue forme più d’avanguardia, come il cubismo, ma gli obiettivi di Locke erano orientati a una rivalutazione più estesa della cultura nera. A un riscatto che restituisse la tradizione culturale negata dalla diaspora. Ed è infatti poco dopo, in una delle immagini iconiche del video: Locke ripreso a mezzo busto sotto la neve che gli cade addosso, ancorato alla sua dignità nel paesaggio freddo e inospitale del nord America, mentre riflette nostalgicamente sulla forza della tradizione negata alla sua gente: “Nothing is more galvanising than the sense of a cultural past...” che viene fuori la causa della distanza tra Barnes e Locke.
A chiudere il film, l’immagine dei due uomini che, dopo aver gettato le basi per un’interpretazione nuova e lungimirante sul modernismo, ritornano alle rispettive strade. Barnes tra la sua collezione d’avanguardia, faccia a faccia al ritratto fattogli nel 1926 da de Chirico e Locke sulle scale del museo e poi di schiena tra le enfilades di sale, a passi decisi sulle foglie autunnali che, insieme alla voce di Alice Smith, lo accompagnano verso l’uscita.
Lo ritroviamo in “Looking for Langston” (1989), il video vent’anni più giovane di “Once again…" che nel percorso espositivo è invece successivo. Locke ci appare in prima persona nelle immagini d’archivio inserite nella narrazione. Siamo ad Harlem negli anni ’20: le immagini, di nuovo in bianco e nero, scorrono fluide tra passato, presente, i sogni, le riflessioni. Protagonista della storia è un altro nome della “Renaissance”: Hugh Langtson (1902-1967), poeta, narratore, sceneggiatore, attivista habitué dei locali gay tra la Lenox Street e la Settima Avenue. Era lì che si riunivano gli artisti di quegli anni, tra cui Langston, il più privato omosessuale di Harlem –secondo Locke che allude a certi “sguardi non corrisposti” tra loro. Eppure, è Langston l’uomo scelto da Julien per rappresentare la doppia discriminazione subita dall’omosessualità di colore. È suo il volto della vulnerabilità nelle cacce allo sguardo dei night clubs; quel mondo di conquiste e sconfitte impaziente del desiderio proibito che si consuma e riaccende nelle danze, nella poesia, nell’idealizzazione alla Mapplethorpe del corpo nudo, nero, gay. La sublimata, fumante resa che ne dà il film è uno spettacolare riscatto dell’omosessualità illegale e notturna.
Ma sono poi i risvegli di giorno, i versi di Langston, le immagini d’archivio di un artista (Richmond Berthé) (1901-1989) che simboleggia tutta l’arte mentre lavora en plein air con il suo cavalletto davanti a Brooklyn Bridge, quelle che restituiscono alla cultura nera la tradizione tanto voluta e cercata da Julien.
“Cercavo un tradizione d’arte nera e guardavo all’ America… Poi ho finito di studiare arte (a Londra) e mi sono avvicinato ai movimenti artistici di colore che non erano altro che la Harlem Renaissance...” spiega l’artista in conversazione con Hilton Als per la presentazione del video alla Victoria Miro Gallery (Londra, 2022).
La ricerca, come tema, torna in Western Union: Small Boats, (2007) nelle immagini di una donna probabilmente africana che cammina sola sulle spiagge di Lampedusa raccogliendo i vestiti che le maree portano a riva, senza più i corpi che li hanno indossati... Quando non cerca, la donna aspetta, seduta su uno scoglio davanti al mare piatto ed ha la stessa rassegnazione con cui aveva sollevato dall’acqua le magliette. Il film è a colori questa volta, né ci sono spezzoni di vecchi documentari ad alleggerire la tragedia della nostra contemporaneità (che dal 2007 ad oggi è solo peggiorata). La danza rimane però non solo nei passi della donna talmente leggeri che sembra non si poggino a terra come se, dopo essersi salvata, fosse diventata un fantasma. La danza resta anche in corpi giovani senza volto, che compaiono di tanto in tanto sott’acqua, come dei serpenti marini. Sono le anime di chi non ce l’ha fatta? Nelle loro acrobatiche lotte questi corpi ad un certo punto riemergono. Attraversano la spiaggia – sempre avanzando ad attorcigliamenti. Si arrampicano sulle rocce, arrivano in paese, salgono e scendono le scale del principesco Palazzo Valguernera – Gangi (di Carine...). Poi spingono le porte del grande salone verde e d’oro – scenario delle riprese di Luchino Visconti nel film sui principi di Salina – e vanno avanti nei contorcimenti sopra le piastrelle che disegnano il Gattopardo. È lì che muoiono? Sopra l’immagine di un simbolo che veglia sui morti blasonati e su chi non è mai arrivato vivo sulle rive di roccia e sabbia dell’isola?
