Mario Schifano, Il nuovo immaginario
Si parte dai monocromi degli anni ’60. Dei lavori che, oltre la cronologia e la scelta di Schifano di concentrarsi sulle combinazioni del rosso con il bianco ed il nero, condividono la resa in smalti industriali applicati su carta d’imballaggio montata su tela. Una tecnica che se nasce dal desidero di quegli anni di ricominciare da zero non solo a livello dei materiali, ma anche come scelta ideologica di dare alla pittura dei contenuti capaci di celebrare l’opera come oggetto, (si pensi ai monocromi di Fontana e Manzoni, all’espressionismo astratto di Rothko, di Pollock, a Jasper Jones), in Schifano sembra piegarsi anche ad esigenze pittoriche di sperimentazione concettuale. La tensione tra antico e moderno c’è, ma è soprattutto quella tra un’impronta di classicità che traspare dalle colate dense di smalto sulla carta, dall’applicazione irregolare del colore – quasi un tentativo di creare un effetto di patina di rossi pompeani, bianchi avorio e neri funerei e poi la modernità esaltata dai titoli (Tempo Moderno appunto) oltre che dalle composizioni a inquadratura. Come se ogni opera fosse un mondo nel mondo. Uno spazio di meditazione fissato dall’occhio dell’artista attraverso il visore di una macchina fotografica.
Curata da Massimo Barbero ed in collaborazione con l’archivio Schifano che proprio pochi mesi fa ha pubblicato il primo volume del catalogo ragionato: Mario Schifano, le opere pittoriche, anni ’60 (2023), la mostra raggruppa circa 50 opere provenienti dalla collezione di Intesa Sanpaolo (Agrati), dal museo del Novecento di Milano, dalla Galleria d’Arte Moderna di Venezia, da collezioni private e di galleristi storici. “Scegliere 55 opere che rappresentano 30 anni dell’artista forse più vitale dell’arte italiana è stata l’impresa più appassionante” – spiega Barbero. – “Il pubblico vedrà opere mai esposte prima”
Organizzate per temi le opere si concentrano su 3 decadi della produzione dell’artista che riflettono non solo sulle qualità pittoriche dell’opera indipendentemente dai movimenti via via abbracciati, ma anche sul rapporto con la tecnologia, per la critica nostrana ed estera, uno dei lati più audaci di Schifano.
Dalla fine degli anni ’50, Schifano aveva cominciato a maneggiare una Rolleiflex usandola come uno strumento per immagazzinare immagini, ma anche per guardare la realtà attraverso un filtro. Propaganda (1962) della serie insegne, è un frammento del logo della coca cola fatto di smalti rossi e bianchi applicati su carta proletaria, marroncina. In Segno d’Energia, (1965), Esso, il simbolo della famosa società petrolifera statunitense è doppiato come fosse visto da un occhio affetto da diplopia. Sono parti di una visione d’insieme, immagini fissate da uno scatto; ritagli di realtà che non hanno bisogno di essere visti nella loro interezza per comunicare. Bastano una “a”, un trattino e la “C” per rimandare a una marca talmente parte del quotidiano che non serve riprodurla per intero. Idem per la scritta della Esso che si riconosce in automatico da qui all’altra parte dell’Oceano. C’è un messaggio nelle insegne? Una critica alla società dei consumi che bombarda, manipola, crea falsi bisogni? Come la Pop Art che usa il linguaggio della pubblicità (creato dalla società dei consumi) per criticare questa stessa società, mettendone a nudo i contenuti (vuoti) e le intenzioni (di sfruttamento), c’è anche in Schifano (che crea la serie sulla Coca Cola pochi mesi dopo il celebre dipinto Green Coca Cola Bottle (1962) di Warhol) una sorta di stratificazione di messaggi anche se meno polarizzata.
Da un lato Schifano celebra il linguaggio pubblicitario, efficace, attraente, economico, dall’altro non può fare a meno di tradire un innocente gusto per la pittura in sé. Un godere dei colori che colano, della qualità assorbente della carta industriale, delle linee stilizzate, della qualità di sintesi dei loghi. Un piacere che prevale sulle riflessioni (più o meno ambivalenti) sulla società dei consumi. Dei rimandi a meta pensieri semmai sono rivolti più al nuovo modo di vedere ed interpretare il mondo attraverso lo sguardo di analisi, scomposizione e ricomposizione dell’obiettivo.
