Freud e l'antichità. Una mostra a Londra
Si è da poco conclusa al Freud Museum la mostra su una selezione degli oggetti di Freud. Una collezione tra libri, pubblicazioni, antichità, stampe, fotografie e corrispondenza (disponibili anche online) che esplora non solo la grande passione che Freud aveva per l’antichità classica, il mito, i viaggi e l’amicizia, ma anche come abbia abilmente usato i suoi interessi per il collezionismo intrecciando il mito e le scoperte dell’archeologia allo sviluppo della psicoanalisi.
In un botta e risposta tra oggetti e teorie, lettere, pubblicazioni, viaggi e souvenirs, Antiquity, Object, Idea, Desire è sia una biografia di Freud attraverso le cose che ha lasciato, sia la dimostrazione di quanto queste cose l’abbiano ispirato nelle sue indagini alla ricerca dell’uomo. Dalle prime esperienze alla Salpetrière a cui fa seguito L’eziologia dell’isteria (1896) fino a “Mosè e il monoteismo” (1939), l’esposizione ci porta nell’intimo del processo creativo dei pensieri di Freud. Un luogo che a quasi 100 anni dalla morte del suo artefice, colpisce ancora per l’appassionata interdisciplinarità, lo slancio della curiosità e un mettersi in gioco in prima persona per arrivare a capire cosa muove l’ambivalente/ ambiguo/ inafferrabile desiderio.
Jean-Martin Charcot
La riproduzione di “Une leçon clinique du Dr. Charcot à la Salpetrière” (1888) comprata a Parigi durante un soggiorno studio di 4 mesi di ricerca nel rinomato ospedale psichiatrico. La foto di Charcot del 1886 con dedica e ringraziamenti dello stesso per delle traduzioni in tedesco fatte da Freud di alcuni scritti francesi del neurologo. Una maniglia romana del primo secolo AD a forma di un ginnasta che inarca la schiena. Sono i tre oggetti in ricordo dell’anno parigino alla Salpetrière che Freud conservò a vita riuscendo a portarli con sé da Vienna a Londra quando nel 1938 scappò per rifugiarsi nella casa sulla collina di Hampstead dove visse fino alla morte nel ‘39.
A Maresfield Gardens la stampa di Charcot era sopra il lettino; un approdo non ovvio per gli occhi in fuga dai possibili incroci di sguardi con l’analista seduto dietro la scrivania, la pipa in bocca e il fumo che aromatizzava la stanza posandosi sui mobili viennesi, i tappeti e la collezione di antichità. Freud non incoraggiava a tenere gli occhi chiusi, non praticava l’ipnosi (metodo invece usato da Charcot); le sue “malate” erano diverse rispetto alle “ospiti” della Salpetrière mantenute nell’ignoranza della propria isteria così come delle loro origini spesso poco fortunate. Le donne che analizzava Freud erano tra le più ricche, sofisticate e colte d’Europa (fu grazie a loro che riuscì a scappare da Vienna); persone consapevoli di quello a cui andavano incontro inoltrandosi nei meandri dell’inconscio e che, sicuramente, guardando la stampa, erano in grado di riconoscere non solo Charcot ritratto durante una delle sue dimostrazioni alla platea di studiosi, ma anche gli altri personaggi storici tra cui scrittori, artisti, politici che ogni settimana affollavano la Salpetrière. Probabilmente sapevano anche che Freud aveva fatto parte di quella platea a Parigi agli esordi del suo viaggio dalla neurologia alla psicoanalisi distanziandosi poi dal neurologo francese, senza rinunciare al legame con l’autore dei primi slanci di indagine sulla malattia mentale.
Alle pazienti emancipate di Maresfield Gardens, la stampa su Charcot doveva da un lato dare conferma che le “stranezze” di cui soffrivano avevano una sorta di diagnosi, visto che se ne occupava l’ospedale psichiatrico più importante al mondo. Dall’altro la garanzia che l’analista a cui si erano affidate aveva partecipato in prima persona al grande movimento inaugurato alla Salpetrière. E a questo punto viene da domandarsi se sapessero anche che, se da Charcot non si andava oltre ai sintomi dell’isteria scrupolosamente identificati, classificati ed archiviati in quadri, stampe, fotografie e dimostrazioni dal vivo (come quella ritratta in “Une leçon…” con la paziente che sviene replicando la figura del quadro a fondo sala, nella posa sintomatica definita arc en ciel, mentre Charcot, imperturbabile, spiega i sintomi alla platea) da Sigmund Freud si andava oltre i sintomi per arrivare alle cause.