In loop con “Western Union”, “Ten Thousand Waves” (2010) approfondisce il tema delle migrazioni. Il video esordisce con le immagini di un drone che ispeziona la baia di Morecambe in Gran Bretagna durante una notte di mare agitato, pioggia, vento. Ci sono 20 uomini nella baia impiegati nella pesca di molluschi. “There are some people” – dice una donna durante una chiamata di emergenza. “How many?” – rispondono. La conversazione va avanti, gli uomini vengono identificati come cinesi, si viene a sapere cosa fanno e che non parlano inglese; le onde montano e il tempo passa finché si vede il puntino di un solo uomo riuscito a raggiungere la riva. L’unico sopravvissuto. La narrazione continua a ritroso, si sposta in Cina all’inizio del viaggio dei 20 migranti, partiti dal loro villaggio vegliati dalla divinità Mazu, interpretata da Maggie Cheung. Lo spirito è inquieto, forse già al corrente della fine tragica che gli aspetta?
Alle immagini di una Cina di campagna si sovrappongono scene sulla Pechino vecchia in cui una nostalgica Zhao Tao vestita stile anni ‘30 è coinvolta in una conversazione di parole dette e non dette con l’artista/regista Yang Fudong.
Il detto-non detto dei dialoghi incorporati nel dinamismo di musiche e immagini si ripresenta nell’installazione a tre schermi: “Lina Bo Bardi – A Marvellous Entanglement” (2019) in cui l’architetta italiana modernista: Bo Bardi, è interpretata da Fernanda Montenegro e Fernanda Torres (figlia di Montenegro). Sullo sfondo un gioco movimentato di inquadrature sui sette dei palazzi modernisti progettati da Bardi, incluso il Museo d’arte Moderna di Bahia in cui si gira la famosa scena di danza sulle scale.
La mostra si chiude con Lessons of the Hour (2019) e Vagabonda (2000). Il primo racconta il viaggio di 2 anni e mezzo dello scrittore abolizionista Frederick Douglass (1818-1895) interpretato da Ray Fearon. Nell’installazione a 10 schermi, Douglass attraversa gran parte della Gran Bretagna e dell’Irlanda per fare propaganda contro la schiavitù.
Il secondo è un montage a due schermi che gioca sul senso del doppio nel suggestivo Soane Museum di Londra. Tra le stanze della casa museo del celebre architetto (Soane), si aggira una donna, la sua voce è roca, la lingua creola: è la voce della madre di Julien che racconta episodi della sua vita mentre un ballerino vestito stile Regency – che simboleggia il ritorno del represso, dell’autentico, di una vitalità non catalogabile, non collezionabile tra le vetrine del collezionista amante dell’antichità Joan Soane cerca di dirci qualcosa.
Da Once again a Vagabonda la mostra si chiude in un cerchio al cui interno si agitano energie contrarie, quella di un occidente bianco che colleziona, cataloga, accumula oggetti, culture, la storia di uomini e donne e poi chiude tutto in definizioni, dietro le vetrine dei musei e dall’altro verso la forza della vitalità rappresentata dall’Africa che ispira, dalla danza che agita, dall’omosessualità che sfida e da un tempo che si libera dalla linearità per diventare spazio del succedere.