La fotografia è ispirazione tecnica, ma anche riserva di memoria nelle due serie che caratterizzano la fine degli anni ’60. Le oasi che rimandano all’infanzia dell’artista nato ad Homs durante un soggiorno della famiglia in Libia dovuto ad un incarico del padre archeologo a Leptis Magna. Quella sul futurismo che omaggia e riattualizza un movimento di grande ispirazione per Schifano appassionato - come i futuristi - di modernità, velocità, della città. Futurismo Rivisitato (1966) è una delle tante versioni di un lavoro ricavato da una foto famosa del gruppo dove i fantastici 6 sono resi in sagome di un nero opaco e rosso acceso dai contorni sfumati su cui lo spray crea un effetto da street art; una sorta di patina urbana per il gruppo metropolitano. Palma e stelle e Tutte le stelle entrambi del 1967, sono immagini che ancora una volta collegano classicità e modernità, i celi stellati del mediterraneo, ma anche le stelle fluorescenti del nuovo mondo.
Questi lavori rappresentano anche un inaspettato ritorno alla figurazione che prosegue nella serie Paesaggi TV. Opere straordinariamente innovative, nate da foto di schermi televisivi stampate su tele emulsionanti su cui poi l’artista applica il colore. A quale prezzo? “Mi ha nevrotizzato” – confessa Schifano a proposito della televisione ad una giornalista che nell’intervista del 1983, Mario Schifano, Ricomincio da me, gli domanda se fosse vero che aveva passato mesi a casa, da solo con i televisori accesi giorno e notte. Ed era vero quanto che la nevrosi l’accompagnerà per un decennio in cui dai paesaggi TV d’esordio dove le immagini catturate sembrano meno significative del fatto di catturarle, stamparle, colorale, renderle altro da sé ed allo stesso tempo inequivocabilmente schermi, si passa ai paesaggi dedicati agli artisti come Picasso, De Chirico e Leonardo. Colpiscono della serie i lavori dedicati a un De Chirico rivisitato attraverso i nuovi media, ma anche Untitled (1976) che un po' sull’orma delle serigrafie di Warhol, crea una ripetizione di volti alternando il primo piano ravvicinato del pittore malagueño ai primi piani più famosi delle figure create dell’artista. A dividere e spezzare questi volti che ci guardano mentre li guardiano, i contorni neri dei televisori.
“Guardare la televisione è un posto. I posti poi uno se l’inventa con la fantasia, ma poi neanche tanto con la fantasia, relazionandosi con essi o con le cose che succedono” dice Schifano. Siamo negli anni ’80 ed è il grande ritorno alla figurazione con le tele equestri tra cui Gaston a cavallo (1986), l’unica opera della serie in mostra. Ancora è la tecnica che traina: mista e trasbordante tanto da includere la cornice con una tavolozza arricchita dai gialli, le variazioni di blu, l’arancione e quel rosso pompeano e terreno che crea la base su cui poggia il cavallo. Non è una base marmorea e Gaston è un nome comune per un cavallo da corsa anche se in realtà sarebbe quello della figura. Ma il senso della corsa resta nella posizione centrale del cavallo e della figura quasi in posa, che dominano e disegnano lo spazio della tela, creando profondità ed allo stesso tempo dando quasi un senso di tempo che si ferma in uno scatto prima che si cominci a gareggiare? Tecnicamente Gaston a cavallo s’inserisce in tutta una serie di quadri che Schifano realizza utilizzando probabilmente dei proiettori, per fissare l’immagine del cavallo sulla tela ricalcandone poi i contorni prima di applicarci il colore.
Concettualmente la serie è una virata significativa dall’astrazione verso la figurazione che seguirà nelle tele giganti con cui si chiude la mostra. Gigli d’acqua, Acerbo (1987) misurano 200 x 300 cm circa, sono su tela, fatte con acrilico e smalti e sebbene segnino un ritorno al figurativo è sempre mediato dall’astrazione. “…una deriva creativa, un edonismo per il colore, una pittura sempre di superficie realizzata spesso all’aperto, a volte davanti al pubblico” – spiega Achille Bonito Oliva sintetizzando così gli anni ’80 dell’artista.
La mostra termina qui lasciando aperta la possibilità di un finale sulla quarta decade: gli anni ’90, preannunciata dal monumentale Per esempio (1990), della collezione Jacorossi. Un immenso collage di schermi (650 x 500 x 4 cm) che fissano il presente (l’ormai già lontano 1990). È un’immagine di dinamismo, d’inafferrabilità, irriducibile ad una coerenza che sembra nascere dal desiderio di Schifano di venirne almeno un po' a capo mettendo in gioco tutta la sua esperienza da archeologo con il padre a Villa Giulia, da fotografo, da sceneggiatore e nevrotico ossessionato dalla televisione per lasciare ai posteri il senso del passato che parla e la fiducia nel futuro che ascolta.
In copertina, Mario Schifano. Per esempio. (1990). Acrilico su stampa in digitale a plotter su PVC. Collezione Ovidio Jacorossi.