Oedipus Rex
In una lettera all’amico Wilhelm Fliess del 1896, Freud scrive: “…ho trovato in me stesso quel fenomeno di innamorarsi della propria madre e di essere gelosi del proprio padre. Lo considero un evento universale della prima infanzia… che ci colpisce così tanto perché potrebbe essere il destino di ognuno di noi.” La classicità era tornata di moda in Europa dopo le scoperte di Pompei ed Ercolano a metà ‘700; Sofocle stava vivendo una gloria rinnovata nei teatri di Vienna ed anche se Freud non andava molto a teatro, l’entusiasmo era nell’aria. I romantici avevano elevato l’Edipo incestuoso e parricida a vittima del destino, a eroe che si ribella alla tirannia degli oracoli in nome della libertà. Il re di Tebe era una figura paradigmatica della condizione umana anche nell’interpretazione che ne faceva Freud, ma più che una lotta esterna per la libertà, quella di Edipo per Freud era stata una battaglia contro il desiderio primordiale. Certo, con una lucida, illuminata intelligenza Edipo aveva salvato Tebe dalla peste risolvendo l’enigma nel famoso testa a testa con il mostro dal corpo leonino, la testa umana e le ali di un volatile, ma poi – accecato dalla vergogna – non aveva salvato sé stesso. Nel suo tormentato scontro tra l’irrazionalità del desiderio inconscio e la volontà di non ammetterlo c’era il nodo dell’indagine che cominciava a profilarsi negli scritti di Freud, tra cui L’interpretazione dei sogni (1899) dove compare per la prima volta il mito del re di Tebe.
Il doppio volto di Edipo illuminato e abietto era diventato per Freud quasi un’ossessione… Sia a Vienna che in seguito a Londra, aveva accumulato antichità, stampe, libri sul mito: la riproduzione dell’Edipo vincente, pulito e classico di Jean-Auguste-Dominique Ingres (versione del 1808-27), un’hydra del 400 AC conservata in vetrina con lo stesso episodio. Per il suo cinquantesimo compleanno gli amici gli avevano fatto fare una medaglia incisa su entrambe le facce con da un lato il suo profilo (allusivo alla Sfinge) dall’altro la sua figura intera in piedi, nuda, nella posa dell’Edipo pensatore che sfida la misteriosa chimerica irrazionalità che fa parte di ognuno di noi. “È l’uomo quell’animale che cammina a quattro zampe da piccolo, a due da adulto ed a tre da anziano.” Se Edipo aveva riconosciuto nell’uomo la soluzione dell’enigma, allora Freud avrebbe risolto il mistero di chi è l’uomo.
Gradiva
Non solo il mito, ma anche e soprattutto la sua riattualizzazione grazie alle scoperte dell’archeologia affascinava Freud. La ricerca del passato rappresentava un parallelo vantaggioso per la psicoanalisi. Così come il passato è seppellito da strati e strati di materia, allo stesso modo i primi moti del desiderio vengono sotterrati nell’inconscio e dimenticati finché un bel giorno ritornano in superficie, come Pompei ed Ercolano. Il paragone non solo sfruttava il grande interesse per le scoperte archeologiche, ma anche la natura di evidenza, fatti e verità di questa nuova scienza.
Tra le tante riproduzioni di rimando alle gloriose scoperte archeologiche sull’antichità classica che si facevano eco sulle pareti dello studio di Freud, non poteva mancare la copia del basso rilievo di “la donna che cammina”: Gradiva. Freud aveva letto: Gradiva una fantasia pompeiana (1902), il romanzo di Wihelm Jensen (in mostra) che raccontava la storia di un archeologo, folgorato dalla bellezza della scultura greca mentre visita i musei vaticani. Questa figura aerea, ma decisa, lontana e intanto così fisica a piedi scalzi e le forme piene sotto le increspature dei drappi. Da Roma l’archeologo va a Napoli e poi a Pompei alla ricerca della donna che dopo l’incontro ai musei, gli era apparsa sogno. Ed è proprio nella città sepolta e riemersa che la ritrova in carne ed ossa. Dal vivo Gradiva non è più una scultura attica, ma Zoe Bertgang, un amore d’infanzia. Quindi era sempre stata solo Zoe la donna che l’archeologo aveva cercato o in Zoe aveva ritrovato l’ideale di cui si era innamorato? Nel 1907 Freud scrive Il delirio ed i sogni nella Gradiva di Wihelm Jensen (in mostra). Nel saggio, più che soffermarsi sull’archeologo di cui si limita a dire che – partito alla ricerca delle origini della civiltà, era riuscito solo a ritrovare le origini del proprio desiderio – Freud punta tutto su Zoe vista come un’analista impegnata a dissotterrare il desiderio che l’archeologo aveva sempre avuto nei suoi confronti, in forma repressa. Ed intanto Zoe (alter ego delle sue ricche, emancipate pazienti?) non avrebbe potuto niente lontana dallo scenario di Pompei. Senza quel contesto che interrando, preserva esattamente come la repressione – Zoe psicologa/ archeologa non avrebbe potuto liberare il suo vecchio compagno di scuola dal desiderio erotico che si era mantenuto vivo, pulsante e nascosto nel suo inconscio. “Quello che è stato represso ritorna a suon di picconate” – scrive Freud. Ed è curioso che tra i suoi reperti antichi preferiti sulla scrivania ci fossero Atena e un Guerriero Etrusco, entrambi senza lancia (in mostra).
Questi ed altri gli aspetti che mettono in luce gli oggetti della collezione di Freud in relazione alle sue teorie; tra cui – freudianamente – anche il concetto di catessi, l’investimento di forze mentali ed emotive verso un oggetto, una persona o un’idea. Non è stato forse il profondo, intenso interesse che Freud sentiva verso alcuni oggetti a stimolare il suo pensiero, mantenendolo vivo fino all’ultimo?
In copertina, Veduta d’insieme. Gradiva. Calco in alto rilievo. Europeo, 1988. Courtesy of Freud Museum London.